sabato 28 maggio 2011

L'ora di pietra

AUTORE: Margherita Oggero
GENERE: Romanzo di formazione

TRAMA:

I suoi primi tredici anni Immacolata, per tutti Imma, li ha vissuti in un paese del profondo Sud dove la legge è quella dettata dal boss locale e le donne sono diritto degli uomini. Testimone, non vista, di un terribile delitto, Imma cresce cercando di dominare la propria indole selvatica e indipendente. In seguito a un suo gesto di coraggiosa ribellione, la famiglia decide di mandarla al Nord nascondendola a casa di una zia sconosciuta. Imma si trova allora a fare i conti con la ragazza che non si era accorta di essere, con la donna che vuole diventare... Nelle lunghe ore solitarie tra le mura dell’appartamento della “zia scaduta”, dietro la finestra, unico contatto col mondo, aspetta la magica ora di pietra, in cui tutto sembra fermarsi e la verità delle cose si rivela nel silenzio. Ma la vita vera non si ferma ed è solo violando la sua prigione che Imma conoscerà il giovane venditore di libri usati e la più meravigliosa delle evasioni: seguendo con trepidazione le vicende di Anna Frank, quelle di Michele Amitrano – il protagonista di Io non ho paura – o di Oliver Twist, Imma troverà ancora una volta il coraggio per un gesto di libertà...

INCIPIT:

La zia non è buona nè cattiva, più che tutto è scontenta e qualche volta arrabbiata.Io non so come sono, so soltanto che vorrei non essere io ma un’altra persona e avere un’altra vita. oppure non averla avuta, perchè prima, cioè prima di nascere, non si sta male, non si sta e basta. Quando mi metto a pensare a queste cose mi viene la gola stretta e voglia di piangere, però non piango perchè non serve, mi metto invece seduta dietro la finestra che dà sulla via e guardo giù. intanto il tempo passa.
La via è abbastanza larga, e dal terzo piano riesco a vedere più di mezza strada e il marciapiede di fronte. Vedo anche, si capisce, le facciate di quattro case, con le finestre e i balconi. I balconi hanno le ringhiere mangiate dalla ruggine e sono pieni di piante in vaso.
Piante finte, con i rami un po’ rotti e coperte grassa, comprate dai cinesi, tutte uguali con le foglie venate di rosso, larghe e lunghe. Stanno contro le ringhiere a fare siepe, ma di sera vengono spostate, tutta una foresta di piante che si muovono, così i padroni con le parabole satellitari nascoste dietro i vasi possono prendere programmi tv dei loro Paesi.
Si, perchè in questa strada di periferia ci vivono quasi solo immigrati, soprattutto dall’Africa, neri e arabi, oltre alla zia scaduta, che immigrata lo è pure lei, anche se da più vicino e, con lei, io.
La parabola lei non ce l’ha, dice che ce l’aveva una volta, ma era di seconda o terza mano e la tele si vedeva un po’ si e un po’ no, così la buttata nel cassonetto insieme con le piante dei cinesi.
Il fatto è che, per prendere bene i programmi dal satellite, l’antenna andrebbe messa tutta all’esterno, ma è vietato e i vigili se la vedono danno la multa e la fanno togliere. Dalla parte del cortile non serve metterla, perchè lì il segnale non arriva, sul tetto invece sì, ma il padrone di casa non vuole e poi bisognerebbe anche chiamare un antennista che costa tanto. 
A me della tele non mi importa granchè, mase anche mi importasse farebbe lo stesso, perchè alla sera la zia i programmi li sceglie lei e di giorno, quando va a lavorare, si porta dietro il telecomando così, dice, non guardo delle schifezze che poi mi rovinano la testa.
Dice così, ma io so che è per non spendere troppo nella bolletta della luce, infatti in casa le lampadine nel soggiorno angolo cottura sono svitate una si e una no e nello sgabuzzino dove dormo io c’è solo un piccolo neon che da una luce ghiacciata da frigo. Nella sua stanza invece c’è una lampada sul comodino da notte e quella ha una lampadina forte, ma non la accende mai perchè, non tirando giù tutta la tapparella, la luce della strada le basta per svestirsi. Dopo, come mette la testa sul cuscino, si addormenta subito perchè il notaio la manda di qua e di là tutto il giorno a fare la coda negli uffici e alla sera è stanca da morire, dice.
Stanca è stanca, ma il sonno le viene subito perchè prende le gocce. Forse non è tanto buona e anche un po’ bugiarda. E il telecomando forse se lo prende per dispetto, per vendicarsi del fatto che mi hanno portata qui.


Quattro Amici

AUTORE: David Trueba
GENERE: Romanzo di formazione

TRAMA:

Moderni moschettieri su uno scassato furgoncino, quattro amici in crisi da maturità si lanciano in un improbabile viaggio per strappare un po' di tempo all'esistenza e riaffermare la propria voglia di ribellione e divertimento. Solo, ventisettenne oppresso da genitori troppo perfetti e dal ricordo di una ex che sta per convolare a nozze; Blass, grasso e goffo, alla frustata ricerca di un amore; Claudio, tombeur de femmes che vive solo per l'amicizia, Raul, precipitato dalle fantasie sadomaso a un tranquillo menage familiare con due gemelli a carico. Su un furgoncino di seconda mano che olezza di formaggio, i quattro decidono di concedersi un agosto da leoni, illusorio risarcimento dalla quotidianeità. Da Madrid a Valencia, da Saragozza ancora a Madrid, attraverso una scia di risse, ubriacature, cuori infranti e amplessi frettolosi, rinsalderanno la propria amicizia in una tardiva fine dell'adolescenza. Un caleidoscopio di avventure, un romanzo acido e melanconico che ha il ritmo del miglior cinema.

INCIPIT:
Ho sempre avuto il sospetto che l'amicizia venga sopravvalutata. Come gli studi universitari, a morte o avere il cazzo lungo. Noi esseri umani esaltiamo i luoghi comuni per sfuggire alla scarsa originalità della nostra vita. Ecco perchè l'amicizia viene rappresentata con patti di sangue, lealtà eterne, e addirittura mitizzata come una variante dell'amore, più profonda del banale affetto di coppia. Eppure non dev'essere un vincolo tanto solido, se l'elenco degli amici perduti è sempre più lungo di quelli conservati. Il padre di Blas ci ripeteva sempre che la fiducia negli altri è un segno di debolezza, ma per lui ogni barlume di umanità era roba da checche. Colonello della riserva con simpatie naziste universalmente note, non attribuivamo grande valore alle sue opinioni. In fondo era più saggio quello che un tizio, finito lungo disteso sul pavimento di un'osteria, un giorno ci aveva gridato: "Io agli amici non racconto le mie pene; chi vuole divertirsi, vada a fottersi sua mdre". L'amicizia mi è sempre parsa un cerino che è meglio spegnere prima di bruciarsi le dita, eppure quell'estate non avrei potuto concepire le giornate senza Blas, senza Claudio, senza Raul. I miei amici.
Claudio lo aspettavamo da più di un'ora da El Mano, e anche se all'inizio avevamo optato per la prudenza (una Coca-Cola e due minerali), poco dopo sul tavolo si allineavano i boccali di birra vuoti e avevamo ingurgitato cpsì tante ali di pollo che da un momento all'altro avremmo potuto spiccare il volo. Un giorno abbiamo fatto il conto e siamo arrivati alla conclusione che passavamo più tempo ad aspettare Claudio che insieme a lui. Aspettare Claudio era una parte fondamentale della relazione con Claudio. Aspettarlo era il nostro modo abituale di stare con lui.
“Io non arrivo mai tardi, perchè il tempo che le persona passano ad aspettarti lo impiegano per pensare a te, e stai tranquillo che ti scoprono qualunque difetto. E magari quando arrivi hanno preferito andarsene.” Raùl, tanto insicuro quanto puntuale, era quello che s’incazzava di più per quei ritardi.
Alto, capelli bruni un po’ radi sulle tempie - un difetto che occultava grazie allo studiato disordine della chioma -, occhi scurti come l’ardesia acquattati dietro gli occhiali di rsina nera, inforcati più volte con gesti nervosi. Arricciò il naso dall’alto del suo quasi metro e novanta di ossa sottili e scomposte, che parevano reggersi con la solidità di una torre fatta di stuzzicadenti. Diede un calcio allo smisurato borsone da viaggio, che occupava uno spazio cinque o sei volte maggiore del mio e di quello di Blas messi insieme.




sabato 21 maggio 2011

Il linguaggio segreto dei fiori

AUTORE: Vanessa Diffenbaugh
GENERE: Romanzo

TRAMA:

Victoria ha paura del contatto fisico. Ha paura delle parole, le sue e quelle degli altri. Soprattutto, ha paura di amare e lasciarsi amare. C'è solo un posto in cui tutte le sue paure sfumano nel silenzio e nella pace: è il suo giardino segreto nel parco pubblico di Portero Hill, a San Francisco. I fiori, che ha piantato lei stessa in questo angolo sconosciuto della città, sono la sua casa. Il suo rifugio. La sua voce. È attraverso il loro linguaggio che Victoria comunica le sue emozioni più profonde. La lavanda per la diffidenza, il cardo per la misantropia, la rosa bianca per la solitudine. Perché Victoria non ha avuto una vita facile. Abbandonata in culla, ha passato l'infanzia saltando da una famiglia adottiva a un'altra. Fino all'incontro, drammatico e sconvolgente, con Elizabeth, l'unica vera madre che abbia mai avuto, la donna che le ha insegnato il linguaggio segreto dei fiori. E adesso, è proprio grazie a questo magico dono che Victoria ha preso in mano la sua vita: ha diciotto anni ormai, e lavora come fioraia. I suoi fiori sono tra i più richiesti della città, regalano la felicità e curano l'anima. Ma Victoria non ha ancora trovato il fiore in grado di rimarginare la sua ferita. Perché il suo cuore si porta dietro una colpa segreta. L'unico capace di estirparla è Grant, un ragazzo misterioso che sembra sapere tutto di lei. Solo lui può levare quel peso dal cuore di Victoria, come spine strappate a uno stelo. Solo lui può prendersi cura delle sue radici invisibili. Solo così il cuore più acerbo della rosa bianca può diventare rosso di passione.

INCIPIT:
Erano otto anni che sognavo il fuoco. Gli alberi si incendiavano al mio passaggio, l’oceano bruciava.
Mentre dormivo, il fumo dolciastro mi avvolgeva i capelli e il suo aroma si depositava come una nuvola sul cuscino quando mi alzavo. Tuutavia, appena il materasso cominciò a scottare balzai giù dal letto. L’odore penetrante della combustione non assoligliava affatto al tenue sentore caramellato dei miei sogni. Erano diversi come il gelsomino indiano e quello della Carolina: unione e separazione. Impossibile confonderli.
In piedi in mezzo alla stanza, individuai l’origine delle fiamme: una file ordinata di fiammiferi in fondo al mio letto. Si erano accesi uno dopo l’altro e ardevano come piccoli pali di una staccionata lungo il bordo del materasso. Li guardai bruciare e provai un terrore spropositato davanti alle fiammelle tremolanti. Per un attimo ebbi di nuovo dieci anni, bambina disperata e insieme fiduciosa come non ero mai stata prima e non sarei più stata dopo di allora.
Ma il nudo materasso sintetico non prese fuoco com'era successo ai cardi in quel lontano ottobre: bruciò brevemente senza fiamme prima di spegnersi.
Era il mio diciottesimo compleanno.

Le ragazze sedevano irrequiete una accanto all'altra sul divano sfondato del soggiorno. I loro occhi passarono in rassegna il mio corpo fino ai piedi nudi senza traccia di bruciature. Una di loro sembrò sollevata, un'altra delusa. Se mi fossi fermata ancora una settimana, mi sarei ricordata ogni singola espressione di quelle facce. E mi sarei vendicata infilando loro chiodi arrugginiti nella suola delle scarpe e sassolini nelle ciotole di chili. Una volta, per uno sgarbo molto più lieve di un incendio, avevo appoggiato la punta arroventata di una gruccia per abiti sulla spalla di una compagna di stanza che dormiva.
Ma stavo per andarmene. Mancava solo un'ora e tutte loro sapevano.
La ragazza seduta la centro del divano si alzò. Sembrava giovane -quindici o sedici anni al massimo - ed era graziosa in un modo insolito per me: portamento elegante, pelle chiara, abiti nuovi. Non la riconobbi subito, ma quando attraversò la stanza notai qualcosa di famigliare nel suo modo di camminare con le braccia piegate in posa aggressiva. Anche se era appena arrivata, non era una sconosciuta. Mi venne in mente che avevo già vissuto con lei negli anni dopo Elizabeth, quando ero al culmine della rabbia e della violenza.
Si fermò a pochi centimetri da me, con il mento proteso nello spazio che ci separava.
"Il fuoco", disse con voce pacata, "è da parte di tutti noi. Buon compleanno."
Le ragazze si agitarono sul divano dietro di lei. Una si tirò su il cappuccio, un'altra si avvolse più stretta in una coperta. La luce del mattino guizzò lungo la fila di occhi abbassati, facendole sembrare all'improvviso più giovani, e in trappola. Le uniche via d'uscita da una comunità alloggio come quella erano scappare, diventare maggiorenni o finire in un carcere minorile. Dopo una certa età non ti adottavano più, e accadeva raramente di tornare a casa, ammesso di averne una. Quelle ragazze sapevano che cosa le aspettava e nei loro occhi si leggeva la paura: di me, delle compagne, della vita che si erano meritate o ritrovate a vivere per caso. provai un'ondata inattesa di compassione. Io me stavo andando, loro erano costrette a restare.


Acqua agli elefanti

AUTORE: Sara Gruen
GENERE: Romanzo

TRAMA:

ONel buio della notte, un ragazzo salta su un treno in corsa senza sapere dove sia diretto. Jacob è uno studente di veterinaria deciso a fuggire da tutto e cambiare vita, e capirà presto di essere finito su un treno davvero particolare. Il destino lo ha portato sul carrozzone del Circo dei fratelli Benzini, sono gli anni Trenta negli Stati Uniti, l’epoca della Grande depressione, ma sono anche gli anni delle spettacolari esibizioni che i circhi itineranti presentano di città in città, con il loro carico di donne-cannone, mostri e fate, nani e animali esotici. Su quel treno la vita di Jacob cambierà per sempre: assunto dallo zio Al, il proprietario, toccherà a lui prendersi cura degli animali. Il ragazzo scopre un mondo regolato da rigide iconicità e racconto. caste, in cui ha ben pochi diritti e molti doveri, e dovrà scontrarsi con personaggi eccentrici come il domatore August, un uomo brutale che maltratta animali e persone. Bersaglio della sua violenza sono la moglie acrobata Marlene, la bellissima stella del circo, di cui Jacob subisce il fascino, e l’elefante Rosie, dolcissima e immensa, che sembra rifiutarsi di obbedire a qualsiasi ordine. Finché non si scoprirà l’unica lingua che davvero è in grado di comprendere…

INCIPIT:
Ho novant’anni. O novantatrè. Una delle due.Quando hai cinque anni tieni conto della tua età mese per mese. Anche dopo i venti sai bene quanti anni hai. Ne ho ventitrè, dici, oppure ventisette. Ma quando hai passato i trente inizia a capitarti qualcosa di strano. Dapprima un semplice intoppo, un istante di esitazione. Quanti anni hai? Oh, ne ho...cominci a dire sicuro di te, ma poti tu interrompi. Stavi per dire trentatrè, ma non è vero. Ne hai trentacinque. E poi ti preoccupo, perchè hai paura che sia l’inizio della fine. E’ così naturalmente, ma passeranno decenni prima che tu lo ammetta.
Inizi a dimenticarti le parole: le hai sulla punta della lingua, ma invece di venir via restano lì. Vai al piano di sopra a prendere qualcosa e quando ci arrivi non ricordi più cosa stavi cercando. Chiamo tuo figlio con il nome degli altri tuoi figli e poi con quello del cane, prima di ricordarti quello giusto. A volte scordi che giorno è. E alla fine ti scordi anche l’anno.
Però io non ho dimenticato molto. E’ più come se avessi smesso di tenere il conto. Abbiamo superato il millennio, questo lo so: tante seccatura, tanta agitazione per niente a causa di quel famoso baco, tutti quei giovani preoccupati che compravano cibo in scatola perchè qualcuno era stato così pigro da lasciare spazio per due cifre invece che per quattro - ma per me può essere successo il mese scorso, oppure tre anni fa. E poi, che importanza ha? Che differenza fanno tre settimane o tre anni o anche tre decenni di crema di piselli, semolino e pannoloni?
Ho novant’anni. O novantatrè. Una delle due.
Giù in strada deve esserci stato un incidente oppure ci sono dei lavori in corso, perchè in fondo c'è un branco di vecchie signore, che sembrano bambine o detenute, incollate alla finestra. Sono filiformi e fragili, con i capelli sottili come nebbia. Quasi tutte hanno almeno dieci anni meno di me, e lo trovo incredibile. Anche se il corpo ti tradisce, la mente si rifiuta di accettarlo.
Sono parcheggiato in corridoio vicino al mio deambulatore. Ho fatto molti progressi da quando mi sono fratturato l'anca, e per questo ringrazio DIo. Per un po' pareva che non avrei camminato più - per questo sono riusciti a convincermi a venire qui - ma ogni due ore mi alzo e faccio qualche passo, e ogni giorno arrivo un po' più in là, prima di sentire il bisogno di fare marcia indietro. Questa vecchia pellaccia è dura a morire.
Ora ce ne sono cinque, vecchie creature dai capelli bianchi accalcate l'una sull'altra, con le dita contorte puntate sul vetro. Aspetto un po' per vedere se se ne vanno. Non lo fanno.
Abbasso gli occhi, controllo che i freni siano inseriti e mi alzo cautamente, reggendomi al bracciolo della sedia a rotelle mentre compio il pericoloso passaggio al deambulatore.
Quando l'ho completato, afferro la gomma grigia delle impugnature e la spingo in avanti finchè i gomiti non sono distesi, per una distanza che corrisponde esattamente ad una piastrella del pavimento. Spingo in avanti il piede sinistro, mi accerto che sia ben saldo e poi trascino avanti l'altro. Spingi, trascina, aspetta, trascina. Spingi, trascina, aspetta, trascina.


domenica 15 maggio 2011

Il Passaggio

AUTORE: Justin Cronin
GENERE: Romanzo Thriller

TRAMA:

Nel cuore della foresta boliviana il professor Jonas Lear fa una scoperta destinata a cambiare per sempre il destino dell’umanità: un virus, trasmesso dai pipistrelli che, modificato, è in grado di rendere più forti gli esseri umani, preservandoli da malattie e invecchiamento. In una remota base militare in Colorado, il governo degli Stati Uniti inizia quindi degli esperimenti genetici top secret per studiare i prodigiosi effetti di questa scoperta. È il Progetto Noah, che utilizza come cavie umane dodici condannati a morte e una bambina. L’esperimento però non procede secondo le previsioni e accade ciò che non era neanche lontanamente immaginabile: i detenuti sottoposti alla sperimentazione – i virali – trasformatisi in creature mostruose e assetate di sangue, fuggono dalla base, seminando morte e distruzione. Da quel momento gli eventi precipitano e nessuno è più in grado di controllarli, nessun luogo è più sicuro e tutto ciò che rimane agli increduli sopravvissuti è la prospettiva di una lotta interminabile e di un futuro governato dalla paura del contagio, della morte e di un destino ancora peggiore. L’unica speranza è rappresentata da Amy, piccola superstite del fallimentare esperimento che ha scatenato l’apocalisse: su di lei il virus ha avuto effetti particolari, trasformandola in una pedina fondamentale nella lotta contro i virali. Sarà l’agente dell’FBI Brad Wolgast a salvarla da una fine terribile e a iniziare con lei un’incredibile odissea per liberare finalmente il mondo dall’incubo in cui è precipitato. Il destino dell’umanità è nelle sue mani. Ambientato in un prossimo futuro, Il passaggio non è solo un thriller letterario, ma anche un avvincente romanzo post-apocalittico e una cronaca epica della resistenza umana di fronte al pericolo di una catastrofe senza precedenti.

INCIPIT:
Prima di diventare la Bambina Venuta dal Nulla - Quella Arrivata per Caso, La Prima, Ultima e Unica a vivere un intero millennio - era solo una bambina dell’IOWA di nome Amy.Amy Harper Bellafonte.
Il giorno della sua nascita la madre Jeanette aveva diciannove anni. La chiamò Amy in memoria della propria madre, che era morta quando lei era piccola, e come secondo nome scelse Harper, in onore di Harper Lee, l’autrice del Buio oltre la siepe, il suo romanzo preferito. per la verità, era l’unico libro che avesse letto fino in fondo ai tempi delle superiori. Le sarebbe piaciuto chiamarla Scout, come la protagonista del romanzo, perchè voleva che diventasse tenace, spiritosa e saggia come lei, nel modo in cui Jeanette riusciva ad essere. Ma Scout era un nome da maschio e Jeanette non voleva che sua figlia, per tutta la vita, fosse costretta a spiegare perchè si chiamava così.Il padre di Amy era un uomo che un giorno era entrato nella tavola calda dove Jeanette faceva la cameriera da quando aveva sedici anni, un diner conosciuto da tutti come “The Box”, perchè sembrava una grossa scatola cromata posta lungo la strada, fra i campi di granoturco e di fagioli, e nient’altro nel raggio di chilometri, a parte un autolavaggio self service di quelli in cui metti i soldi nella macchinetta e devi arrangiarti da solo. L’uomo, Bill Reynolds, vendeva mietitrebbiatrici e altre macchine agricole ed era uno che ci sapeva fare. Mentre Jeanette gli serviva il caffè anche dopo, più e più volte, le aveva ripetuto che era molto carina, che gli piacevano tanto i suoi capelli nero come il carbone, i suoi occhi nocciola e i suoi polsi delicati. e dal modo in cui lo diceva, sembrava ne fosse convinto, non come i suoi compagni di scuola, che le facevano i complimenti solo per ottenere quallo che volevano. Bill aveva un’auto molto grande, una Pontiac nuova, con un nuovo cruscotto degno di un’astronave e sedili di pelle morbidi come il burro. Jeanette aveva pensato che di quell’uomo si sarebbe potuta innamorare davvero. Ma lui si era fermato in paese solo pochi giorni e poi era ripartito.
Il padre di Jeanette, quando lei gli aveva raccontato quello che le era successo, aveva detto che sarebbe andato a cercarlo per costringerlo ad assumersi le sue responsabilità. Jeanette però non aveva accennato al fatto che Bill Reynolds era sposato e aveva una famiglia a Lincoln, nel Nebraska. Le aveva addirittura mostrato le foto dei figli che teneva nel portafoglio, due maschietti in tenuta da baseball, Bobby e Billy. Quindi, nonostante suo padre le avesse chiesto più volte chi era stato a metterla incinta, Jeanette non gli aveva detto nemmeno il nome dell’uomo.
In realtà non era dispiaciuta: nè della gravidanza, che era stata facile fino alla fine, nè del parto, doloroso ma veloce, nè, soprattutto, della bambina, la piccola Amy.


sabato 14 maggio 2011

Vieni via con me

AUTORE: Roberto Saviano
GENERE: Saggio

TRAMA:

Otto capitoli, otto storie, un ritratto unico dell'Italia di oggi firmato dall'autore del bestseller internazionale Gomorra. Roberto Saviano scava dentro alcune delle ferite vecchie e nuove che affliggono il nostro Paese. Il mancato riconoscimento del valore dell'Unità nazionale, il subdolo meccanismo della macchina del fango, l’espansione della criminalità organizzata al Nord, l'infinita emergenza rifiuti a Napoli, le troppe tragedie annunciate. Accanto alla denuncia c’è anche il racconto – commosso e ammirato – di vite vissute con onestà e coraggio: la sfida senz'armi di don Giacomo Panizza alla ’ndrangheta calabrese, la lotta di Piergiorgio Welby in nome della vita e del diritto, la difesa della Costituzione di Piero Calamandrei. Esempi su cui possiamo ancora contare per risollevarci e costruire un’Italia diversa. Ideato e condotto da Roberto Saviano e Fabio Fazio, Vieni via con me è stato l'evento televisivo dell’anno, più seguito delle partite di Champions League e dei reality show. Ora Vieni via con me è un libro che rende di nuovo accessibili al pubblico queste storie in una forma ampiamente rivista e arricchita. Facendole diventare, ancora una volta, storie di tutti.


INCIPIT:
Ho tra le mani una bandiera italiana. La prima bandiera italiana, prima ancora che ci cucissero al centro lo scudo sabaudo.
Mi piace averla tra le dita perchè credo che sia qualcosa di più di un simbolo. Tutte le bandiere sono dei simboli, simboli in cui i popoli si riconoscono. Ma questa bandiera non è solo un simbolo, un oggetto utile a rappresentare l’unità del Paese.
Questa bandiera, mi piace ricordarlo soprattutto da meridionale, rappresenta anche l’idea di un Paese nato da un sogno. E’ la traccia di un sogno. Dietro il sangue, i moti, i personaggi, le date, noi italiani abbiamo una fortuna: a differenza di quanto è accaduto in Spagna, in Francia, in Germania, l’Unità d’Italia è stata una sogno, non un semplice progetto, non solo un patto tra nobili. Nella testa di Mazzini, nelle lezioni di Pisacane, nel sogno di centinaia e migliaia di pensatori repubblicani, di unitaristi, l’Italia unita non era semplicemente l’unione di regioni geograficamente vicine e nemmeno, com’è capitato in altri Paesi, un’intesa di aristocrazione o di gruppi di potere.
Nella testa di quegli uomini, L’unità d’Italia era la sola condizione per emancipare dall’ingiustizia il popolo italiano, dopo tre secoli di dominazione straniera. La strada non poteva che essere l’unità, ecco perchè per loro quella bandiera diventò il simbolo della possibilità di emanciparsi dalla sofferenza, dalla miseria, dall’ingiustizia. Questo era il loro sogno.
E’ evidente che la grande idiozia che stiamo ascoltando in questi anni, secondo la quale spaccare il Paese sarebbe un modo per renderlo più forte, non solo un discorso miope, è anche storicamente insostenibile. Se guardiamo la cartina d’Italia preunitaria, il regno di Sardegna, il Regno sabaudo, sarebbe una piccola casa reale sotto la Francia. Sarebbe la periferia francese. E cos’altro sarebbe il Lombardo-Veneto, se non la periferia austriaca? E lo Stato Pontificio al centro? Uno stato simbolico. Senza l’Unità d’Italia torneremmo a essere ance oggi la periferia di qualcuno. La centralità e l’unità del Paese avevano un’altra idealità, un altro progetto: “Decidiamo noi del nostro destino”. Chi oggi pensa di poterlo spaccare non fa che arretrare, indebolirci, distruggere quello che era stato un grande sogno: la possibilità di disegnare un destino diverso, il sogno di poter vedere l’unione del Friuli e della Calabria in un’unica lingua, un unico sangue, un’unica patria.


lunedì 9 maggio 2011

Un Giorno

AUTORE: David Nicholls
GENERE: Romanzo Sentimentale

TRAMA:
È l'ultimo giorno di università, e per due ragazzi sta finendo un'epoca. Ormai si sentono adulti e indipendenti, hanno davanti a sé l'intera vita, da afferrare a piene mani. Emma e Dexter sono a letto insieme, nudi. Lui è alto, scuro di carnagione, bello, ricco. Lei ha i capelli rossi, fa di tutto per vestirsi male, adora le questioni di principio e i grandi ideali. Si sono appena laureati, il giorno successivo lasceranno l'università. Dopo una serata di grandi bevute sono finiti a baciarsi con passione, e poi tra le lenzuola. Ora sono lì, l'uno accanto all'altra, nell'alba di una vita nuova. Quel giorno, il 15 luglio 1988, Dexter e Emma si dicono addio per la prima volta. Le loro strade si separano, lui è destinato a una vita di viaggi, divertimenti, ricchezza. Emma non ha soldi, ha bisogno al più presto di un lavoro, e sogna di cambiare il mondo. Emma si sposterà a Londra, farà la cameriera in un pessimo ristorante messicano e prenderà due decisioni importanti: diventare insegnante e andare a vivere con il suo ragazzo, Ian, un comico che non riesce a strappare una risata. Nel frattempo Dexter, grazie alla sue conoscenze e alle possibilità economiche, entra nell'industria dello spettacolo. Presenta un programma televisivo di dubbio gusto, assieme a una donna con cui si trova a uscire fin troppo spesso. È diventato dipendente dalle droghe, dal sesso facile e dalle celebrità di terza categoria che frequentano il suo mondo. Ma ogni 15 luglio c'è un momento speciale per entrambi: dove sarà Emma, cosa farà Dexter? Per venti anni, in quel giorno, si terranno in contatto. Nel corso di venti anni, ogni anno, per un giorno, saranno di nuovo assieme...

INCIPIT:
IL FUTURO

VENERDì, 15 LUGLIO 1988
Rankeillor Street, Edimburgo

“La cosa più importante per me è segnare sempre una differenza” disse lei. “Insomma, cambiare qualcosa, capisci?”.
“Tipo “cambiare il mondo”?”
“Non tutto il mondo. Soltanto il piccolo pezzo di mondo intorno a noi”.
Rimasero in silenzio per un momento, raggomitolati l’uno contro l’altra sul letto ad una piazza, poi si misero a ridere piano: mancava poco all’alba. “Ho detto così? Non ci posso credere” borbottò lei. “Suona ridicolo, vero?”.
“Un po’, francamente”.
“E’ che cerco di essere spirituale!Tento di elevare la tua lercia anima per la grande avventura che ti aspetta”. Si girò per guardarlo neglio occhi. “Anche se forse non ne hao bisogno. Mi sa che il futuro è già scrittto. probabilmente hai da qualche parte un diagramma con i tracciati già bell’e pronti”.
“Magri!”.
“Allora cosa farai? Qual è il tuo programma con la P maiuscola?”.
“Bè, i miei genitori stanno per venire a prendere la mia roba per scaricarla da loro, dopodichè mi fermo un paio di giorni nel loro appartamento londinese, mi vedo con un po’ di amici, infine la Francia...”.
“Carino...”.
“Poi magari la Cina, per vedere com’è fatta, e infine mi fiondo in India, viaggio un po’ da quelle parti...”
“Viaggiare” sospirò lei. “Capirai...”.
“ Cosa c’è che non va?”.
“Assomiglia tanto ad una fuga dalla realtà”.
“Mi sa che la realtà è sopravvalutata” fece lui, sperando di apparire ombroso e carismatico.
Emma tirò su con il naso. “Beati quelli che se lo possono permettere. Non basterebbe dire “Per due anni sono in vacanza”? In fondo è lo stesso”.
“Perchè viaggiare allarga i proprio orizzonti...”disse, sollevandosi su un gomito e, la baciò.

"Se è per questo, mi sembra che sei già di vedute fin troppo larghe" disse e si girò dall'altra parte, almeno per un attimo. Si sistemarono di nuovo sul cuscino. 
"Comunque, non intendevo cosa farai da qui ad un mese, pensavo ad un futuro lontano, quando avrai, chissà...". prese tempo, come se volesse evocare un'idea balzana, quasi una quinta dimensione. "...una quarantina d'anni. Come vorresti essere allora?".
"Quaranta?". Anche a lui il concetto sembrava astruso.
"Boh. Se rispondo "ricco", esagero?".
"Sei davvero così superficiale?".
"D'accordo, diciamo "famoso" allora.". Cominciò a strofinarle il naso sul collo. "E' da malati, vero?".
"Altrochè, è....eccitante".
""Eccitante!"". Stava imitando la sua voce, il leggero accento dello Yorkshire, per farla sembrare una sciacquetta.
Lei era stufa marcia di ragazzi snob che le facevano il verso, come se un accento potesse suonare curioso e strambo, e una volta di più provò per lui un brivido rassicurante di repulsione. Si scostò con un'alzata di spalle, finendo con la schiena contro il muro gelido.

Manna e Miele, Ferro e Fuoco

AUTORE: Giuseppina Torregrossa
GENERE: Romanzo Sentimentale

TRAMA:
Romilda viene alla luce in una notte di tormenta, mentre la neve avvolge Gangi come un presepe e Maricchia e Alfonso, stanchi e felici, nel caldo della loro casa si stupiscono davanti al miracolo di quella fi glia femmina tanto attesa, bella e polposa come una spiga di grano a giugno. Con Maricchia che le insegna a ricavare il miele dalle api e Alfonso che le affi da il segreto di estrarre la manna dai frassini, sostanza preziosa e curativa, la bimba cresce all’aria aperta, fra il bosco e le arnie – una pupa di manna e miele, una creatura magica che incanta le api e ammalia chiunque le si avvicini. La sua vita allegra e solare viene però presto stravolta dall’incontro con la violenza e la prepotenza, con il ferro e il fuoco portati da don Francesco, il temibile barone di Ventimiglia, che la chiede in sposa ancora bambina. Una domanda di matrimonio che è piuttosto un atto d’acquisto, perché al barone non si può dire di no e continuare a vivere. La loro sarà un’unione diffi cile, senza amore, ma che, passando attraverso patimenti e piccole gioie, riporterà infi ne Romilda ai suoi boschi, dove diventerà la prima mannaluora delle Madonie e una donna dolce e forte, intelligente e appassionata. Una pupa di manna e di miele, di ferro e di fuoco.

INCIPIT:
“Corri, Tanuzzo, corri. Vai da commare Finuzza, dicci che tua madra da un minuto a n’autru sgrava.” Tanuzzo, il figlio mezzano di Alfonso Gelardi u mannaluoro, partì a schioppo. Il cuore batteva forte, aveva ricevuto un incarico di grande responsabilità, e ne sentiva tutto il peso. Sebbene impaurito all’idea di affrontare da solo il buio e il freddo di quel pomeriggio invernale, Tanuzzo non se lo fece ripetere due volte, il padre aveva appena finito la frase che lui era già fuori dalla porta. il paese deserto e spettarla lo ingoiò.
Nevicava a “lassa e pigghia” da tre giorni, fiocchi larghi come fazzoletti erano caduti dal cielo trasformando le trazzere in lunghi e scivolosi bastri dai bordi arricciati. Gli scarponi non avevano nessuna presa sulla discesa traslucida e il ragazzo allargava le braccia per dare stabilità al suo corpo fragile.
Secco e ossuto, planava verso il palazzo Mocciaro come fosse un uccello azzoppato.
La neve era arrivata prima del previsto, e già alla fine di Ottobre le montagne erano tutte bianche. L’Etna in lontananza era una enorme broscia di panna. Il freddo di Dicembre aveva fatto il resto, e per Santa Lucia le case di Gangi si intravedevano appena. Tutto il borgo aveva l’aspetto di un piccolo presepe allestito con grande anticipo sul Natale. Maricchia, la moglie del mannaluoro, era incinta per la quarta volta e, in completo accordo con le fasi della luna, così piena che scoppiava, aveva deciso di partorire proprio in quella notte di tormenta.
Il desiderio di una figlia femmina le trafiggeva il petto da tempo. Dopo tre maschi e con tutto quello che aveva passato per tirarli su, le sembrava di essere in credito con il padreterno, al quale rivolgeva ogni sera preghiere e rimproveri: "Grazie per quello che mi hai dato, Signore, però un piccolo sforzo lo potresti fare. E dammela una figlia femmina, che ti costa? La commare Angelina ne ha tre, la gnà Carmela sette e io niente! O troppo a siccu o troppo a saccu. Vero è che non c'è giustizia...E amen" conculdeva stizzita. A forza di recriminare però, quel Dio che lei accusava di essere ingiusto le aveva dato ascolto, e la notte del 19 Marzo 1857 - stiamo parlando di nove mesi prima, perchè tanto ci vuole per fare le cose -,mentre si dava al marito con una passione inusuale, era rimasta incinta.
Era la festa di San Giuseppe, la famiglia Gelardi aveva portato il pane a benedire e poi si erano fermati tutti insieme in parrocchia per la tradizionale cena con i poverelli. Pasta, lenticchie e baccalà fritto come vuole l'usanza gangitana. Sulla strada del ritorno Alfonso si era scaldato a vedere le forme di burro della moglie che gli camminava davanti. Vero è che aveva bevuto un poco di più, ma non si poteva certo dire che fosse ubriaco, semmai allegro, magari in trippu. O forse era stata colpa dell'imminente primavera che aveva già fatto fiorire i mandorli o della forzata astinenza che si protraeva dall'autunno. Il resto l'aveva fatto il profumo d'arancia che emanava la pelle bianca di Maricchia quando si scaldava per qualche voglia segreta.

sabato 7 maggio 2011

L'ultima lettera

AUTORE: Sarah Blake
GENERE: Romanzo Sentimentale

TRAMA:
È il 1940 e la Seconda guerra mondiale sta dilagando nell'Europa intera. Mentre le bombe cadono su Londra, una voce attraversa l'oceano: è quella di Frankie Bard, giovane e audace reporter americana, che rischiando in prima persona decide di raccontare il conflitto dalla sua postazione radiofonica, portandolo così nelle case dei suoi connazionali. Ad ascoltarla a Franklin, una cittadina sulla costa del Massachusetts, ci sono tra gli altri Iris e Emma. Iris è una donna sola un po' eccentrica e sognatrice a capo dell'ufficio postale, che si dedica con estrema serietà e partecipazione al proprio lavoro. Si sente infatti in qualche modo responsabile e custode discreta dei destini altrui, convinta che nella corrispondenza si intreccino i fili delle vite delle persone.
Emma, giovane sposa del medico condotto, invece non desidera altro che un futuro luminoso fatto di bambini e affetti familiari. Quando però suo marito, sconvolto per la morte di una paziente di cui si ritiene responsabile, decide di partire come volontario per lavorare in un ospedale di Londra, lei non può fare altro che attendere impotente giorno dopo giorno una sua lettera e il suo ritorno a casa.
Sullo sfondo di un'Europa lacerata dalle persecuzioni naziste e martoriata dai bombardamenti, e di un'America ancora al sicuro dal dramma epocale che si sta compiendo dall'altra parte dell'oceano, in un mondo in cui le notizie viaggiano per posta, con il rischio di non giungere mai a destinazione, è proprio una lettera a segnare le vite delle tre donne, legandone indissolubilmente i destini.


INCIPIT:
Vi furono anni dopo quanto era successo, dopo che ebbi lasciato la provincia per tornare qui, al vuoto frenetico della città, in cui capitava che qualcuno se ne venisse fuori con un commento sulla Seconda guerra mondiale e sul suo epilogo - qualche stupida osservazione in merito alla lucidità e alle intenzioni - e ogni volta dovevo resistere al’impulso di spegnere la sigaretta e, con mia grande soddisfazione, interrompere la cena.Di questi tempi, però, le guerre che si consumano sotto i nostri occhi sono talmente tante, e si fa un così gran parlare di strategie ed intenzioni (neanche si potesse dirigere una guerra come fosse musica) che ieri sera, per la prima volta, no ho saputo trattenermi.
“Cosa pensereste della direttrice di un ufficio postale che sceglie di non consegnare la corrispondenza?” ho domandato.
“Non aggiungere altro!” ha risposto ridendo una donna all’altro capo del tavolo, radiosa nella luce delle candele. “ Sono già presa.”
La domanda ha catturato immediatamente l’attenzione dei presenti. Lettere di quelle vere, scritte a mano, trafugate prima della consegna. Che beffa! Poteva succedere di tutto. Che qualche matrimonio naufragasse o che non fosse nemmeno celebrato! La fiamma delle candele si rifletteva sull’argenteria facendo brillare gli occhi dei commensali, sgranati di fronte ad una simile eventualità. Si sono fatte strada subito varie ipotesi. Un uomo sarebbe potuto fuggire alla notifica dell’esattore delle tasse. O, magari, la lettera che assegnava a un ragazzo il suo primo posto di lavoro non sarebbe mai arrivata, costringendolo a cercare un impiego altrove.
“E, in conseguenza di questo, essere perfettamente felice” ha suggerito uno degli uomini più anziani, sorridendo dell’ironia di una sorte simile.
“Ma questa direttrice lo ha mai confessato a qualcuno?”
“Oh, no” si è affrettata a rispondere la donna seduta di fronte a me. “Così si sarebbe persa tutto il divertimento.”
“Ah, dunque lo faceva per divertimento?” ha osservato il suo accompagnatore, dandole un buffetto sulla spalle nuda.
“No. Il divertimento è una motivazione troppo gretta” ha sentenziato il padrone di casa. “Dev’essere stata una seguace di qualcosa, o magari una studiosa. Una che aveva in programma di stare a guardare mentre il meccanismo si inceppava. Una sabotatrice” ha aggiunto, sorridendo, la moglie. “E’ una storia grandiosa.”
“A essere sincera” sono intervenuta seccamente “non era niente di tutto questo.”
Subito è calato il silenzio.
“Aspetta un attimo” ha detto poi uno degli uomini. “E’ una storia vera?”
“Verissima.”
“Allora è mostruoso” ha osservato la prima donna. “Se è tutto vero, è una cosa orribile e...”
“Illegale” ha aggiunto il padrone di casa, sporgendosi a riempirle il bicchiere. “Quando è successo?”
“Nel 1941.”


mercoledì 4 maggio 2011

Vicino a te non ho paura

AUTORE: Nicholas Sparks
GENERE: Romanzo 

TRAMA:
L'arrivo di una giovane donna a Southport, cittadina del North Carolina, suscita immediatamente interrogativi sul suo passato. Bella ma misteriosa, Katie sembra decisa a evitare qualsiasi legame, finché una serie di circostanze la attira timidamente verso due persone: Alex, un vedovo con due figli e dal cuore tenero, che gestisce l'emporio locale e Jo, la vicina di casa, una ragazza single schietta e spontanea. Nonostante le riserve, Katie pian piano abbassa la guardia e mette radici nella ristretta comunità locale, lasciandosi andare a un sentimento sempre più profondo nei confronti di Alex e dei suoi bambini. Benché innamorata, combatte ancora con un oscuro segreto che continua a perseguitarla e a terrorizzarla... un passato che l'ha costretta ad affrontare un viaggio disperato attraverso il Paese, fino ad approdare nella tranquilla Southport. Grazie all'amicizia sincera di Jo, Katie alla fine comprende che vale la pena rischiare il tutto per tutto se si vuole conquistare la felicità... e che se la vita a volte è come una burrasca, l'amore è l'unico vero porto sicuro.

INCIPIT:
Il vento proveniente dall’Atlantico scompigliò i capelli a Katie che si aggirava per i tavoli reggendo in bilico quattro piatti. indossava i jeans e una maglietta con la scritta DA IVAN, IL RE DEL PESCE. portò le ordinazioni a quattro uomini in abbigliamento casual; quello più vicino incrociò il suo sguardo e le sorrise. Sebbene si aggirasse a tipo disinvolto e scherzoso, lei si accorse che la fissava mentre si allontanava. Melody le aveva accennato che quei tizi erano arrivati da Wilmington, alla ricerca di location per un film.
Dopo aver preso una caraffa di tè, Katie riempì loro i bicchieri, poi tornò al banco. lanciò una rapida occhiata al panorama. Era fine Aprile, la temperatura perfetta, il cielo azzurro e limpido fino all’orizzonte. Alle sue spalle, il canale era calmo nonostante la brezza e rispecchiava il colore del cielo. Uno stormo di gabbiani era appollaiato sulla ringhiera, pronto a tuffarsi sotto i tavoli appena qualcuno faceva cadere una briciola.
Ivan Smith, il proprietario del locale, li detestava. Li chiamava “ratti con le ali”, e aveva già pattugliato due volte il parapetto agitando uno sturalavandini di legno nel tentativo di cacciarli. Melody le aveva sussurrato di essere più allarmata della provenienza dell’arnese che per la presenza dei gabbiani. Lei non aveva ribattuto.
Preparò un’altra caraffa di tè e pulì il bancone. Un istante dopo sentì qualcuno batterle sulla spalla. Voltandosi si trovò davanti la figlia di Ivan, Eileen. Era una graziosa diciannovenne con una lunga coda di cavallo e lavorava part-time come direttrice del locale.
“Katie...puoi occuparti anche di un altro tavolo?”
Diede un’occhiata intorno, calcolando mentalmente i ritmi di lavoro. “Certo”, annui.
Eileen scese le scale. Dal suo posto Ktie udiva brandelli di conversazione...gente che parlava di amici o famigliari, del tempo o di pesca. Vide i due clienti seduti nell’angolo chiudere i menu. Si affrettò verso di loro e prese l’ordinazione, senza trattenersi a chiaccherare come era solita fare Melody. Non era brava a socializzare, ma era veloce ed educata e la clientela sembrava soddisfatta.
Lavorava nel ristorante dall’inizio di Marzo. Ivan l’aveva assunta in un freddo e terso pomeriggio di sole. Quando le aveva detto che poteva cominciare il lunedì successivo, lei aveva dovuto fare uno sforzo immane per non scoppiare a piangere lì per lì dal sollievo, ma più tardi era crollata. Aveva aspettato di tornare verso casa, prima di crollare. All’epoca era sfinita e non mangiava da due giorni.


Gran Circo Taddei

AUTORE: Andrea Camilleri
GENERE: Romanzo 

TRAMA:
Otto storie, tanto perfette e compiute da costituire ciascuna un breve romanzo. Ci sono i personaggi della Vigàta di ogni tempo, l’inventario di una Sicilia dalle inesauribili sfaccettature: avvocati brillanti, chiromanti improvvisate, contadini e studentesse, preti e federali, comunisti sfegatati, donne risolute, un repertorio che suscita il sorriso o la pietà, e sempre un forte coinvolgimento. Ma in queste storie c’è anche un elemento fiabesco, mitico, un improvviso scarto dalla narrazione che ritorna insistente. È una traccia sotterranea che si mescola con il momento storico che è sempre ben definito, al punto che sin dalle prime righe di ogni storia la narrazione viene incastonata in una data precisa, la fine dell’Ottocento, l’alba del 1900, ma più spesso gli anni del fascismo, dello sbarco, del dopoguerra. Quasi sempre è l’ironia, la burla a dominare, o il gallismo brancatiano, oppure l’umanità solidale che non manca mai nelle storie di Camilleri che in quella «piazza della memoria» che è Vigàta, attinge a storie vere o verosimili depositate fra i suoi ricordi, per reinventarle e raccontarle con la sua capacità affabulatoria, tutte spruzzate da una polvere di simpatia.
Le storie raccolte in questo volume sono: Gran Circo Taddei Il merlo parlante La fine della missione Un giro di giostra La congiura Regali di Natale La trovatura La rivelazione

INCIPIT:
Nell’anni che furo ’ntorno al milli e novecento e trenta, ’na quinnicina di jorni prima di ogni cangio di stascione, ogni lunidì Ciccino Firrera, ’ntiso «Beccheggio», immancabilmenti arrivava a Vigàta col treno delle otto del matino che viniva da Palermo. Carricava supra a ’na carrozza un baullo e dù enormi baligie chine chine ligate con lo spaco e si faciva portari all’albergo «Moderno» indove, come al solito, pigliava ’na càmmara per dormirici e affittava per tri jorni il saloni «Mussolini» per fari l’esposizioni. Appena ghiunto in albergo, svacantava il baullo e le baligie e apparava nel saloni ’na mostra di abiti fimminili ultima moda della premiata sartoria palermitana Stella Del Pizzo, allura di grannissima fama ’n Sicilia, della quali egli s’acqualificava come l’unico rappresentanti ambulanti autorizzato alla vinnita. Verso l’una della stissa matinata, nell’ura nella quali tutti sinni stavano ’n casa a mangiari, a bordo di un sidecar affittato da Totò Rizzo che faciva macari da autista, Ciccino si firriava coscienziosamenti tutta Vigàta gridanno dintra a un megafono di lanna: «Beddre signure e beddre signurine! Ciccino arrivò! Arrivò Ciccino! L’esposizioni è aperta dalle quattro alle setti di doppopranzo presso l’albergo Moderno fino a mercordì. Viniti! Viniti a vidiri i meravigliosi, novissimi abiti di Stella Del Pizzo per la stascione che arriva!». A quell’annunzio, le fìmmine schette e maritate che si potivano permittiri d’accattarisi un abito della famusa sartoria, scasavano. Oltretutto Ciccino faciva sconti grossi assà, che erano squasi da liquitazioni. Nei tri jorni d’apirtura, il saloni era sempri chino e Ciccino pigliava nota del vistito che ogni signura si era scigliuto, contrattava il prezzo e si mittiva ’n sacchetta il dinaro. Po’, dal jovidì matina fino alla duminica matina, annava ’n casa di ognuna col vistito scigliuto, glielo faciva provari e in un vidiri e svidiri, da bravissimo sarto quali era, tagliava, cusiva, allungava, allargava, stringiva, accorzava, assistimava seduta stante. La duminica doppopranzo, con il baullo e le baligie vacanti, sinni tornava ’n Palermo e arrivederci tra tri misi.


lunedì 2 maggio 2011

L'atlante di Smeraldo

AUTOREJohn Stephens
GENERE: Romanzo d'avventura
TRAMA:
Kate, Michael ed Emma sono passati da un orfanotrofi o all’altro negli ultimi dieci anni, portandosi dietro pochi bagagli, ma molto pesanti: il ricordo, custodito dalla più grande Kate, di aver avuto un tempo due genitori che li accudivano e che un giorno torneranno a prenderli.
Una forza oscura, ma benigna, li ha strappati ancora in fasce dalla famiglia e da un pericolo di proporzioni devastanti, di cui però nessuno di coloro che ora accudiscono i tre bambini sembra avere nozione. Fino ad ora. Il loro viaggio inizia proprio dove sembrava finire e percorre luoghi selvaggi, angoli bui e inesplorati del mondo e del tempo. Un mondo che nessuno ha mai conosciuto e che Kate, Michael ed Emma dovranno attraversare per preservare loro stessi, ritrovare la propria famiglia e, forse, salvare il mondo intero.

INCIPIT:
La bambina fu scossa dal sonno. Sua madre era china sopra di lei.
«Kate.» La voce era sommessa e pressante. «Ascoltami bene. Bisogna che tu faccia una cosa per me.
Bisogna che tu protegga tuo fratello e tua sorella. Hai capito? Devi proteggere Michael ed Emma.»
«Cosa...» «Non c’è tempo per spiegare. Promettimi che li proteggerai.» «Ma...» «Oh, Kate, per favore! Promettilo e basta!» «Lo... lo prometto.»
Era la vigilia di Natale. Aveva nevicato tutto il giorno. Kate, la più grande, aveva avuto il permesso di andare a letto più tardi del fratello e della sorella. Così, quando i canti di Natale si erano ormai spenti da un pezzo, era rimasta con i genitori a sorseggiare cioccolata calda accanto al fuoco mentre mamma e papà si erano scambiati i regali – i bambini avrebbero ricevuto i loro l’indomani mattina – e a sentirsi molto grande per i suoi quattro anni. La mamma aveva regalato a papà un vecchio libro sciupato, piccolo ma molto spesso, del qua- le era sembrato molto contento, mentre lui le aveva regalato una catenella d’oro con un medaglione. Dentro il medaglione c’era una minuscola fotografia dei bambini – Kate, Michael, di due anni, e la piccola Emma. Poi, quando alla fine era andata a letto, Kate se n’era stata tutta felice al buio, al calduccio sotto le coperte, a chiedersi come avrebbe fatto ad addormentarsi, e un attimo dopo, o così le era sembrato, era stata svegliata.
La porta della camera era aperta e Kate, alla luce del corridoio,
1guardò la mamma sollevare le mani dietro la nuca per slacciare la catenella con il medaglione e poi chinarsi per fermargliela al collo, facendo scivolare le mani sotto di lei. La bambina si sentì sfiorare appena dai capelli della mamma e avvertì l’odore del pan di zenzero che aveva preparato quel pomeriggio; poi qualcosa di umido le arrivò sulla guancia e capì che la mamma piangeva.
«Ricorda che io e tuo padre ti vogliamo tanto bene. E che un giorno saremo di nuovo tutti insieme. Lo prometto.»
Alla bambina batteva forte il cuore. Fece per chiedere che cosa succedeva quando sulla porta comparve un uomo. La luce era alle sue spalle, così Kate non riuscì a vederlo in faccia, ma era alto e magro e portava un lungo cappotto e qualcosa che sembrava un cappello spiegazzato.
«È ora» disse. La sua voce e quell’immagine – l’alta sagoma di un uomo sulla porta – avrebbero perseguitato Kate per anni, perché quella fu l’ultima volta che vide sua madre, l’ultima volta che la sua famiglia fu unita. Poi l’uomo disse parole che Kate non distinse e fu come se attorno alla sua mente calasse una coltre pesante, cancellando l’uomo sulla porta, la luce, sua madre, tutto.
La donna prese in braccio la bambina addormentata, l’avvolse nelle coperte e seguì l’uomo giù per le scale, oltrepassò il soggiorno dove il focolare era ancora acceso e uscì nel freddo e nel buio.
La bambina, se fosse stata sveglia, avrebbe visto il padre in piedi sotto la neve accanto a una vecchia auto nera, con in braccio il fratello e la sorellina stretti nelle coperte e addormentati. L’uomo alto aprì la portiera nera e il padre dei bambini adagiò il carico sul sedile; poi si girò, prese Kate dalle braccia della donna e la coricò accanto al fratello e alla sorella. L’uomo alto richiuse la portiera con un colpetto delicato.
«Sicuro?» chiese la donna. «Sicuro che sia l’unico modo?» L’uomo alto si era spostato sotto il chiarore di un lampione e per la prima volta era nettamente visibile. A chi fosse passato di lì, il suo aspetto non avrebbe ispirato molta fiducia. Il cappotto era rattoppato e aveva i polsini logori, al vecchio completo di tweed mancava un bottone, la camicia bianca era macchiata di inchiostro e tabacco, la cravatta – la cosa più strana era forse questa – era annodata non una ma due volte, come se l’uomo, non ricordando se avesse già fatto il nodo, invece di guardar giù ne avesse fatto un altro per sicurezza. Da sotto il cappello spuntavano i capelli bianchi e le sopracciglia si ergevano dalla fronte come grandi corna innevate, arricciate sopra un paio di occhiali di tartaruga sbilenchi e rappezzati. Insomma, era come se si fosse vestito nel bel mezzo di un tornado e, pensando di essere ancora troppo presentabile, si fosse gettato giù per una rampa di scale.
Solo quando lo si guardava negli occhi tutto cambiava.
Nella notte ovattata dalla neve, non riflettevano luce, brillavano della propria; e l’energia, la gentilezza e la comprensione che trasmettevano erano tanto straordinarie da far dimenticare completamente le macchie di tabacco e di inchiostro sulla camicia, i rattoppi degli occhiali, il doppio nodo alla cravatta. Bastava guardarli per capire di essere di fronte alla saggezza più autentica.
«Miei cari amici, abbiamo sempre saputo che questo giorno sarebbe arrivato.»
«Ma cos’è cambiato?» chiese il padre dei bambini. «Dai tempi di Cambridge Falls non c’è più stato niente! E parliamo di cinque anni fa! Sarà pur successo qualcosa!»
Il vecchio sospirò. «Stasera sono stato da Devon McClay.» «Non sarà... non può essere...» «Purtroppo sì. E, anche se è impossibile sapere cos’abbia rivelato
loro prima di morire, dobbiamo supporre il peggio. Dobbiamo supporre che abbia raccontato tutto dei bambini.»
Per un lungo momento nessuno parlò. La donna aveva dato libero sfogo alle lacrime.
«Ho detto a Kate che un giorno saremmo stati di nuovo tutti insieme. Le ho mentito.» «Tesoro...» «Finché non li avrà trovati, non si fermerà! Non saranno mai al sicuro!» «Hai ragione» disse il vecchio, sottovoce. «Non si fermerà mai.»
Chi fosse la persona di cui parlavano, evidentemente era superfluo chiarirlo.
«Ma un sistema c’è. Quello di cui abbiamo sempre saputo. Bisogna fare in modo che i bambini crescano. Che il loro destino si compia...» Si interruppe.
L’uomo e la donna si girarono. In fondo all’isolato, tre sagome scure in piedi, in cappotto lungo, li guardavano. La via si fece più silenziosa che mai; perfino i fiocchi di neve parvero rimanere sospesi a mezz’aria.
«Eccoli» disse il vecchio. «Seguiranno i bambini. Dovete sparire. Vi troverò io.»
Senza dare alla coppia il tempo di ribattere, il vecchio aprì la por- tiera e si infilò al posto di guida. Le tre sagome si stavano avvicinando. L’uomo e la donna indietreggiarono verso la casa mentre il motore, con un raschio di tosse, si accendeva. Per un attimo le ruote girarono a vuoto sulla neve, poi fecero presa e la macchina, slittando, partì. Ora le sagome correvano e passarono davanti all’uomo e alla donna senza nemmeno girarsi a guardarli, concentrate soltanto sull’auto che sbandava a destra e sinistra sulla strada innevata.






Bianca come il latte Rossa come il sangue

AUTOREAlessandro d'Avenia
GENERE: Romanzo di formazione

TRAMA:
Leo è un sedicenne come tanti: ama le chiacchiere con gli amici, il calcetto, le scorribande in motorino e vive in perfetta simbiosi con il suo iPod. Le ore passate a scuola sono uno strazio, i professori "una specie protetta che speri si estingua definitivamente". Così, quando arriva un nuovo supplente di storia e filosofia, lui si prepara ad accoglierlo con cinismo e palline inzuppate di saliva. Ma questo giovane insegnante è diverso: una luce gli brilla negli occhi quando spiega, quando sprona gli studenti a vivere intensamente, a cercare il proprio sogno.
Leo sente in sé la forza di un leone, ma c'è un nemico che lo atterrisce: il bianco. Il bianco è l'assenza, tutto ciò che nella sua vita riguarda la privazione e la perdita è bianco. Il rosso invece è il colore dell'amore, della passione, del sangue; rosso è il colore dei capelli di Beatrice. Perché un sogno Leo ce l'ha e si chiama Beatrice, anche se lei ancora non lo sa. Leo ha anche una realtà, più vicina, e, come tutte le presenze vicine, più difficile da vedere: Silvia è la sua realtà affidabile e serena. Quando scopre che Beatrice è ammalata e che la malattia ha a che fare con quel bianco che tanto lo spaventa, Leo dovrà scavare a fondo dentro di sé, sanguinare e rinascere, per capire che i sogni non possono morire e trovare il coraggio di credere in qualcosa di più grande.


INCIPIT:
Ogni cosa è un colore. Ogni emozione è un colore. Il silenzio è bianco. Il bianco infatti è un colore che non sopporto: non ha confini. Passare una notte in bianco, andare in bianco, alzare bandiera bianca, lasciare il foglio bianco, avere un capello bianco… Anzi, il bianco non è neanche un colore. Non è niente, come il silenzio. Un niente senza parole e senza musica. Il silenzio: in bianco. Non so rimanere in silenzio da solo che è lo stesso. Mi viene un dolore poco sopra la pancia o dentro la pancia, non l’ho mai capito, da costringermi a inforcare il mio bat-cinquantino,ormai a pezzi e senza freni (quando mi deciderò a farlo riparare?), e girare a caso fissando negli occhi le ragazze che incontro per sapere che non sono solo. Se qualcuna mi guarda io esisto.

Ma perchè sono così? Perdo il controllo. Non so stare solo. Ho bisogno di...manco io so di cosa. Che rabbia! Ho un iPod in compenso. Eh si, perchè quando esci e sai che ti aspetta una giornata al sapore di asfalto polveroso a scuola e poi un tunnel di noia tra compiti, genitori e cane e poi di nuovo, fino a che morte non vi separi, solo la colonna sonora giusta può salvarti. Ti sbatti due auricolari nelle orecchie ed entri in un’altra dimensione. Entri nell’emozione dal colore giusto.
Se ho bisogno di innamorarmi: rock melodico. Se ho bisogno di caricarmi: metal duro e puro. Se ho bisogno di pomparmi: rap e crudezze varie, parolacce soprattutto. Così non resto solo: bianco. C'è qualcuno che mi accompagna e dà colore alla mia giornata.
Non che io mi annoi. perchè avrei mille progetti, diecimila desideri, un milione di sogni da realizzare, un miliardo di cose da iniziare. Ma poi non riesco a iniziarne una che sia una, perchè non interessa a nessuno. E allora mi dico: Leo, ma chi cazzo te lo fa fare? Lascia perdere, goditi quello che hai.
La vita è una sola e quando diventa bianca il mio computer è il miglior modo per colorarla: trovo sempre qualcuno con cui chattare (il mio nick è Il Pirata, come Johnny Depp). Perchè questo lo so fare: ascoltare gli altri. Mi fa stare bene. Oppure prendo il bat-cinquantino senza freni e giro senza meta. Se una meta ce l'ho vado a trovare Niko e suoniamo due canzoni, lui con il basso e io con la chitarra elettrica. Un giorno saremo famosi, avremo la nostra band, la chiameremo La Ciurma. Niko dice che dovrei anche cantare perchè ho una bella voce, ma io mi vergogno. Con la chitarra cantano le dita e le dita non arrossiscono mai. nessuno fischia un chitarrista, un cantante invece...
Se Niko non può ci vediamo con gli altri alla fermata. La fermata è quella del bus davanti a cuola, quella alla quale ogni ragazzo innamorato ha dichiarato al mondo il suo amore. Ci trovi sempre qualcuno e volte qualche ragazza. A volte anche Beatrice, e io, alla fermata davanti a scuola, ci vado per lei.