tag:blogger.com,1999:blog-64358251655764474062024-03-05T04:40:08.847-08:00LibrandoCiUn libro a settimanaLibrandoCIhttp://www.blogger.com/profile/16529616996313456992noreply@blogger.comBlogger74125tag:blogger.com,1999:blog-6435825165576447406.post-59478020174516164072012-04-26T14:58:00.001-07:002012-04-26T14:58:14.306-07:00L'isola delle chiatte<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh7ryvygUXRLLvM_bA_sjmTlh01dcDKtz8Ds5IPtgNyRfg0ojMDJIZWNia-XPhA8lWS8OzqGLfqdyWPc_5chiCt_aLTJaJAolnoKLzCxp9BcqhTxgLFm-O998rhMSpwwzBV6ykr_FDpcfp5/s1600/460706_370676439644590_183857128326523_1017044_1747618750_o.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh7ryvygUXRLLvM_bA_sjmTlh01dcDKtz8Ds5IPtgNyRfg0ojMDJIZWNia-XPhA8lWS8OzqGLfqdyWPc_5chiCt_aLTJaJAolnoKLzCxp9BcqhTxgLFm-O998rhMSpwwzBV6ykr_FDpcfp5/s200/460706_370676439644590_183857128326523_1017044_1747618750_o.jpg" width="124" /></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>AUTORE</b>: <a href="http://www.facebook.com/daniele.grillo" target="_blank">Daniele Grillo</a>, <a href="http://www.facebook.com/profile.php?id=100003371664576" target="_blank">Valeria Valentini</a></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>GENERE</b>: Romanzo</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>TRAMA:</b></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;">Anna Rouvery ha poco più di trent'anni e la sua vita è tutta un tango. Un contratto con l'Accademia e una scuola di ballo tutta sua, una mansarda sui tetti attorno a piazza della Posta Vecchia, le lunghe lettere alla madre scritte sempre sotto la luce di una candela. In un'anonima alba settembrina il suo cadavere viene trovato sulla piattaforma galleggiante ancorata al centro dell'antico porto di Genova. Per il commissario Elia Marcenaro il delitto dell'Isola delle Chiatte è l'occasione per un'insperata rivincita dopo l'esilio, durato anni, all'ufficio passaporti. Un riscatto dal passato di errori e travolgenti amori, dal presente di una figlia lontana e di nevrosi mal curate. Ma venire a capo dell.enigma di passione e fede nascosto tra le pagine di cinque grandi classici della letteratura non sarà affatto semplice. I vicoli della città vecchia e l.incantevole bellezza di capo Santa Chiara, l'antico convento di Santa Maria di Castello dove le indagini lo condurranno, lo strano e luccicante abbracciarsi di moli non più porto e non ancora luogo, faranno da sfondo a esistenze e storie di mondi all'apparenza lontani e impermeabili. Solo grazie alla sensibilità e all'amore per la conoscenza della bella agente Beatrice Palazzesi, Marcenaro riuscirà a comprendere il vero significato delle parole che fino ad allora aveva letto senza capire.<br />
</span></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>INCIPIT:</b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Legno, anima. E acqua. Se ti capitasse di morire sull’isola di legno dedicata a Luciano Berio e conservassi la coscienza di ciò che accade attorno al tuo corpo, avresti l’impressione di trovarti al centro di un’ampia piroga. Membra e anima che avanzano galleggiando sull’acqua, come in uno di quei riti orientali che affidano al dio fiume l’ultimo viaggio. Vuoi per quella musica delle giunture che collegano le chiatte al pontile, vuoi per l’insieme di armonia e poesia che evoca il nome del compositore, vuoi ancora per quella posizione di prominenza nel centro dell’antico porto della città, qui sembra quasi che le braccia della Superba protese sul mare ti accompagnino. Verso un luogo, però, che non volevi ancora raggiungere.
Il cadavere di Anna Rouvery fu trovato schiena contro un parapetto della piccola piazza sul mare del porto antico. Lo strano luogo, né mare né terra, che si affaccia al centro del golfo, ricavato su un paio di vecchie chiatte agganciate al molo dell’Acquario. Il corpo giaceva sulla sinistra della seconda piattaforma, nell’angolo che guarda verso i magazzini del cotone. Anzi, per la precisione Anna si trovava quasi seduta con le braccia alzate e le mani ancora aggrappate alle ringhiere, insanguinate in più punti. A tradire una posizione che avresti detto normale, quasi l’istantanea di un momento di relax, le gambe scomposte, innaturali, piegate in una posizione che nessuna donna assumerebbe mai. E il viso, il viso tradiva ancora di più. Gli occhi sbarrati avevano attorno alle orbite macchie scure al posto del trucco. Sulla fronte, parte destra, un largo ematoma. Rosso intenso, in netto contrasto con lo spettrale pallore di morte della pelle.
Ad attraversare quel volto senza più vita un rivolo di capelli intrisi di sangue.
– Chi l’ha trovata? – chiese il commissario con un’espressione di malcelata partecipazione.
– Si chiama Rudy Mac Lyell ed è il fotografo di una rivista inglese. È a Genova da cinque giorni, ama venire qui all’alba per trovare la luce che serve per scattare le sue immagini. Difficile che sia stato lui, commissario. Il portiere del suo albergo sostiene che è rimasto in stanza fino alle cinque di questa mattina. E secondo il medico che ha constatato il decesso, la donna è morta prima. Aveva con sé i documenti. È italiana, ma probabilmente ha origini francesi. Si chiamava Anna Rouvery.
– Sentite quelli della vigilanza, fatemi parlare con qualunque stronzo sia passato di qui nelle ultime dodici ore. Voglio sapere tutto di questa ragazza.
Due battelli indugiavano attorno a quel francobollo di legno ondeggiante, mentre un poliziotto si sbracciava per intimare ai curiosi di allontanarsi. La bella cartolina del golfo guadagnava una magica profondità grazie alla linea dei magazzini, dopo la rivoluzione delle Colombiane, passati da depositi di comuni batuffoli a contenitori per ricchi congressi. Il mare correva in mezzo ai moli increspandosi lievemente in corrispondenza delle correnti. L’intuizione di Renzo Piano di dare a quello spazio anche un’altezza, disegnando la piovra rovesciata del Bigo, da molti genovesi venne considerata folle, aliena, brutta. Ma ormai i grassi e metallici bracci bianchi svettavano da diversi anni nello scenario del porto antico. Erano entrati nelle immagini dei turisti, nei loro ricordi. Per gli autoctoni continuavano a non significare molto. Poco importa. Questo distretto sul mare era, e sarebbe rimasto, qualcosa di profondamente diverso dalla città, dalla sua storia. Dalla sua anima.
Elia Marcenaro era arrivato tardi come sempre, sul luogo del delitto. D’altra parte voleva essere sempre sicuro che gli uomini della Scientifica avessero compiuto i loro rilievi, per lo meno quelli iniziali, e sapeva che prima di un paio d’ore il pigro pm di turno non avrebbe fatto capolino. Ripeteva sempre ai suoi più stretti collaboratori che troppa scienza aveva rovinato il sapore antico dell’indagare e, assieme al sapore, i risultati. Le giunture dell’isola delle chiatte, mai oliate come impose l’archistar genovese che la disegnò, urlavano e gracchiavano mentre le due grandi piattaforme di legno che la sostenevano continuavano a ballare, corteggiate dal movimento delle onde.
Il commissario aveva visto diversi morti nella sua vita. Ma una donna così bella, così piena di vita, così elegante, per fortuna, non l’aveva mai incontrata a trapasso avvenuto. Anna, esile e leggera come solo le ballerine sanno essere, portava un vestito nero, semplice e raffinato allo stesso tempo. L’abito raggiungeva l’altezza delle ginocchia, l’ideale per un caldo inizio settembre come quello in cui trovò la morte. Un coprispalle di cotone completava il tutto. Ma di esso era rimasto poco: mezzo strappato pendeva tra il collo della donna e il parapetto, lasciando le braccia del cadavere nude. Doveva essersi truccata e non solo attorno agli occhi, per quell’ultimo appuntamento. Il risultato non era volgare, piuttosto manteneva una certa sobrietà. Il suo volto era per metà insanguinato, tuttavia Marcenaro si accorse che oltre all’ematoma, un taglio di media profondità spuntava da sotto i capelli. Rimanevano alcuni brillantini a far risaltare gli splendidi occhi. I capelli lisci e scuri erano disordinati e in parte le coprivano l’occhio sinistro. Chissà quanti sguardi di uomini dovevano aver attirato quelle gambe. Ora il loro chiarore e lo smalto rosso sulle unghie dei piedi spiccavano come in una fotografia d’autore sul pavimento scuro dell’isola. Le scarpe si trovavano a qualche metro di distanza.
Ma la donna con ogni probabilità non le aveva perse durante una colluttazione con l’assassino, ed era anche assai improbabile che in quella posizione perfetta fossero rimaste dopo un tuffo spontaneo dal parapetto. I due sandali di vernice nera erano, composti e paralleli, ai piedi di una delle panchine sulle quali gli innamorati, la sera, sono soliti scambiarsi effusioni. Lucentezza intatta, le scarpe puntavano in direzione della legittima proprietaria che non le avrebbe più indossate. Sulla panchina, semiaperta, una borsetta da sera di paillettes nere. Dentro un paio di chiavi, probabilmente di casa, un pacchetto di fazzoletti, un porta- documenti rosa e nient’altro.
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</script><fb:like font="" href="http://librandoci.blogspot.it/2012/03/1984.html" send="true" show_faces="true" width="450"></fb:like>LibrandoCIhttp://www.blogger.com/profile/16529616996313456992noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6435825165576447406.post-43806608537629649762012-04-26T08:10:00.000-07:002012-04-26T08:10:43.171-07:00La casa degli spiriti<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi_un9R0z8qohsrYaUsmrWNWAFxu6UuAa3SVU6fxOkNoNba6SHliMWP9vWTTyDZBfCeoEn4R7HEbjCZ19u0dZgaG4RvwSQBgh7N4pqr56ZySmjUDwum5tzYUabCv_rvXXL8JHsC3GQwUX89/s1600/La_Casa_degli_Sp_48870078d4329.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi_un9R0z8qohsrYaUsmrWNWAFxu6UuAa3SVU6fxOkNoNba6SHliMWP9vWTTyDZBfCeoEn4R7HEbjCZ19u0dZgaG4RvwSQBgh7N4pqr56ZySmjUDwum5tzYUabCv_rvXXL8JHsC3GQwUX89/s200/La_Casa_degli_Sp_48870078d4329.jpg" width="129" /></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>AUTORE</b>: <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Isabel_Allende" target="_blank">Isabel Allende</a></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>GENERE</b>: Romanzo</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>TRAMA:</b></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;">L'amore, la magia, il mistero, i sogni si intrecciano alle violenze e agli orrori della guerra cilena che portò alla ascesa di Pinochet in questo splendido romanzo di Isabel Allende. Alle "Tre Marie", splendida tenuta di proprietà di Esteban Trueba, si intrecciano le passioni dei diversi protagonisti: Clara, la moglie del proprietario, trascorre una vita avvolta nei ricordi; Fèrula, sorella di Esteban, dedica la sua vita agli altri; Blanca è innamorata di un servo del padre, Pedro, che avrà parte nella guerriglia della rivoluzione; Alba, la nipote, dovrà invece affrontare la dittatura mentre Esteban scoprirà, proprio a causa dei tragici eventi politici del suo paese, di amare innanzitutto la sua famiglia.<br />
</span></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>INCIPIT:</b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Barrabàs arrivò in famiglia per via mare, annotò la piccola Clara con la sua delicata calligrafia. Già allora aveva l’abitudine di scrivere le cose importanti e più tardi, quando rimase muta, scriveva anche le banalità, senza sospettare che, cinquant’anni dopo, i suoi quaderni mi sarebbero serviti per riscattare la memoria del passato,e per sopravvivere al mio stesso terrore. Il giorno in cui arrivò Barrabàs era Giovedì Santo. Stava in una gabbia lercia, coperto dei suoi stessi escrementi e della sua stessa orina, con uno sguardo smarrito di prigioniero miserabile e indifeso, ma già si intuiva dal portamento regale della sua testa e dalla dimensione del suo scheletro il gigante leggendario che sarebbe diventato. Era quello un giorno noioso e autunnale, che in nulla faceva presagire gli eventi che la bimba scrisse perché fossero ricordati e che accaddero durante la messa delle dodici, nella parrocchia di San Sebastiàn, alla quale assistette con tutta la famiglia. In segno di lutto, i santi erano coperti di drappi viola, che le beghine toglievano ogni anno dalla polvere dell’armadio della sacrestia, e, sotto i lenzuoli funebri, la corte celeste sembrava un cumulo di mobili in attesa del trasloco, senza che le candele, l’incenso o i gemiti dell’organo potessero opporsi a questo pietoso effetto. Minacciose masse scure si ergevano al posto dei santi a grandezza naturale, con le loro facce tutte identiche dall’espressione raffreddata, le loro elaborate parrucche di capelli di morto, i loro rubini, le loro perle, i loro smeraldi di vetro colorato e i loro abiti da nobili fiorentini. L’unico favorito dal lutto era il patrono della chiesa, San Sebastiano, perché nella settimana santa veniva risparmiato ai fedeli lo spettacolo del suo corpo contorto in una posizione indecente, trafitto da mezza dozzina di frecce, grondante sangue e lacrime, come un omosessuale sofferente, le cui piaghe, miracolosamente fresche grazie al pennello di padre Restrepo, facevano tremare di ribrezzo Clara.
Era quella una lunga settimana di penitenza e di digiuno, non si giocava a carte, non si suonava musica che incitasse alla lussuria o all’oblio, e si osservava, nei limiti del possibile, la maggior tristezza e castità, nonostante proprio in quei giorni il pungolo del demonio tentasse con più insistenza la debole carne cattolica. Il digiuno consisteva in morbide torte di pasta sfoglia, in saporiti fritti di verdura, in soffici frittate e in grandi formaggi portati dalla campagna, con i quali le famiglie ricordavano la Passione del Signore, guardandosi bene dall’assaggiare neppure il più piccolo boccone di carne o di pesce, sotto pena di scomunica, come ripeteva padre Restrepo. Nessuno avrebbe osato disubbidirgli. Il sacerdote era provvisto di un lungo dito accusatore per indicare in pubblico i peccatori, e una lingua allenata a turbare i sentimenti.
- Tu, ladro che hai rubato il denaro del culto! - gridava dal pulpito segnalando un gentiluomo che fingeva di affannarsi a causa di un pelo sul suo bavero per non guardarlo in faccia. - Tu, svergognata che ti prostituisci sui moli! - e accusava donna Ester Trueba, invalida per via dell’artrite e devota alla Vergine del Carmine, che apriva gli occhi esterrefatta, senza sapere il significato di quella parola, né dove si trovavano i moli - Pentitevi, peccatori, immonda carogna, indegni del sacrificio di Nostro Signore! Digiunate! Fate penitenza!
Travolto dall’entusiasmo dello zelo della sua vocazione, il sacerdote doveva contenersi per non entrare in aperta disobbedienza con le istruzioni dei suoi superiori ecclesiast ici, scossi da ventate di modernismo, che si opponevano al cilicio e alla flagellazione. Lui era dell’idea di vincere le debolezze dell’anima con una buona frustata della carne. Era famoso per la sua oratoria sfrenata. I suoi fedeli lo seguivano di parrocchia in parrocchia, sudavano sentendolo descrivere i tormenti dei peccatori nell’inferno, le carni lacerate da ingegnose macchine di tortura, i fuochi eterni, gli uncini che trafiggevano i membri virili, i rettili ripugnanti che si introducevano negli orifizi femminili e altri molteplici supplizi che infilava in ogni sermone per seminare il terrore di Dio. Lo stesso Satana era descritto fin nelle sue intime anomalie con l’accento galiziano del sacerdote, la cui missione in questo mondo era di scuotere le coscienze degli indolenti creoli.
Severo del Valle era ateo e massone, ma aveva ambizioni politiche e non poteva permettersi il lusso di mancare alla messa che ogni domenica o festa comandata attraeva più gente, affinché tutti potessero vederlo. Sua moglie Nivea preferiva intendersi con Dio senza intermediari, aveva una profonda sfiducia nelle sottane e si annoiava alle descrizioni del cielo, del purgatorio e dell’inferno, ma seguiva suo marito nelle sue ambizioni parlamentari, con la speranza che se avesse occupato un posto al Congresso, lei avrebbe potuto ottenere il voto femminile, per il quale lottava da ormai dieci anni, senza che le sue numerose gravidanze riuscissero a scoraggiarla.
Quel Giovedì Santo padre Restrepo aveva spinto gli ascoltatori al limite della resistenza con le sue visioni apocalittiche e Nivea cominciò a sentire giramenti di testa. Si chiese se non fosse di nuovo incinta. Nonostante i lavacri con aceto e le spugnature con ghiaccio, aveva dato alla luce quindici figli, dei quali ne restavano vivi solo undici, e aveva motivo di supporre che già stesse entrando nella maturità, dato che sua figlia Clara, la minore, aveva dieci anni. Sembrava che fosse infine venuto meno l’impegno della sua stupefacente fertilità. Cercò di attribuire il suo malessere al momento del sermone di padre Restrepo quando l’aveva additata parlando dei farisei che pretendevano di legalizzare i bastardi e il matrimonio civile, minando la famiglia, la patria, la proprietà e la Chiesa, dando alle donne la stessa posizione degli uomini, in aperta sfida alla legge di Dio, che in merito era molto precisa. Nivea e Severo occupavano, con i loro figli, tutta la terza fila dei banchi. Clara era seduta accanto alla madre e questa le stringeva la mano con impazienza quando il discorso del sacerdote si dilungava troppo sui peccati della carne, perché sapeva che ciò induceva la piccola a visualizzare aberrazioni che andavano oltre la realtà, com’era evidente dalle domande che faceva e alle quali nessuno sapeva rispondere. Clara era molto precoce e aveva la dilagante immaginazione che ereditarono tutte le donne della sua famiglia dal lato materno. La temperatura della chiesa era aumentata e l’odore penetrante dei ceri, dell’incenso e della folla stipata contribuivano a estenuare Nivea. Desiderava che la cerimonia terminasse una volta per tutte, per tornare nella sua casa fresca, per sedersi nel cortile delle felci e assaporare la caraffa di orzata che la Nana preparava nei giorni di festa.
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</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>GENERE</b>: Romanzo</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>TRAMA:</b></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;">Si incontreranno per tre volte, ma ogni volta sarà l’unica, e la prima, e l’ultima. Tre storie. Tre incontri. Tre episodi in cui scivolano personaggi che si incrociano, per sfasature temporali, in età diverse, sullo sfondo della hall di un hotel. L’albeggiare che annuncia, per tre volte, l’insistenza di un sentimento.<br />
</span></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>INCIPIT:</b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>C’era quell’albergo, di un’eleganza un po’ appannata. Probabilmente era stato in grado, in passato, di mantenere certe promesse di lusso e garbo. Aveva ad esempio una bella porta giravole in legno, un particolare che sempre inclina alle fantasticherie.
Fu da lì che una donna entrò, a quell’ora strana della notte, apparentemente pensando ad altro, appena scesa dal taxi. Indossava solo un abito da sera giallo, piuttosto scollato, e neppure una sciarpa leggere sulle spalle: la cosa le dava un’aria intrigante di coloro a cui è successo qualcosa. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Aveva una sua eleganza nel muoversi, ma anche sembrava un’attrice appena rientrata dietro le quinte, sollevata dall’obbligo di recitare e tornata in un qualche se stessa, più sincero.
Così aveva un mdo di mettere i passi, di poco più stanco, e di reggere la minuscola borsetta, quasi un lasciarla. Non era più tanto giovane, ma questo le donava, come succede talvolta alle donne che non hanno mai avuto dubbi sulla propria bellezza. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Fuori era il buio prima dell’alba, né notte né mattino. La hall dell’albergo dimorava immobile, elegante nei dettagli, pulita, morbida: calda nei colori, silenziosa, ben disposta nello spazio, illuminata di riflesso, le pareti alte, il soffitto chiaro, libri sui tavoli, cuscini gonfi sui divani, quadri incorniciati con devozione, un pianoforte nell’angolo, poche scritte necessarie, il font mai lasciato al caso, una pendola, un barometro, un busto di marmo, tende alle finestre, tappeti al pavimento – l’ombra di un profumo. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Poiché il portiere di notte, postata la giacca sullo schienale di una sedia povera, stava dormendo in una vicina stanzetta il sonno leggerissimo di cui era maestro, non ci sarebbe stato nessuno a veder la donna che entrava nell’albergo se non fosse che un uomo seduto in poltrona, in un angolo della hall – irragionevole, a quell’ora della notte – la vide, e allora accavallò la gamba sinistra sulla destra, quando prima era la destra che poggiava sulla sinistra- senza ragione. Si videro.
Aveva l’aria di piovere, ma poi non l’ha fatto, disse la donna. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Si, non si decide, disse l’uomo. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Aspetta qualcuno? </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Io? No. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Che stanchezza. Le spiace se mi siedo un attimo? </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Prego.</i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Niente da bere, vedo. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Non credo che diano la colazione prima delle sette. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Alcol, dicevo. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Ah, quello. Non so. Non credo, a quest’ora. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Che ora è? </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Quattro e dodici. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Sul serio? </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Sì. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Non passa più ‘sta notte. Mi sembra iniziata tre anni fa. Lei che ci fa qui? </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Stavo per andarmene. Devo andare a lavorare. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>A quest’ora? </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Già. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Come fa? </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Niente, mi piace. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Le piace. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Sì. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>incredibile. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Trova? </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Lei ha l’aria di essere la prima persona interessante che incontro stasera. Stanotte. Insomma quello che è. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Non oso pensare agli altri. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Tremendi. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Era a una festa? </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Non sono sicura di sentirmi molto bene. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Chiamo il portiere. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>No, per carità. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Forse sarebbe meglio a stendersi. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Mi tolgo le scarpe, le spiace? </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Ma si immagini… </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Mi dica qualcosa, qualsiasi cosa. Se mi distraggo, passa. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Non saprei cosa… </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Mi parli del suo lavoro. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Non è molto avvincente come argomento… </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Provi. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Vendo bilance. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Continui. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Si pesano un sacco di cose, ed è importante pesarle con esattezza, così io ho una fabbrica che produce bilance, di qualsiasi tipo. Ho undici brevetti, e... </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Vado a chiamare il portiere. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>No, la prego, quello mi odia. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Resti giù. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Se resto giù vomito. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Si tiri su, allora. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Cioè, voglio dire...
Si fanno soldi a vendere bilance? </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Secondo me lei dovrebbe... </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Si fanno soldi a vendere bilance? </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Non molti. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Vada avanti, non pensi a me. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Io veramente dovrei proprio andare. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Mi faccia questa cortesia, continui a parlare per un pò . Poi se ne va.
</i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Si guadagnava abbastanza, fino a qualche anno fa.
Adesso non so, devo avere sbagliato da qualche parte, ma non riesco più a vendere niente. Ho pensato che fossero i miei venditori, così mi son messo a girare io, a vendere, ma in effetti i miei prodotti non vanno più, forse sono invecchiati, non so, forse costano troppo, in genere costano molto cari, perché è tutta roba a mano, lei non ha idea di cosa voglia dire ottenere l’esattezza assoluta, quando si tratta di pesare qualcosa. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Pesare cosa? Mele, persone, cosa? </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Tutto. Dalle bilance per orafi a quelle per i container, facciamo di tutto.</i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Sul serio? </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>È per questo che devo andare, oggi ho da chiudere un contratto importante, non posso davvero arrivare in ritardo, ne va della mia azienda, se non mi va dritta questa... </i></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Porca vacca! </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Merda. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>La accompagno in bagno. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Aspetti, aspetti. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Eh no!... </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Merda. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Vado a prendere un po' d’acqua. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Mi scusi, davvero, mi scusi. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Vado a prendere un po' d'acqua. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>No, resti qui, per favore. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Tenga, si pulisca con questo. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Che vergogna. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Non si preoccupi, ho dei bambini. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Cosa c'entra? </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>I bambini vomitano spesso. I miei, almeno.</i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Ah, scusi. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Per cui non mi fa impressione.</i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Però adesso sarebbe meglio salisse nella sua stanza. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Non posso lasciare qui questo casino... </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Chiamo poi io il portiere, lei salga in camera.
Ha una camera, vero? </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Sì. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Allora vada. Ci penso io. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Non sono sicura di ricordarmi il numero. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Il portiere glielo dirà. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>NON VOGLIO VEDERE IL PORTIERE, quello mi odia, gliel’ho detto. </i></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Lei non ce l’ha una stanza?</i></span><br />
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</script><fb:like font="" href="http://librandoci.blogspot.it/2012/03/1984.html" send="true" show_faces="true" width="450"></fb:like>LibrandoCIhttp://www.blogger.com/profile/16529616996313456992noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6435825165576447406.post-85114885700788570342012-04-24T03:23:00.001-07:002012-04-24T03:25:29.174-07:00Dizionario delle cose perdute<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhrJe-tPmD13jYTOw3HrhK0SX7D-NxFwyoKfgmyiqwo2CbtjgNVWvqdzBj9B0G_Qk9_oL2jWVt1tghBvPI0hB7mSIJsuQBaWM8g8cvj4Ru3uShMFWHNJT8bZvMyUnhYx5cH9YimuSJgF8Gs/s1600/guccini.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhrJe-tPmD13jYTOw3HrhK0SX7D-NxFwyoKfgmyiqwo2CbtjgNVWvqdzBj9B0G_Qk9_oL2jWVt1tghBvPI0hB7mSIJsuQBaWM8g8cvj4Ru3uShMFWHNJT8bZvMyUnhYx5cH9YimuSJgF8Gs/s200/guccini.jpg" width="127" /></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>AUTORE</b>: <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Francesco_Guccini" target="_blank">Francesco Guccini</a></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>GENERE</b>: Romanzo</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>TRAMA:</b></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;">Dalle osterie fuori porta alle braghe corte che oggi nessun ragazzino è più costretto a portare, dal fumo libero nei cinema ai telefoni in duplex, dalla macchina da scrivere ai taxi verdi e neri che quasi nessuno ricorda più, dalle linguette per aprire le lattine agli odori - non ancora coperti dallo smog globale - che animavano ogni angolo delle città: con un poco di nostalgia, ma soprattutto con tutta l'energia e la poesia della sua prosa, Francesco Guccini rivolge il suo sguardo sornione su oggetti, situazioni, emozioni di un passato che è di tutti, ma che rischia di andare perduto. Un viaggio nella vita di ieri che si legge come un romanzo: per scoprire che l'archeologia "vicina" di noi stessi commuove, diverte e parla di come siamo diventati.<br />
</span></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>INCIPIT:</b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b><i>BANANA</i></b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Noi siamo quelli della banana. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Abbiamo, miracolosamente, e di poco, evitato le fasce, quel sistema ignobile di costrizione che voleva tutti gli infanti trasformati in mummie egizie, ma l’infame banana no, non siamo riusciti a evitarla. Appena nati, innocenti, incolpevoli, hanno preso i nostri primi e scarsi capelli e li hanno foggiati in modo che, sulla fronte, emergesse un ricciolone enorme e cavo, un vezzo al quale in nessun modo potevamo ribellarci, una specie di grottesco cannolo che sovrastava i nostri occhi, da poco spalancati sul mondo. Non solo ai maschi è stata imposta tale umiliazione, alla quale evidentemente era impossibile opporsi, ma anche alle femmine toccò questa triste sorte - in più, per loro, con l’aggravante di un lezioso fìocchetto, una piccola farfalletta di stoffa a coronamento del tutto.
Poi, non paghi, ci hanno fotografato. Ma non in casa, perché allora quasi nessuno aveva una macchinetta casalinga, non come ora che, con l’ausilio di ignobili telefonini, è tutto un ticchettare continuo che nemmeno i più convinti giapponesi. No, ci facevano uscire, ci esponevano ai pericoli delle città o delle campagne, ai terribili rigori metereologici, i geli d’inverno, i caldi tropicali dell’estate, e ci portavano in uno studio fotografico. Là ci immortalavano, sordi ai nostri giusti lamenti. Nudi, distesi in varie pose oscene su pelli di svariati felini, lo sguardo vuoto di infantile e innocente perplessità, se non di autentico e consapevole terrore, là tutti a mostrare dubbie rotondità di glutei e tettine grassocce di cui le femmine, raggiunta la pubertà, si sarebbero poi vergognate per i secoli a venire; ma anche i maschi, con eventuali pisellini in aria, non siamo stati da meno, da sempre timorosi che un qualunque discendente, un figlio, un peggio, un nipote, le scoprisse, quelle foto, e ne facesse materia di ignobile e vile ricatto.
Noi siamo quelli lì. Oh, certo, siamo cresciuti, e abbiamo affrontato, chi più, chi meno, le varie avversità o le gioie (le poche, in verità, gioie) che la vita di volta in volta ci ha presentato. Così oggi, non tanto più sereni ma, diciamo, distaccati, vogliamo voltarci indietro e riguardare con affettuosa rimembranza a tante piccole cose che abbiamo incontrato e che, come tante altre cose andate, più che andarsene ci sono volate via. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i><b>IL CHEWING –GUM </b></i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Quando gli americani arrivarono in Italia, in tempo di guerra, oltre alle profumate sigarette, portarono un mucchio di altre cose da noi allora sconosciute, o quasi. La Coca-Cola, per fare un esempio, il burro di arachidi, i pancakes (le frittelle di Paperino) e il chewing-gum. Insieme alle cioccolate (le Hershey) e le multicolori caramelle col buco foggiate a ciambella di salvataggio (le Life Savers), i G.I. statunitensi gettavano ai ragazzini misteriosi pacchettini oblunghi; una volta scartati, questi rivelavano delle tavolettine anch'esse oblunghe e odorose. Caramelle americane? Forse. Ma che fare di quelle strane caramelle? Via lesti in bocca. Però, mastica mastica, quella caramella perdeva sapore e non si scioglieva, e fu quindi rapidamente inghiottita.
Avevamo fatto conoscenza con la gomma da masticare.
Pare che l’uso di masticare qualcosa sìa antico come il mondo, anche se non parlerò dei Neanderthal, (sembra masticassero pure loro curiose resine. Ecco perché poi sono stati sopraffatti dai Cro-Magnon).
Gli antichi greci masticavano non so quale altra resina (gli antichi romani, per fortuna, non masticavano niente), ma si dice che i primi a ruminare gomma seria (grazie, ce l'avevano!) fossero i Maya, che masticavano abitualmente palline di gomma ricavate da una pianta, la Manilkara chilcle, e via andavano felici.
I nordamericani avevano provato a masticare qualcosa, tipo la resina dell’abete rosso, e ci furono diversi tentativi con altri strani ingredienti, ma fu solo un certo William Semple a ottenere un brevetto, il 28 dicembre 1869, per palline ottenute con la gomma chicle.
Erano però senza alcun sapore (un po’ come fumare le sigarette senza nicotina o bere la birra senza alcol), e la geniale invenzione dovette essere perfezionata, fino a giungere alla varia gamma di gusti e offerte dei nostri giorni, anche se certe gomme da masticare non usano più la gomma chicle ma una sostanza chiamata poli-isobutilene, credo un derivato di idrocarburi: praticamente si mastica petrolio e il solo pensiero dovrebbe spingere a legittima ripugnanza.
Ma bando alle ciance: finita la guerra finita la guerra finito il chewing-gum? No, ovviamente, perché l’ondata masticatoria non accennava a diminuire (soprattutto fra i ragazzi) e uscirono italianissimi prodotti, chiamati ben presto "cingomma", o "cicca", o in altre cento regionali varianti.
Per esempio, ci fu un malluccone rosa, all’inizio di caramelloso gusto e di incerta masticazione, che presto esauriva gli effluvi saporosi. L’astuto ragazzo allora lo tuffava nello zucchero e rimasticava, perchè si guardava bene dal gettare via il bolo, ma, al primo (anche al secondo) accenno di male alle ganasce, lo riponeva saggiamente in tasca per ritirarlo fuori a una nuova bisogna e indi ricacciarlo in bocca dopo averlo sommariamente ripulito da briciole e peluzzi vari.
Ma il vero divertimento non era tanto masticare quanto infìlarsi pollice e indice in bocca ed estrarne un lungo filo rosato, badando bene che non si spezzasse, rimettere il tutto in bocca e ripetere l’operazione ad libitum, in special modo alla presenza di adulti che gridavano naturalmente allo schifo. Dopodichè veniva ficcato di nuovo in tasca e lì, a volte dimenticato, si trasformava presto in reperto archeologico.
Uscirono però quasi subito forme più umane di gomme, alcune delle quali contenenti la figurina di un famoso ciclista o di un noto calciatore, il che aumentava la preziosità dell'acquisto.
Ma il vero colpo fu l’invenzione della bubble-gum (credo, questa, americana), la gomma che faceva i palloni. Tu masticavi masticavi e poi, saggiata fra lingua e denti la giusta consistenza, soffiavi tenue fino ad ottenere la fuoriuscita, fra le labbra, di un palloncino che i più abili riuscivano a a foggiare di notevoli dimensioni. Scoppiava anche con un caratteristico sonoro ciac, che, ripetuto più volte, era utilissimo a far girare le scatole a un vicino adulto (e a far partite pure uno schiaffo). Unico svantaggio, il palloncino poteva esplodere sulla faccia rendendo oltremodo difficile il nettarla dai filamenti gommosi. Ma da bambini non sono cose che preoccupano.
Questi giochi sono misteriosamente scomparsi da adolescenti. Solo, a volte, vicino alla ragazzina che ti piaceva, potevi estrarre un pacchettino rettangolare colmo di pasticchette bianche e dire, nonscialante: “Vuoi un chiclets?”.</i></span><br />
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</script><fb:like font="" href="http://librandoci.blogspot.it/2012/03/1984.html" send="true" show_faces="true" width="450"></fb:like>LibrandoCIhttp://www.blogger.com/profile/16529616996313456992noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6435825165576447406.post-8892408953568331982012-04-23T13:40:00.000-07:002012-04-24T08:59:00.557-07:00Bar Sport<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg8pg9oS5Eby-a15MNmdVIFxQ5fIhODjj7rRv0v-lNb6EiuTfDm7sP5pl9JbzkzNmNI9RuD2Od_aXQuvlNcYpETmCzFMVEhX9XOrZuYd2FdTamrgwuOeAuf0Nmk3T-wolYHBQUnVNN1_f1f/s1600/cover.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg8pg9oS5Eby-a15MNmdVIFxQ5fIhODjj7rRv0v-lNb6EiuTfDm7sP5pl9JbzkzNmNI9RuD2Od_aXQuvlNcYpETmCzFMVEhX9XOrZuYd2FdTamrgwuOeAuf0Nmk3T-wolYHBQUnVNN1_f1f/s200/cover.jpg" width="123" /></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>AUTORE</b>: <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Stefano_Benni" target="_blank">Stefano Benni</a></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>GENERE</b>: Romanzo</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>TRAMA:</b></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;">Ci sono bar e bar e poi c’è il Bar Sport che tutti li accomuna e li fonde in un solo paradigmatico universo, in una sola grande scena di umanità raccolta sotto la fraterna insegna come intorno a un fuoco, intorno al calore di un’identità minacciata. Stefano Benni, con il suo Bar Sport, ha aperto la porta su un mondo che per tutti è diventato un luogo, anzi il luogo familiare per eccellenza. Il Bar Sport è quello dove non può mancare un flipper, un telefono a gettoni e soprattutto la "Luisona", la brioche paleolitica condannata a un’esposizione perenne in perenne attesa del suo consumatore. Il Bar Sport è quello in cui passa il carabiniere, lo sparaballe, il professore, il tecnnico (proprio così, con due n) che declina la formazione della nazionale, il ragioniere innamorato della cassiera, il ragazzo tuttofare. Nel Bar Sport fioriscono le leggende, quella del Piva (calciatore dal tiro portentoso), del Cenerutolo (il lavapiatti che sogna di fare il cameriere) e delle allucinazioni estive. Vagando e divagando Benni ha scritto la sua piccola commedia umana, a cui presto aggiungerà un nuovo capitolo. Ebbene sì, Bar Sport è vivo, è ancora vivo.<br />
</span></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>INCIPIT:</b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>INTRODUZIONE STORICA</b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>L'uomo primitivo non conosceva il bar. Quando la mattina si alzava, nella sua caverna, egli avvertiva subito un forte desiderio di caffè. Ma il caffè non era ancora stato inventato e l'uomo primitivo aggrottava la fronte, assumendo la caratteristica espressione scimmiesca. Non c'erano neanche bar. Gli scapoli, la sera, si trovavano in qualche grotta, si mettevano in semicerchio e si scambiavano botte di clava in testa secondo un preciso rituale. Era un divertimento molto rozzo, e presto passò di moda. Allora gli uomini primitivi cominciarono a riunirsi in caverne e a farsi sui muri delle caricature, che tra di loro chiamavano scherzosamente graffiti paleolitici. Ma questo primo tentativo di bar fu un fallimento. Non esistevano la moviola, il vistoso sgambetto, il secco rasoterra, il dribbling ubriacante e l'arbitraggio scandaloso, e la conversazione languiva in rutti e grugniti.
Gli antichi romani, invece, inventarono subito la taverna osservando il volo degli uccelli, e la suburra era un vero pullulare di bar. Gli osti facevano affari d'oro, tanto che divennero presto la classe dominante. Cesare cominciò la sua carriera come cameriere, e conservò per tutta la vita la pessima abitudine di farsi dare mance dai barbari sconfitti.
Nei bar romani si beveva molta menta, vini dei colli e assenzio. Le leggi erano molto severe: a chi veniva pescato ubriaco veniva mozzata la lingua. Questo provvedimento fu revocato allorché in Senato le sedute cominciarono a svolgersi in perfetto silenzio. I camerieri erano per la maggior parte schiavi cartaginesi. Ma c'erano anche molti filosofi greci, che servivano in tavola per mantenersi agli studi. Aristotele fece il cameriere per due anni al «Porcus rotitus», ed ebbe l'intuizione della sua Logica osservando un cliente che cercava di infilzare con la forchettina una grossa cipolla. Platone fece lo sguattero al «Pomplius», uno dei ristoranti più à la page di Roma dove il carrello del bollito era una biga a due cavalli.
Anche in Grecia i bar ebbero grande diffusione. I filosofi Peripatetici insegnavano nei tavolini all'aperto e finivano le lezioni completamente ubriachi. Pitagora inventò la sua famosa tavola perché era stanco di essere imbrogliato sui conti della birra, e Zenone divenne Stoico perché non aveva mai la pazienza di far raffreddare la sua cioccolata in coppa. </i></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><i>Il medioevo fu uno dei periodi d'oro dei bar. Fu inventato il posto di ristoro, o stazione per cavalli, in cui i cavalli potevano riposare e i cavalieri rifocillarsi. In realtà la cosa andava così: il cavaliere chiedeva al cavallo «Sei stanco, sì», si fermava e beveva. Questo avveniva anche trenta, quaranta volte in un chilometro.
Nelle taverne ci si fermava a duellare e a schiaffeggiarsi con i guanti. D'Artagnan sfidava e uccideva tutti quelli che sorprendeva a giocare a flipper, perché il rumore lo mandava in bestia.
In queste taverne, che avevano nomi come «Il Gallo d'oro», «L'oca irsuta», «Il Buco del diavolo», si beveva in coppe pesantissime alte fino a mezzo metro, intarsiate di rubini e zaffiri, con olive gigantesche come cocomeri.
Una variante celebre di queste taverne erano quelle dei pirati, dove si beveva quasi esclusivamente rhum. In verità i pirati andavano pazzi per il frappé: ma rozzi e adusi alla vita di mare, finivano sempre per piantarsi i cucchiaini negli occhi. Per questo il novanta per cento portava la famosa benda nera.
Molti finirono così distrutti dall'«acqua di fuoco», finché il famoso Morgan l'orbo non scoprì che il frappé si poteva bere anche con la cannuccia. Per questa intuizione la regina d'Inghilterra lo nominò baronetto e gli regalò un timone in similpelle leopardo.
Alcune di queste taverne erano leggendarie, come il «Cannone delle Antille», il cui proprietario era il famoso O'Shamrok. O'Shamrok aveva un pappagallo straordinario, Bozambo, che egli aveva addestrato a tenerlo sulla spalla. Cioè era il pappagallo che teneva sulla spalla O'Shamrok, il quale si teneva aggrappato con i piedi. Il pappagallo serviva i clienti in tre lingue e O'Shamrok fumava la pipa e si limitava a dire delle cretinate come «Shamrok vuole il brustolino» oppure «Shamrok dice buonasera. Eeeerk», e così via. In quella taverna si poteva entrare solo con una gamba di legno, o con un occhio di vetro, o con un uncino al posto della mano, tanto che c'era sempre un fabbro pronto a separare gli avventori che si salutavano. Il cliente
più gradito era l'Olonese, che era in realtà un comodino con un braccio e un cappello in testa. L'Olonese beveva ogni sera quattro pinte di rhum, che gli venivano versate nei cassetti. Quando era in vena di scherzi, spalancava lo sportello in fondo e mostrava l'orinale, provocando l'ilarità degli astanti. Morì a Maracaibo: i suoi si ammutinarono e di notte gli riempirono il letto di chiodi.
Un altro cliente abituale era il Corsaro Nero. Aveva una gamba di legno saldata male, e quando cambiava il tempo la giuntura gli dava delle fitte atroci. Quando ciò avveniva, il Nero perdeva la testa, cominciava a urlare e con la scimitarra si tagliava la gamba. Per questo uno dei suoi uomini lo seguiva sempre con una sacca da golf piena di gambe di ricambio. Il Corsaro Nero era molto vanitoso e ne aveva più di trecento, tutte di legno pregiato, da combattimento, da passeggio e da sera. Ne aveva anche una da affondamento, terminante in una pinna di tek.
Una sera che era molto ubriaco e aveva molto male, il Corsaro Nero prese la scimitarra e si tagliò la gamba buona. Sulle prime non volle ammettere l'errore e continuò a giocare stoicamente a chemin de fer. Verso mezzanotte, però, cominciò a dondolare sulla sedia e disse di non sentirsi bene. Per fortuna c'era lì un chirurgo, Almond l'assassino, che cosparse di whisky la ferita e disse: «Nero, tieni duro, adesso ti farò un po' di male». Il Corsaro disse: «Non ho paura del male. Ma cosa dirà mia madre?». Almond gli montò due gambe, ma una era più lunga, così il Corsaro stava in piedi un momento, poi precipitava a destra. Allora ne montò due uguali, ma una era scura e l'altra chiara e il Corsaro quando si vide allo specchio si mise a piangere. Finalmente riuscì a montarne due che andavano bene, ma proprio in quel momento entrarono gli sgherri dell'esercito inglese, capitanati da Nelson.Tutti i pirati riuscirono a fuggire scivolando con l'uncino lungo i fili del bucato. Solo il Corsaro restò fermo in mezzo alla sala con le gambe di legno, senza riuscire a muoversi. Nelson lo vide e disse: «Nero, cos'è, un altro dei tuoi sporchi trucchi?». Il Corsaro Nero replicò sardonico: «Bau», e cercò di scappare a quattro gambe. Fu preso e buttato nelle carceri, per essere impiccato l'indomani.
La Filibusta, quella sera, si riunì sulla nave dell'Olonese per studiare una maniera per liberare il Corsaro Nero. Ma dalla costa facevano i fuochi artificiali, e tutti si precipitarono in coperta a vederli, così nessuno si ricordò più dello sventurato. La mattina il Corsaro Nero si presentò sul palco dei condannati con un sorriso beffardo. Continuò a sorridere anche mentre gli mettevano il cappio attorno al collo. Infatti s'era fatto fare, durante la notte, due gambe di legno alte sei metri, e quando la botola si aprì lui restò in
piedi sui trampoli. Il boia dovette scendere sotto il palco con una sega. Ma intanto dalla nave dell'Olonese partì una bordata di cannonate che centrò in pieno il palco, e il Nero fuggì con la forca in spalla, arrivò fino al mare, rubò un gommone e tornò tra i suoi, che però si ammutinarono e lo fecero imbalsamare. Ma stiamo uscendo dall'argomento.
Passiamo quindi alla Rivoluzione francese: in questo periodo il bar ebbe veri momenti di fulgore. I nobili vi passavano quasi tutta la giornata.
Cristoforo Colombo era stato da poco in America, e appena sbarcato aveva visto gli indigeni che portavano al collo degli strani oggetti di ferro, a forma di cilindro con un piccolo becco. Gli indios, nel
loro dialetto, li chiamavano «napoletana», o «moka», che voleva dire «macchina-di-ferro-dal-nero-succo-che ti sveglia». Essi tenevano in questi cilindri un liquore denso e scuro, di cui bevevano quantità incredibili. Cristoforo Colombo volle assaggiarlo e subito disse: «Manca lo zucchero», poi propose una permuta, e si fece dare tre di queste macchine per trecento sveglie. Gli indigeni, soddisfatti, lo chiamarono «Bazuk» (uomo-bianco-che-fa-gli-affari-da-bestia), e fecero un balletto in suo onore.
Colombo tornò in Spagna, e appena giunto alla corte della regina Isabella, si chinò ai suoi piedi con la cuccuma in mano e le fece una grossa macchia sul vestito intarsiato di diamanti. La regina adirata disse: «Que fais?» (cosa fai?) anzi non disse proprio così, comunque da quel giorno la bevanda si chiamò Quefé e poi Caffè, anche se il popolo irriverente insisteva nel chiamarlo Cazzofè. Alla corte spagnola il caffè divenne subito di gran moda: ma potevano berlo solo gli uomini, poiché per le donne era considerato scandaloso farsi vedere con una tazzina in mano. In realtà, le dame della corrotta corte di Isabella tutte le notti, di nascosto scivolavano fuori del palazzo reale travestite da palafrenieri, e andavano a bere il caffè nella suburra. Un giorno il cuoco di palazzo, Olivares, sorprese la regina che di nascosto frugava nel bidone del rusco per raccattare una manciata di fondi. Per far tacere lo scandalo il re dovette nominarlo marchese e impiccarlo.
Dalla Spagna il caffè volò in Francia, dove divenne la bevanda preferita della nobiltà. Qui l'abate Sieyes, nota figura di taccagno,inventò il cappuccino, che originariamente al posto del latte aveva l'acqua.
I nobili francesi, come detto, davano triste spettacolo di sé passando tutto il tempo al bar e divertendosi a sputare i semi delle olive in testa al Terzo Stato. Il popolo fremeva, e Parigi era ormai una polveriera. La scintilla fu data da un episodio avvenuto al bar "Le Canard muscleton»; il marchese di Poissac, noto libertino, buttò una palla di gelato nella scollatura di una cameriera, e il marito di questa lo inseguì tra i tavolini e lo uccise. Subito il popolo, armato di forconi, scese in strada e si mise a fare scempio di artstocratici.
Il re, dato che la CIA non era ancora stata costituita, fu costretto a fuggire. Ma mentre stava già con una gamba sul davanzale della finestra, gli giunse la notizia che i rivoluzionari si erano riuniti
nella sala della pallacorda. Allora si precipitò trafelato, e infatti li trovò che giocavano, e stavano litigando perché Robespierre aveva sbagliato una schiacciata.
«Voglio giocare anch'io» disse il re, e tutti gli piombarono addosso e lo portarono alla ghigliottina.
Intanto, in Italia, Girolamo Savonarola bollava la corruzione della nobiltà e lanciava il caffè Hag. Il resto è storia dei giorni nostri.</i></span><br />
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</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>GENERE</b>: Diario</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>TRAMA:</b></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;">Il "Diario" della ragazzina ebrea che a tredici anni racconta gli orrori del Nazismo torna in una nuova edizione integrale, curata da Otto Frank e Mirjam Pressler, e nella versione italiana da Frediano Sessi, con la traduzione di Laura Pignatti e la prefazione dell'edizione del 1964 di Natalia Ginzburg. Frediano Sessi ricostruisce in appendice gli ultimi mesi della vita di Anna e della sorella Margot, sulla base delle testimonianze e documenti raccolti in questi anni.<br />
</span></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>INCIPIT:</b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"> <i> <br /><b>
Domenica, 14 giugno 1942. </b></i></span></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"><i>Venerdì 12 giugno ero già sveglia alle sei: si capisce, era il mio compleanno! Ma alle sei non mi era consentito d'alzarmi, e così dovetti frenare la mia curiosità fino alle sei e tre quarti. Allora non potei più tenermi e andai in camera da pranzo, dove Moortje, il gatto, mi diede il benvenuto strusciandomi addosso la testolina.
Subito dopo le sette andai da papà e mamma e poi nel salotto per spacchettare i miei regalucci. Il primo che mi apparve fosti tu, forse uno dei più belli fra i miei doni. Poi un mazzo di rose, una piantina, due rami di peonie: ecco i figli di Flora che stavano sulla mia tavola quella mattina; altri ancora ne giunsero durante il giorno.
Da papà e mamma ebbi ina quantità di cose, e anche i nostri numerosi conoscenti mi hanno veramente viziata. Fra l'altro ricevetti un gioco di società, molte ghiottonerie, cioccolata, un "puzzle", una spilla, la "Camera Obscura" di Hildebrand, le Leggende Olandesi" di Joseph Cohen, le "Vacanze di Montagna di Daisy", un libro straordinario, e un po' di denaro, così che mi potrò comperare i "Miti di Grecia e di Roma". Che bellezza!
Poi Lies venne a prendermi e andammo a scuola. Nell'intervallo offrii dei biscottini ai professori e ai compagni e poi ci rimettemmo al lavoro.
Ora devo smettere di scrivere. Diario mio, ti trovo tanto bello! </i></span></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"><i><br /></i></span></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"><i><b>Lunedì, 15 giugno 1942. </b></i></span></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"><i>Nel pomeriggio di domenica ho festeggiato il mio compleanno. Fu proiettato un film, "Il guardiano del faro", con Rin-tin-tin, che è piaciuto molto ai miei compagni di scuola. Ci divertimmo molto e ci trovammo perfettamente affiatati. C'era una quantità di ragazzi e ragazze. Mamma vuol sempre sapere chi sposerò. Non sospetta nemmeno che sia Peter Wessel, perché una volta con una gran faccia tosta sono riuscita a furia di chiacchiere a toglierle quell'idea dalla testa. Lies Goosens e Sanne Houtman sono state per anni le mie migliori amiche. Poi ho conosciuto Jopie de Waal al Liceo ebraico. Ora è lei la mia migliore amica, e stiamo molto insieme. Lies è più legata con un'altra ragazza e Sanne è passata in un'altra scuola, dove ha fatto nuove amicizie. </i></span></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"><i><br /></i></span></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"><i><b>Sabato, 20 giugno 1942. </b></i></span></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"><i>Per alcuni giorni non ho scritto nulla, perché prima ho voluto riflettere un poco su questa idea del diario. Per una come me, scrivere un diario fa un curioso effetto. Non soltanto perché non ho mai scritto, ma perché mi sembra che più tardi né io né altri potremo trovare interessanti gli sfoghi di una scolaretta di tredici anni. Però, a dire il vero, non è di questo che si tratta; a me piace scrivere e soprattutto aprire il mio cuore su ogni sorta di cose, a fondo e completamente.
"La carta è più paziente degli uomini"; rimuginavo entro di me questa massima in una delle mie giornate un po' melanconiche mentre sedevo annoiata colla testa fra le mani, incerta se uscire o restare in casa, e finivo col rimanermene nello stesso posto a fantasticare. Proprio così, la carta è paziente, e siccome non ho affatto intenzione di far poi leggere ad altri questo quaderno rilegato di cartone che porta il pomposo nome di "diario", salvo il caso che mi capiti un giorno di trovare un amico o un'amica che siano veramente "l'amico" o "l'amica", così la faccenda non riguarda che me. Eccomi al punto da cui ha preso origine quest'idea del diario: io non ho un'amica.
Per essere più chiara debbo aggiungere una spiegazione, giacché nessuno potrebbe credere che una ragazza di tredici anni sia sola al mondo. Neppur questo è vero: ho dei cari genitori e una sorella di sedici anni; conosco, tutto sommato, una trentina di ragazze di alcune delle quali potreste dire che sono mie amiche, ho un corteo di adoratori che mi guardano negli occhi e, se non possono fare altrimenti, in classe cercano di afferrare la mia immagine servendosi di uno specchietto tascabile. Ho dei parenti, care zie e cari zii, un buon ambiente familiare; no, apparentemente non mi manca nulla, salvo "l'amica". Con nessuno dei miei conoscenti posso far altro che chiacchiere, né parlar d'altro che dei piccoli fatti quotidiani. Non c'è modo di diventare più intimi, ecco il punto. Forse questa mancanza di confidenza è colpa mia; comunque è una realtà, ed è un peccato non poterci far nulla.
Perciò questo diario. Allo scopo di dar maggior rilievo nella mia fantasia all'idea di un'amica lungamente attesa, non mi limiterò a scrivere i fatti nel diario, come farebbe qualunque altro, ma farò del diario l'amica, e l'amica si chiamerà Kitty. Perché la finzione del mio racconto a Kitty non sembri troppo spinta e grossolana, bisogna che prima racconti brevemente la storia della mia vita, sebbene a malincuore.
Mio padre aveva trentasei anni quando sposò mia madre che ne aveva venticinque. Mia sorella Margot nacque nel 1926 a Francoforte sul Meno; venni poi io il 12 giugno 1929, e siccome siamo ebrei puri, nel 1933 emigrammo in Olanda, dove mio padre fu assunto come direttore della Travies N. V. Questa è in stretta relazione con la ditta Kolen E C., che ha sede nello stesso edificio, e di cui papà è socio.
La nostra vita trascorse in un'inevitabile ansia, perché la parte della famiglia rimasta in Germania non fu risparmiata dalle leggi antisemitiche di Hitler. Nel 1938, dopo i "pogrom", fuggirono i miei due zii, fratelli di mia madre, che si posero in salvo negli Stati Uniti. La mia vecchia nonna venne da noi: aveva allora settantatré anni. I bei tempi finirono nel maggio 1940; prima la guerra, la capitolazione, l'invasione tedesca, poi cominciarono le sventure per noi ebrei. Le leggi antisemitiche si susseguivano l'una all'altra. Gli ebrei debbono portare la stella giudaica. Gli ebrei debbono consegnare le biciclette. Gli ebrei non possono salire in tram, gli ebrei non possono più andare in auto. Gli ebrei non possono fare acquisti che fra le tre e le cinque, e soltanto dove sta scritto "bottega ebraica". Gli ebrei dopo le otto di sera non possono essere per strada, né trattenersi nel loro giardino o in quello di conoscenti. Gli ebrei non possono andare a teatro, al cinema o in altri luoghi di divertimento, gli ebrei non possono praticare sport all'aperto, ossia non possono frequentare piscine, campi di tennis o di hockey eccetera. Gli ebrei non possono nemmeno andare a casa di cristiani. Gli ebrei debbono studiare soltanto nelle scuole ebraiche. E una quantità ancora di limitazioni del genere. Così trascorreva la nostra piccola vita, e questo non si poteva e quello non si poteva. Jopie è sempre contro di me: «Non posso far niente con te, perché ho paura che non sia permesso». La nostra libertà è dunque assai ridotta, ma si può ancora resistere.
La nonna morì nel gennaio 1942: nessuno sa quanto io pensi a lei e quanto ancora le voglia bene.
Fin dal 1934 ero entrata nel giardino d'infanzia della scuola Montessori, e ho poi continuato nello stesso istituto. Nella Sesta B ebbi come insegnante la direttrice, la signora K.: alla fine dell'anno, nel separarci, eravamo molto commosse e piangevamo tutt'e due. Nel 1941 mia sorella Margot e io fummo trasferite al Liceo ebraico, lei in quarta e io in prima. Finora a noi quattro è andata discretamente bene. Ed eccomi giunta alla data d'oggi.
</i></span></span><br />
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</script><fb:like font="" href="http://librandoci.blogspot.it/2012/03/1984.html" send="true" show_faces="true" width="450"></fb:like>LibrandoCIhttp://www.blogger.com/profile/16529616996313456992noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6435825165576447406.post-60152728086805601252012-04-12T10:46:00.000-07:002012-04-23T13:56:26.984-07:00Il barone rampante<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiSxgDekYu98FRBxWf27TrlfNWypFN1O2nu_PtFDl6OI9LUGLruh_PjDKhHgjqXop0SvYKS4VCwlv3MIU5oAj5La-ReMkhAzjelkK2oWmey8KgUjwqQo8nBw3SiDr87erGFvOPFQGqyP95u/s1600/copertina+calvino.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiSxgDekYu98FRBxWf27TrlfNWypFN1O2nu_PtFDl6OI9LUGLruh_PjDKhHgjqXop0SvYKS4VCwlv3MIU5oAj5La-ReMkhAzjelkK2oWmey8KgUjwqQo8nBw3SiDr87erGFvOPFQGqyP95u/s200/copertina+calvino.jpg" width="117" /></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>AUTORE</b>: <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Italo_Calvino">Italo Calvino</a></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>GENERE</b>: Romanzo</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>TRAMA:</b></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;">l narratore ripercorre la lunga vicenda del fratello, Cosimo di Rondò, vissuto nella seconda metà del XVIII secolo a Ombrosa, in Liguria. Cosimo, per sfuggire a una punizione inflittagli dai suoi educatori, decide di salire su un albero per non ridiscendere mai più. Cosimo si costruisce un mondo aereo dove diversi personaggi della cultura e della politica (Napoleone compreso) lo vanno a trovare, testimoniandogli la loro ammirazione. Vive anche una tormentata storia d'amore con la volubile Viola. Cosimo muore vecchio, senza mai discendere in terra: ammalato, in punto di morte, si aggrappa alla fune di una mongolfiera e scompare mentre attraversa, così appeso, il mare.<br />
</span></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>INCIPIT:</b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"> <i> <br />
Fu il 15 di giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per l’ultima volta in mezzo a noi. Ricordo come fosse oggi. Eravamo nella sala da pranzo della nostra villa d’Ombrosa, le finestre inquadravano i folti rami del grande elce del parco. Era mezzogiorno, e la nostra famiglia per vecchia tradizione sedeva a tavola a quell’ora, nonostante fosse già invalsa tra i nobili la moda, venuta dalla poco mattiniera Corte di Francia, d’andare a desinare a metà del pomeriggio. Tirava vento dal mare, ricordo, e si muovevano le foglie. Cosimo disse: - Ho detto che non voglio e non voglio! - e respinse il piatto di lumache. Mai s’era vista disubbidienza più grave.
A capotavola era il Barone Arminio Piovasco di Rondò, nostro padre, con la parrucca lunga sulle orecchie alla Luigi XIV, fuori tempo come tante cose sue. Tra me e mio fratello sedeva l’Abate Fauchelafleur, elemosiniere della nostra famiglia ed aio di noi ragazzi. Di fronte avevamo la Generalessa Corradina di Rondò, nostra madre, e nostra sorella Battista, monaca di casa. All’altro capo della tavola, rimpetto a nostro padre, sedeva, vestito alla turca, il Cavalier Avvocato Enea Silvio Carrega, amministratore e idraulico dei nostri poderi, e nostro zio naturale, in quanto fratello illegittimo di nostro padre.
Da pochi mesi, Cosimo avendo compiuto i dodici anni ed io gli otto, eravamo stati ammessi allo stesso desco dei nostri genitori; ossia, io avevo beneficiato della stessa promozione di mio fratello prima del tempo, perché non vollero lasciarmi di là a mangiare da solo. Dico beneficiato così per dire: in realtà sia per Cosimo che per me era finita la cuccagna, e rimpiangevamo i desinari nella nostra stanzetta, noi due soli con l’Abate Fauchelafleur. L’Abate era un vecchietto secco e grinzoso, che aveva fama di giansenista, ed era difatti fuggito dal Delfìnato, sua terra natale, per scampare a un processo dell’Inquisizione.
Ma il carattere rigoroso che di lui solitamente tutti lodavano, la severità interiore che imponeva a sé e agli altri, cedevano continuamente a una sua fondamentale vocazione per l’indifferenza e il lasciar correre, come se le sue lunghe meditazioni a occhi fìssi nel vuoto non avessero approdato che a una gran noia e svogliatezza, e in ogni difficoltà anche minima vedesse il segno d’una fatalità cui non valeva opporsi. I nostri pasti in compagnia dell’Abate cominciavano dopo lunghe orazioni, con movimenti di cucchiai composti, rituali, silenziosi, e guai a chi alzava gli occhi dal piatto o faceva anche il più lieve risucchio sorbendo il brodo; ma alla fine della minestra l’Abate era già stanco, annoiato, guardava nel vuoto, schioccava la lingua a ogni sorso di vino, come se soltanto le sensazioni più superficiali e caduche riuscissero a raggiungerlo; alla pietanza noi già ci potevamo mette-, re a mangiare con le mani, e finivamo il pasto tirandoci torsoli di pera, mentre l’Abate faceva cadere ogni tanto uno dei suoi pigri: - ... Ooo bien!... Ooo alors!
Adesso, invece, stando a tavola con la famiglia, prendevano corpo i rancori familiari, capitolo triste dell’infanzia. Nostro padre, nostra madre sempre lì davanti, l’uso delle posate per il pollo, e sta’ dritto, e via i gomiti dalla tavola, un continuo! e per di più quell’antipatica di nostra sorella Battista. Cominciò una serie di sgridate, di ripicchi, di castighi, d’im- puntature, fino al giorno in cui Cosimo rifiutò le lumache e decise di separare la sua sorte dalla nostra.
Di quest’accumularsi di risentimenti familiari mi resi conto solo in seguito: allora avevo otto anni, tutto mi pareva un gioco, la guerra di noi ragazzi contro i grandi era la solita di tutti i ragazzi, non capivo che l’ostinazione che ci metteva mio fratello celava qualcosa di più fondo.
Il Barone nostro padre era un uomo noioso, questo è certo, anche se non cattivo: noioso perché la sua vita era dominata da pensieri stonati, come spesso succede nelle epoche di trapasso. L’agitazione dei tempi a molti comunica un bisogno d’agitarsi anche loro, ma tutto all’incontrario, fuori strada: così nostro padre, con quello che bolliva allora in pentola, vantava pretese al titolo di Duca d’Ombrosa, e non pensava ad altro che a genealogie e successioni e rivalità e alleanze con i potentati vicini e lontani.
Perciò a casa nostra si viveva sempre come si fosse alle prove generali d’un invito a Corte, non so se quella dell’Imperatrice d’Austria, di Re Luigi, o magari di quei montanari di Torino. Veniva servito un tacchino, e nostro padre a guatarci se lo scalcavamo e spolpavamo secondo tutte le regole reali, e l’Abate quasi non ne assaggiava per non farsi cogliere in fallo, lui che doveva tener bordone a nostro padre nei suoi rimbrotti. Del Cavalier Avvocato Carrega, poi, avevamo scoperto il fondo d’animo falso: faceva sparire cosciotti interi sotto le falde della sua zimarra turca, per poi mangiarseli a morsi come piaceva a lui, nascosto nella vigna; e
noi avremmo giurato (sebbene mai fossimo riusciti a coglierlo sul fatto, tanto leste erano le sue mosse) che venisse a tavola con una tasca piena d’ossicini già spolpati, da lasciare nel suo piatto al posto dei quarti di tacchino fatti sparire sani sani. Nostra madre Generalessa non contava, perché usava bruschi modi militari anche nel servirsi a tavola, - So, Noch ein wenig! Gut! - e nessuno ci trovava da ridire; ma con noi teneva, se non all’etichetta, alla disciplina, e dava man forte al Barone coi suoi ordini da piazza d’armi, - Sitz’ ruhig! E pulisciti il muso! - L’unica che si trovasse a suo agio era Battista, la monaca di casa, che scarnificava pollastri con un accanimento minuzioso, fibra per fibra, con certi coltellini appuntiti che aveva solo lei, specie di lancette da chirurgo. Il Barone, che pure avrebbe dovuto portarcela ad esempio, non osava guardarla, perché, con quegli occhi stralunati sotto le ali della cuffia inamidata, i denti stretti in quella sua gialla faccina da topo, faceva paura anche a lui. Si capisce quindi come fosse la tavola il luogo dove venivano alla luce tutti gli antagonismi, le incompatibilità tra noi, e anche tutte le nostre follie e ipocrisie; e come proprio a tavola si determinasse la ribellione di Cosimo. Per questo mi dilungo a raccontare, tanto di tavole imbandite nella vita di mio fratello non ne troveremo più, si può esser certi.
Era anche l’unico posto in cui ci incontravamo coi grandi. Per il resto della giornata nostra madre stava ritirata nelle sue stanze a fare pizzi e ricami e fìlé, perché la Generalessa in verità solo a questi lavori tradizionalmente donneschi sapeva accudire e solo in essi sfogava la sua passione guerriera. Erano pizzi e ricami che rappresentavano di solito mappe geografìche; e stesi su cuscini o drappi d’arazzo, nostra madre li punteggiava di spilli e bandierine, segnando i piani di battaglia delle Guerre di Successione, che conosceva a menadito.
</i></span></span><br />
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</script><fb:like font="" href="http://librandoci.blogspot.it/2012/03/1984.html" send="true" show_faces="true" width="450"></fb:like>LibrandoCIhttp://www.blogger.com/profile/16529616996313456992noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6435825165576447406.post-42895643596008631062012-04-07T14:33:00.000-07:002012-04-07T14:33:08.216-07:00Inseparabili<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjcccgeqqsFBzq7XgpYGNGG4k0EzKp_EtvwvZJu8MW_ogdAi53aUUqGzzXE6hNXUF6S38xlMoxIILAABw5qpp7LybyHicsj2nvovgKzpAzs-EE482LdYfbiqeeoFdD3SJuUPGaU3TDYRWBk/s1600/piperno.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjcccgeqqsFBzq7XgpYGNGG4k0EzKp_EtvwvZJu8MW_ogdAi53aUUqGzzXE6hNXUF6S38xlMoxIILAABw5qpp7LybyHicsj2nvovgKzpAzs-EE482LdYfbiqeeoFdD3SJuUPGaU3TDYRWBk/s200/piperno.jpg" width="129" /></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>AUTORE</b>: <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Alessandro_Piperno">Alessandro Piperno</a></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>GENERE</b>: Romanzo</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>TRAMA:</b></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;">Inseparabili, come i pappagallini che non sanno vivere se non insieme: questo sono sempre stati i fratelli Pontecorvo, Filippo e Samuel, diversissimi e complementari. Ma ecco che i loro destini sembrano invertirsi e qualcosa si incrina. L'indolente Filippo diventa un cartoonist dal successo planetario, il brillante Samuel si avvita nella spirale di un vertiginoso fallimento lavorativo e sentimentale... Una famiglia intera alla resa dei conti: quando la fama, la ricchezza, il sesso, l'amore non contano più nulla, che cosa ancora dà senso alla vita?<br />
</span></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>INCIPIT:</b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"> <i> <br />
Prima parte<br />
<br />
E' SUCCESSO!<br />
Basta frequentare se stessi con assiduità per capire che, se gli altri ti somigliano, be’, allora degli altri non c’è da fidarsi.<br />
Da una vita Filippo Pontecorvo non faceva che ripeterselo. Per questo non era così sorpreso che Anna, sua moglie, da quando aveva saputo che il cartone animato del marito – prodotto con pochi spiccioli e senza grandi pretese – era stato selezionato alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes, per ritorsione gli avesse inflitto il più drastico sciopero sessuale che il loro strambo matrimonio avesse mai conosciuto. Peccato che tanta consapevolezza non alle- viasse in lui lo sconforto: semmai lo incrementava subdolamente.<br />
Da un mese e mezzo ormai, Anna fomentava bellicosi picchetti davanti alla prospera fabbrica della loro intimità. E sebbene per un tizio come Filippo, con un debole per il bistrattato sesso coniugale, si trattasse di un vero castigo, tale sabotaggio non lo aveva mai fatto arrabbiare come quel giorno di maggio. Se ne stava lì, nella penombra pomeridiana della stanza da letto, a riempire la sacca militare coi suoi stracci in vista della partenza per Cannes dell’indomani. Chissà perché, avvertiva un senso di nausea, neanche si stesse preparando per una missione in Afghanistan.<br />
Fuori pioveva a dirotto. Dentro Filippo si sentiva affogare. Da qualche minuto stava cercando di consolarsi con una tecnica da lui stesso messa a punto, tanto collaudata quanto inefficace. Consisteva nel fare un benevolo bilancio di vita: un consuntivo che, almeno nelle intenzioni di chi lo stilava, avrebbe dovuto sprizzare ettolitri di irragionevole ottimismo.<br />
Dunque, vediamo un po’: aveva quasi trentanove anni, un’età pericolosa ma niente male. Stava per partecipare a un’importante kermesse. Disponeva di un numero invidiabile di pantaloni mimetici, in ricordo della sola esperienza luminosa della sua esistenza: sottotenente nei fucilieri assaltatori alla caserma di Cesano.<br />
Malgrado, secondo gli antiquati canoni della madre, non avesse combinato quasi niente nella vita, Filippo non si sentiva scontento di sé. Anzi, gli pareva di aver saputo imprimere una certa classe a tutta quell’inerzia.<br />
Sposare la figlia di un milionario era stato un colpo da maestro. Anna si occupava della sua sussistenza con la stessa irrefutabile solerzia con cui, per un sacco di tempo, se n’era occupata la madre. Eppure, anche se indossare i panni del mantenuto non lo umiliava più di tanto, cionondimeno gli dispiaceva che la maggior parte dei loro conoscenti liquidasse l’unione tra lui e Anna come un matrimonio di interesse. La verità è che Filippo aveva iniziato ad amare Anna Cavalieri molto prima di incontrarla. E questa era la cosa più romantica che fosse capitata a entrambi.<br />
Le donne: altro capitolo da cui trarre consolazione. Filippo non era un tipino come suo fratello Samuel, tutto frigido e schifiltoso. Di quelli che, per rendere a letto, hanno bisogno d’un bungalow a cinque stelle vista oceano. Intendiamoci: non che avessero mai discusso certi argomenti, ma qualcosa gli diceva che il fratellino avesse divorato troppi film con Fred Astaire e Gene Kelly per essere un grande scopatore. Lui, invece, almeno in quel ramo, se la cavava egregiamente: anche nelle circostanze più squallide e con le partner meno appetitose.<br />
Filippo evitò di conteggiare – nella lista delle cose-di-cui-essere- fiero – la laurea in Medicina, conseguita con fatica indicibile grazie allo sprone di una specie di vocazione dinastica: il padre era stato un oncologo pediatrico di fama internazionale, da anni la madre era la geriatra più in voga nei circoli bocciofili orbitanti intorno all’Oliata.<br />
Si guardò bene inoltre dall’includere il periodo trascorso in Bangladesh nelle file di Medici Senza Frontiere, un’avventura pe- nosa in tutti i sensi, anche se gli aveva fornito la maggior parte del materiale per il suo cartone animato.<br />
In compenso rivalutò in extremis la stupefacente capacità di imitare, con mano felice, i disegni dei grandi venerati maestri dei comics. Dopotutto, il primo vero riconoscimento della sua vita si doveva proprio a quel velleitario talento. Se stava preparando la sacca per Cannes era perché a Gilles Jacob, il leggendario patron del festival più leggendario del pianeta, non era dispiaciuto il suo cartone animato.<br />
Uscì dalla camera. Percorse il corridoio che divideva – stando al gergo di Raffaele, l’architetto di grido che aveva curato la ristrutturazione della casa – la zona notte dalla zona giorno. Il passo imperioso con cui marciava verso la cucina la diceva lunga sulla bellicosità delle sue intenzioni alimentari. Uno spuntino dei suoi, qualcosa che placasse l’inquietudine e rimettesse in moto i neuroni.<br />
La cucina era il solo spazio domestico su cui Filippo aveva messo becco. Una cosa che condivideva con la moglie era il disinteres- se per i beni materiali: non c’era niente che meno rappresentasse quella coppia di eccentrici sbandati della casa in cui vivevano. Tanto è vero che il suo acquisto, nonché la dispendiosa ristrutturazione, erano stati uno degli imprevisti e non così graditi regali del dottor Cavalieri, il padre di Anna. Mentre Filippo aveva accolto il dono con il solito fatalismo, Anna era stata lì lì per rifiutarlo: il quartiere (ogni anno un po’ più esclusivo e un po’ meno intellettuale) era infestato da attrici per cui provava un odio omicida, e che aveva il terrore di incontrare al supermarket.<br />
Il villino sorgeva in una delle vie più appartate di Monteverde. Una palazzina liberty di un color zabaione vagamente lezioso, ma del tutto appropriato al boschetto di magnolie in cui era immersa. Il caro Raffaele, benché frustrato dal disinteresse dei committenti per l’interior design, ce l’aveva messa tutta per conferire ai trecento metri quadrati la squisitezza giapponese che forse sarebbe stata più adeguata a single professionalmente soddisfatti e sessualmente carismatici. Niente tende, pareti chiare, pavimenti coperti di tatami, arredo rado fin quasi all’ascetismo monastico, uno schermo Sony di settanta pollici che svaniva in una parete attrezzata piena dei dvd della moglie e dei fumetti del marito.<br />
Nessuna di quelle scelte stilistiche era stata dettata né avallata da Filippo. Perché, per l’appunto, l’unica stanza che gli premeva era la cucina. Dalle sue proposte, si capiva che Raffaele era molto più interessato alla tinta acida del frigorifero Smeg che alla sua capienza. E questo Filippo non poteva tollerarlo. Per lui ciò che rendeva una cucina degna di questo nome era un grande – ma che dico grande? –, un enorme tavolo da lavoro piazzato in mezzo alla stanza, che invogliasse a cucinare per un reggimento.<br />
E l’aveva ottenuto.<br />
Era proprio all’adorato tavolo da lavoro, delle dimensioni di una piazza d’armi, che Filippo stava ora chiedendo di aiutarlo a scacciare l’insoddisfazione. Era intento a preparare una dozzina di crostini. Aveva acceso il forno. Tagliato in due una manciata di panini al latte. Li aveva poggiati sopra a una teglia, cospargendoli di pomodoro, mozzarella, pasta d’acciughe, olio, pepe e basilico. Ogni tanto si attaccava al collo di una Heineken. Aveva acceso la radio per ascoltare una di quelle trasmissioni in cui si parla di calcio per tutto il pomeriggio.<br />
Mentre, con gesto consumato, infilava la teglia nel forno a colonna, Filippo capì che se lui stava così male, la colpa era di Cannes. E dire che aveva fatto ogni sforzo affinché questa opportunità non modificasse di un millimetro l’idea di sé che aveva impiegato una vita intera a formarsi. E perché mai avrebbe dovuto modificargliela? Erode e i suoi pargoli – questo il titolo del film –, da brava opera d’esordio, non era che la cronaca disorganica, goffamente camuffata, della sua esperienza di cooperante umanitario e medi- co di frontiera, condita con una serie di grandiose balle autopro- mozionali. Il protagonista era un tizio con barba incolta e panta- loni mimetici, straordinariamente simile alla versione palestrata dell’autore in persona. Più che un medico sembrava un supereroe che combatteva valorosamente, tentando di riportare l’ordine in Le mille avventure di questo supereroe sui generis erano inter- vallate dai suoi sogni apocalittici, a mio parere un po’ troppo didascalici, nei quali venivano affastellati celebri infanticidi: dal ten- tato omicidio di Isacco fino ai martiri di Beslan. Inoltre Filippo aveva usato quel film per raccontare se stesso in forma autoironica e dissacrante: persino il fratello e la madre comparivano in un tenero cammeo.<br />
Tutto ciò per dire che avrebbe dovuto attendere qualche altro decennio prima di avere di nuovo qualcosa d’interessante su cui pontificare. E visto che il divertimento che lo aveva assistito durante il concepimento di quell’opera prima si era, per così dire, in essa esaurito, Filippo non aveva alcuna intenzione di produrne una seconda, né una terza e così via... L’idea di intraprendere una carriera i cui primi passi gli erano costati, almeno per i suoi gusti, tutta quella fatica, non lo allettava per niente.<br />
Aveva senso infettare il benessere conquistato grazie a una lun- ga indolenza con il germe dell’ambizione? Aveva senso, raggiun- to un grado di saggezza che nel corso dei millenni uomini molto più in gamba di lui avevano soltanto saputo invocare, mandare a puttane tanta sapienza?<br />
No che non ne aveva.<br />
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</script><fb:like font="" href="http://librandoci.blogspot.it/2012/03/1984.html" send="true" show_faces="true" width="450"></fb:like>LibrandoCIhttp://www.blogger.com/profile/16529616996313456992noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6435825165576447406.post-12119932102310452252012-04-07T14:25:00.000-07:002012-04-07T14:25:03.444-07:00Il Giovane Holden<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgYdmLsxp8DB3nonu0OfcxUnA73AvLINs58HErsL9K2mBU0rn4Q92dBGV1sw6DGEz4gO4uvn6d5oENNM3HtUhAV-hoXWugPmrUytu3_g_6Tx49zRjCrMFiAJP_RhkjUovZYjuvxf6oFlOYT/s1600/535975_355901594455408_183857128326523_979800_513368561_n.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgYdmLsxp8DB3nonu0OfcxUnA73AvLINs58HErsL9K2mBU0rn4Q92dBGV1sw6DGEz4gO4uvn6d5oENNM3HtUhAV-hoXWugPmrUytu3_g_6Tx49zRjCrMFiAJP_RhkjUovZYjuvxf6oFlOYT/s200/535975_355901594455408_183857128326523_979800_513368561_n.jpg" width="130" /></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>AUTORE</b>: <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/J.D._Salinger">J.D.Salinger</a></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>GENERE</b>: Romanzo</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>TRAMA:</b></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;">“Il giovane Holden”, l’unico romanzo scritto da Salinger, uscí nel 1951 e da allora non ha smesso di influenzare l’immaginario di milioni di lettori. A questo libro-culto seguirono due anni dopo i “Nove racconti”, scelti dall’autore tra gli oltre trenta apparsi su diversi periodici americani a partire dal 1940. “Franny e Zooey” uscí nel 1961 ed ebbe in America un immediato successo, vendendo oltre 125 000 copie in due settimane. Salinger scrisse nel risvolto di copertina: «Queste due storie sono le prime di una serie che io sto scrivendo su una famiglia newyorkese del ventesimo secolo: la famiglia Glass... Mi piace immensamente lavorare a queste storie, sono stato ad aspettarle per la maggior parte della mia vita, e ho la ferma intenzione di finirle con la dovuta attenzione e abilità». La saga della famiglia Glass continuò con “Alzate l’architrave, carpentieri e Seymour”. “Introduzione”, due racconti lunghi usciti sul «New Yorker» nel 1955 e nel 1959 e in volume nel 1963. L’ultimo testo pubblicato da Salinger, il racconto lungo “Hapworth 16, 1924” – una lettera ai famigliari scritta da un campo estivo nel Maine da Seymour Glass all’età di sette anni e trascritta, dopo il suicidio di Seymour a 31 anni, da suo fratello Buddy – uscí nel «New Yorker» nel 1965, ma a tutt’oggi resta inedito per volontà del suo autore.<br />
</span></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>INCIPIT:</b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"> <i> <br />
I.<br />
Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com'è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne. Primo, quella roba mi secca, e secondo, ai miei genitori gli verrebbero un paio d'infarti per uno se dicessi qualcosa di troppo personale sul loro conto. Sono tremendamente suscettibili su queste cose, soprattutto mio padre. Carini e tutto quanto - chi lo nega - ma anche maledettamente suscettibili. D'altronde, non ho nessuna voglia di mettermi a raccontare tutta la mia dannata autobiografia e compagnia bella. Vi racconterò soltanto le cose da matti che mi sono capitate verso Natale, prima di ridurmi cosí a terra da dovermene venire qui a grattarmi la pancia. Niente di piú di quel che ho raccontato a D. B., con tutto che lui è mio fratello e quel che segue. Sta a Hollywood, lui. Non è poi tanto lontano da questo lurido buco, e viene qui a trovarmi praticamente ogni fine settimana. Mi accompagnerà a casa in macchina quando ci andrò il mese prossimo, chi sa. Ha appena preso una Jaguar. Uno di quei gingilli inglesi che arrivano sui trecento all'ora. Gli è costata uno scherzetto come quattromila sacchi o giú di lí. È pieno di soldi, adesso, Mica come prima. Era soltanto uno scrittore in piena regola, quando stava a casa. Ha scritto quel formidabile libro di racconti, Il pesciolino nascosto, se per caso non l'avete mai sentito nominare. Il piú bello di quei racconti era Il pesciolino nascosto. Parlava di quel ragazzino che non voleva far vedere a nessuno il suo pesciolino rosso perché l'aveva comprato coi soldi suoi. Una cosa da lasciarti secco. Ora sta a Hollywood, D. B., a sputtanarsi. Se c'è una cosa che odio sono i film. Non me li nominate nemmeno.<br />
Voglio cominciare il mio racconto dal giorno che lasciai l'Istituto Pencey. L'Istituto Pencey è quella scuola che sta ad Agerstown in Pennsylvania. Probabile che ne abbiate sentito parlare. Probabile che abbiate visto gli annunci pubblicitari, se non altro. Si fanno la pubblicità su un migliaio di riviste, e c'è sempre un tipo gagliardo a cavallo che salta una siepe. Come se a Pencey non si facesse altro che giocare a polo tutto il tempo. Io di cavalli non ne ho visto neanche uno, né lí, né nei dintorni. E sotto quel tipo a cavallo c'è sempre scritto: “Dal 1888 noi forgiamo una splendida gioventú dalle idee chiare”. Buono per i merli. A Pencey non forgiano un accidente, tale e quale come nelle altre scuole. E io laggiú non ho conosciuto nessuno che fosse splendido e dalle idee chiare e via discorrendo. Forse due tipi. Seppure. E probabilmente erano già cosí prima di andare a Pencey.<br />
Ad ogni modo, era il sabato della partita di rugby col Saxon Hall. La partita col Saxon Hall, a Pencey, era un affare di stato. Era l'ultima partita dell'anno e pensavano che dovevi per lo meno ammazzarti se il vecchio Pencey non vinceva. Mi ricordo che verso le tre di quel pomeriggio me ne stavo là sul cocuzzolo di Thomsen Hill, proprio vicino a quel cannone scassato che aveva fatto la Guerra dí Secessione e tutto quanto. Di lí si vedeva tutto il campo, e si vedevano le due squadre che se le sonavano in lungo e in largo. Non si vedeva tanto bene la tribuna, ma si sentivano gli urli da maledetti, cupi e tremendi dalla parte del Pencey, perché tolto che mancavo io c'era la scuola al completo, e fiacchi e isolati dalla parte del Saxon Hall, perché la squadra ospite non portava quasi mai molta gente.<br />
Ragazze non ce n'erano mai molte, alle partite di rugby. Soltanto quelli dell'ultimo anno avevano il permesso di portare ragazze. Era una scuola terribile, da tutti i punti di vista. A me piace stare in un posto dove almeno ogni tanto si veda qualche ragazza in giro, anche se non fanno altro che grattarsi le braccia o soffiarsi il naso o anche soltanto ridacchiare e cose del genere. La vecchia Selma Thurmer - era la figlia del preside - veniva abbastanza spesso alle partite, ma non era certo il tipo da far smaniare di desiderio. Era una ragazza piuttosto in gamba, però. Una volta sono stato seduto vicino a lei nell'autobus di Agerstown, e abbiamo attaccato una specie di conversazione. L'ho trovata simpatica. Aveva un gran naso e le unghie tutte mangiucchiate a sangue, e portava quei dannati reggipetti imbottiti che stanno sempre in posizione di sparo, ma in un certo senso faceva pena. Quello che mi piaceva di lei è che non vi rifilava le solite merdate che suo padre era un grand'uomo. Doveva sapere che razza di marpione sfessato che era.<br />
Io me ne stavo là sulla Thomsen Hill, e non giú alla partita, per il semplice motivo che ero appena tornato da New York con la squadra di scherma. Ero lo stramaledetto manager della squadra di scherma. Un affare di stato. La mattina eravamo andati a New York per quell'incontro con la Scuola McBurney. Ma l'incontro non c'era stato. Avevo lasciato fioretti, equipaggiamento e tutto su quella metropolitana della malora. Non era stata tutta colpa mia. Dovevo continuare ad alzarmi per guardare quella carta, se no non sapevamo dove scendere. Sicché eravamo tornati a Pencey verso le due e mezzo invece che per l'ora di cena. In treno, mentre tornavamo, tutta la squadra mi aveva messo al bando. Era stato abbastanza da ridere, a pensarci.<br />
L'altro motivo per cui non mi trovavo giú alla partita era che dovevo andare a salutare il vecchio Spencer, il mio professore di storia. Aveva l'influenza e compagnia bella, e io pensavo che probabilmente non l'avrei rivisto prima che cominciassero le vacanze di Natale. Mi aveva scritto quel biglietto per dirmi che voleva vedermi prima che andassi a casa. Sapeva che non sarei tornato a Pencey.<br />
Questo mi ero dimenticato di dirvelo. Mi avevano sbattuto fuori. Dopo Natale non dovevo piú tornare, perché avevo fatto fiasco in quattro materie e non mi applicavo e le solite storie. Mi avevano avvertito tante volte di mettermi a studiare - specie a metà trimestre, quando i miei erano venuti a parlare col vecchio Thurmer - ma io niente. Sicché mi avevano liquidato. A Pencey succede spessissimo che liquidino qualcuno. È una scuola ad alto livello, Pencey. Altroché.<br />
Ad ogni modo, era dicembre e tutto quanto, e l'aria era fredda come i capezzoli di una strega, specie sulla cima di quel cretino d'un colle. Io addosso avevo soltanto il cappotto doubleface senza guanti né altro. La settimana prima, qualcuno era andato fino in camera mia a rubarmi il cappotto di cammello, coi guanti foderati di pelliccia in tasca e tutto quanto. A Pencey c'erano un sacco di farabutti. Una quantità di ragazzi venivano da famiglie ricche sfondate, ma c'erano un sacco di farabutti lo stesso. Una scuola, piú costa e piú farabutti ci sono - senza scherzi. Ad ogni modo, io continuavo a starmene vicino a quel cannone scassato, guardando la partita e gelandomi il sedere. Solo che alla partita badavo poco. Se me ne restavo lí era perché cercavo di provare il senso di una specie di addio. Voglio dire che ho lasciato scuole e posti senza nemmeno sapere che li stavo lasciando. È una cosa che odio. Che l'addío sia triste o brutto non me ne importa niente, ma quando lascio un posto mi piace saperlo, che lo sto lasciando. Se no, ti senti ancora peggio.<br />
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</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>GENERE</b>: Romanzo</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>TRAMA:</b></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;">Da quando la nonna è morta, Mikage è sola al mondo. Le cucine che sogna continuamente rappresentano il suo desiderio della famiglia che non ha. E, non avendola, decide di inventarsela, scegliendosi i genitori nella cerchia delle proprie amicizie. Il padre del suo amico Yuichi, per esempio, può diventare tranquillamente sua madre. Un'immagine inedita e sorprendente del Giappone, con temi e situazioni che ricordano quelli dei fumetti manga, rielaborati però attraverso una lingua letteraria e al tempo stesso agile e spigliata.<br />
</span></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>INCIPIT:</b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"> <i> <br />
Non c’è posto al mondo che io ami più della cucina.<br />
Non importa dove si trova, com’è fatta: purché sia una cucina, un posto dove si fa da mangiare, io sto bene. Se possibile le preferisco funzionali e vissute. Magari con tantissimi strofinacci asciutti e puliti e le piastrelle bianche che scintillano.<br />
Anche le cucine incredibilmente sporche mi piacciono da morire.<br />
Mi piacciono col pavimento disseminato di pezzettini di verdura, così sporche che la suola delle pantofole diventa subito nera, e grandi, di una grandezza esagerata. Con un frigo enorme pieno di provviste che basterebbero tranquillamente per un intero inverno, un frigo imponente, al cui grande sportello metallico potermi appoggiare. E se per caso alzo gli occhi dal fornello schizzato di grasso o dai coltelli un po’ arrugginiti, fuori le stelle che splendono tristi. Siamo rimaste solo io e la cucina. Mi sembra un po’ meglio che pensare che sono rimasta proprio sola.<br />
Nei momenti in cui sono molto stanca, mi succede spesso di fantasticare. Penso che quando verrà il momento di morire, vorrei che fosse in cucina. Che io mi trovi da sola in un posto freddo, o al caldo insieme a qualcuno, mi piacerebbe poterlo affrontare senza paura. Magari fosse in cucina!<br />
Prima che i Tanabe mi prendessero con loro, dormivo sempre in cucina. Non riuscivo mai a prendere sonno, e una volta che vagavo per le stanze all’alba alla ricerca di un angolino confortevole, scoprii che il posto migliore per dormire era ai piedi del frigo.<br />
Mi chiamo Mikage Sakurai. I miei genitori sono morti tutti e due giovani. Perciò sono stata allevata dai nonni. Il nonno è morto quando ho cominciato le medie. Da allora io e la nonna abbiamo vissuto da sole.<br />
Pochi giorni fa all’improvviso è morta la nonna. Sono rimasta di stucco.<br />
Se mi metto a pensare che la mia famiglia - che era lì, reale - nel giro di pochi anni è scomparsa così, una persona alla volta, mi sembra di non poter credere più a niente. Essere rimasta io sola in questa càsa dove sono cresciuta, mentre il tempo continua a scorrere regolare, mi sconvolge. E pura fantascienza. Le tenebre del cosmo.<br />
Tre giorni dopo il funerale ero ancora stordita. Trascinandomi dietro quella vaga sonnolenza che accompagna la tristezza più cupa e senza lacrime, stesi il futon nella cucina silenziosa e splendente. Dormii raggomitolata nella coperta come Linus, col ronzio del frigorifero che mi proteggeva da pensieri di solitudine. Così la notte se ne andò abbastanza tranquillamente, e venne il mattino.<br />
Volevo solo dormire alla luce delle stelle.<br />
Volevo svegliarmi nella luce del mattino.<br />
A parte questo, tutto il resto mi era completamente indifferente.<br />
Ma non potevo andare avanti così per sempre. E incredibile, la realtà.<br />
La nonna mi aveva lasciato denaro a sufficienza, ma l’appartamento in cui abitavo era troppo grande e costoso per una persona sola, bisognava che ne cercassi un altro. Non sapendo dove battere la testa comprai una rivista di annunci e cominciai a guardarla, ma le offerte di case, che erano tante e sembravano tutte uguali, mi diedero il capogiro. Trasloco significava lavoro. Energia.<br />
Io ero senza forze e avevo dolori dappertutto per quel mio dormire sul pavimento di cucina. Non potevo far finta che non fosse così. Dove avrei trovato l’energia per andare in giro a vedere appartamenti? per trasportare bagagli? per richiedere il telefono?<br />
Ricordo bene quel pomeriggio, me ne stavo sdraiata pensando con disperazione a una lista interminabile di problemi quando mi capitò un miracolo, qualcosa di caduto dal cielo.<br />
Din-don. All’improvviso suonò il campanello.<br />
Era un pomeriggio un po’ nuvoloso di primavera. Avevo dato solo una sbirciata alla rivista di annunci, ma ne avevo avuto subito abbastanza, ed ero assorbita dall’operazione di legare con lo spago alcuni giornali in vista dell’eventuale trasloco. Sorpresa corsi alla porta così com’ero, vestita a metà, e senza chiedere chi fosse girai la chiave e aprii. Per fortuna non era un ladro, era Yuichi Tanabe.<br />
"Ah, salve. Grazie ancora per l’altro giorno," dissi. Era un ragazzo simpatico, di un anno minore di me. Al funerale era stato di grande aiuto. Mi aveva detto che studiava alla mia stessa università. Io in quei giorni non ci andavo. "Figurati," disse lui. "Già trovato un appartamento?" "Macché. Ancora niente,» risposi io e sorrisi.<br />
"Beh, non è facile."<br />
"Vuoi entrare a bere qualcosa?"<br />
"No, grazie, vado di fretta," disse, e sorrise. "Sono salito solo un attimo per dirti una cosa. Ho parlato con mia madre e... non verresti a stare da noi per un po’?"<br />
"Cosa?" feci io.<br />
"In ogni caso, vieni da noi stasera verso le sette. Ti ho fatto una mappa per trovare la strada."<br />
"Ah." Confusa presi il pezzo di carta.<br />
"Allora, d’accordo. Mikage, io e mia madre siamo davvero contenti che tu venga. Ti aspettiamo."<br />
Sorrise di nuovo. C’era nel suo sorriso una tale freschezza che non riuscivo a staccare lo sguardo da lui. I suoi occhi mi sembravano vicinissimi mentre stava lì, in quell’ingresso che mi era così familiare. Ma doveva essere anche il fatto di sentirmi chiamare per nome all’improvviso. "Hmm... allora va bene, vengo."<br />
Lo so, poteva essere l’insidia di un diavolo. Ma lui era così cool. Sentii che potevo fidarmi. Nell’oscurità che mi circondava apparve una strada, come sempre accade quando un diavolo ti tenta. Ma era bianca, luminosa, e sembrava sicura, perciò risposi sì.<br />
"Bene, allora a più tardi," disse lui sorridendo, e se ne andò.<br />
Prima del funerale della nonna praticamente non lo co-noscevo. Fu quel giorno, che Yuichi Tanabe fece la sua apparizione. Ricordo che mi chiesi seriamente se non fosse l’amante della nonna. Al momento di bruciare l’incenso chiuse gli occhi gonfi di lacrime, e la mano gli tremava. Poi, quando vide la foto della nonna riprese a piangere senza freno.<br />
Non potei fare a meno di pensare che il suo amore per la nonna doveva essere più forte del mio. Sembrava proprio disperato.<br />
Premendosi il viso con il fazzoletto, mi chiese:"Ti prego, lascia che faccia qualcosa."<br />
E poi dette aiuto in molti modi.<br />
Yuichi Tanabe.<br />
Dovevo essere molto confusa se mi ci volle un bel po’<br />
per ricordarmi di quando avevo sentito il suo nome dalla nonna.<br />
Lavorava part-time dal fioraio da cui la nonna si serviva. Molte volte le avevo sentito dire: "Sai, c’è un ragazzo molto caro... si chiama Tanabe... anche oggi è stato lui a servirmi..." Alla nonna piacevano mòlto i fiori e per non farli mai mancare in cucina passava dal fioraio almeno due volte alla settimana. Ricordavo vagamente che un giorno lui l’aveva accompagnata a casa portando una grande pianta. Era un ragazzo alto e snello, dai bei lineamenti. Di lui<br />
non sapevo niente. Avevo la sensazione di averlo visto dal fioraio lavorare con molto impegno. Anche dopo averlo conosciuto un pochino, chissà perché l’impressione di un tipo un po’ ’freddo’ non cambiò. Il suo modo di fare e di parlare erano gentili, ma ugualmente avvertivo una distanza. La nostra conoscenza era tutta qui. In pratica, un perfetto estraneo.<br />
</i></span></span><br />
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</script><fb:like font="" href="http://librandoci.blogspot.it/2012/04/kitchen.html" send="true" show_faces="true" width="450"></fb:like>LibrandoCIhttp://www.blogger.com/profile/16529616996313456992noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6435825165576447406.post-61781357355558152772012-03-27T08:28:00.001-07:002012-03-27T08:29:35.193-07:00Paradiso Amaro<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhfAvV4s1TCeEyY2xxONvWWF_lrEk-GszXgRS1AGh7qbeo4okDEyNwyQYk4Y7N4MpKt3b_bxN_E_mUKU6xhkOwXZNk0sYksfiGmDoSyN_whqwOhKdSqtmgJ_nYRUk7WoiaSEuzrurph73uG/s1600/Paradiso-amaro.gif" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhfAvV4s1TCeEyY2xxONvWWF_lrEk-GszXgRS1AGh7qbeo4okDEyNwyQYk4Y7N4MpKt3b_bxN_E_mUKU6xhkOwXZNk0sYksfiGmDoSyN_whqwOhKdSqtmgJ_nYRUk7WoiaSEuzrurph73uG/s200/Paradiso-amaro.gif" width="125" /></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>AUTORE</b>: <a href="http://www.kauiharthemmings.com/" target="_blank">Kaui Hart Hemmings</a></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>GENERE</b>: Romanzo</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>TRAMA:</b></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;">Matt King, discendente di una ricca principessa, era considerato uno degli uomini più ricchi e fortunati delle Hawaii ma ora la sua buona stella sembra avergli voltato le spalle... Sua moglie, la modella Joanie, ha un brutto incidente ed entra in coma. Le sue figlie, Alex e Scottie, si dibattono tra i conflitti dell'adolescenza e un disperato bisogno di attenzione. A peggiorare le cose, una scoperta inaspettata: Joanie aveva un amante. Sembra l'inizio della fine. Invece è una rinascita. Perché Matt, finalmente, si rende conto di aver amato davvero Joanie ed è costretto ad affrontare il suo fallimento di uomo, di marito e di padre: un percorso doloroso ma salvifico.<br />
</span></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>INCIPIT:</b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"> <i> <br />
Il sole risplende, gli storni tristi cinguettano, le palme ondeggiano. Sono in un ospedale, ma sto bene. Il cuore funziona regolarmente. Il cervello sta sparando messaggi forti e chiari. Mia moglie è su un letto leggermente inclinato, nella posizione in cui la gente dorme sugli aerei, il busto rigido, la testa piegata da un lato. Ha le mani poggiate in grembo.<br />
«Non possiamo metterla stesa?», chiedo.<br />
«Aspetta», dice Scottie, mia figlia. Scatta una polaroid alla madre. Mentre si sventola con la foto, premo il pulsante sul lato del letto per abbassare il busto di mia moglie. Rilascio il pulsante quando la schiena è quasi in linea con il resto del corpo.<br />
Joanie è in coma da ventitré giorni, e nelle prossime ore dovrò prendere una decisione basandomi sulla diagnosi definitiva del medico. A dire il vero, devo solo scoprire quali sono le condizioni di Joanie. Non ho nessuna decisione da prendere, Joanie ha un testamento biologico. È lei a decidere per sé, come ha sempre fatto.<br />
Oggi è lunedì. Il dottor Johnston mi parlerà martedì, e questo appuntamento mi rende nervoso, come se fosse un incontro galante. Non so come comportarmi, cosa dire, cosa indossare. Preparo risposte e reazioni, ma solo per scenari positivi. Non ho preparato il Piano B.<br />
«Tieni», dice Scottie. Scottie è il suo vero nome. Joanie pensava che sarebbe stato fico chiamarla come suo padre, Scott. <br />
Sono di avviso contrario.<br />
Guardo la fotografia. Sembra una di quelle foto spiritose che si scattano alla gente che dorme. Non so perché pensiamo che siano così divertenti. Possiamo farti un sacco di cose mentre dormi, sembra essere questo il messaggio. Guarda quanto sei vulnerabile. Quando dormi non ti rendi conto di nulla. Tuttavia, è evidente che in questa foto Joanie non sta dormendo. Ha una flebo e qualcosa chiamato tubo endotracheale, collegato a un respiratore artificiale, le spunta dalla bocca. Viene nutrita tramite un tubicino e i farmaci che le vengono somministrati potrebbero curare un intero villaggio delle Fiji. Scottie sta documentando la vita della nostra famiglia per il suo corso di studi sociali. Ed ecco Joanie ricoverata al Queen’s Hospital, nella sua quarta settimana di coma, un coma che ha totalizzato un 10 nella scala di Glasgow e un III in quella Rancho Los Amigos. È stata sbalzata fuori da un motoscafo da competizione che andava a centotrenta chilometri orari durante una gara, ma penso che si rimetterà.<br />
«Reagisce involontariamente agli stimoli in modo aspecifico, ma di quando in quando registriamo risposte specifiche anche se discontinue». È quello che mi ha detto la sua neurologa, una giovane donna con un leggero tremore all’occhio sinistro e una parlantina veloce che mi rende difficile porle delle domande. «I riflessi sono limitati e spesso uguali, nonostante la varietà degli stimoli proposti», dice. Le sue parole non mi rassicurano, ma so che Joanie non ha ancora mollato. Dentro di me so che si riprenderà e un giorno il suo corpo tornerà a funzionare regolar- mente. Di solito non mi sbaglio su queste cose.<br />
«Perché stava gareggiando?», mi ha chiesto la neurologa.<br />
La domanda mi ha spiazzato. «Per vincere, immagino. Per arrivare prima al traguardo».<br />
«Chiudi», dico a Scottie. Lei incolla la foto sull’album, prende il telecomando e spegne il televisore.<br />
«No. Parlavo di questo», dico indicandole la finestra – il sole,gli alberi, gli uccelli che saltellano sull’erba per raccogliere le briciole lanciate dai turisti e dalle pazze. «Fa’ sparire questa roba. È terribile». Non è facile essere tristi ai tropici. Scommetto che nelle grandi città puoi andartene in giro per strada con lo sguardo accigliato e nessuno verrà mai a chiederti cos’è che non va o a incoraggiarti a sorridere, ma qui è come se tutti pen- sassero che è una fortuna vivere alle Hawaii; il paradiso regna sovrano. Per quanto mi riguarda, il paradiso può andare a farsi fottere.<br />
«Disgustoso», dice Scottie e abbassa le veneziane.<br />
Spero non si renda conto che la sto osservando e che quanto vedo mi preoccupa terribilmente. Scottie è un’adolescente strana ed emotiva. Ha dieci anni. Cosa si fa durante il giorno quando si hanno dieci anni? Scottie fa scorrere le dita lungo la finestra e borbotta: «Potrei beccarmi l’aviaria», e poi stringe le dita davanti alla bocca e finge di suonare una tromba, emettendo strani suoni. È pazzoide. Chissà cosa le passa per la testa. E a proposito di testa, ha sicuramente bisogno di darsi una spazzolata ai capelli o di tagliarseli. Ha i capelli aggrovigliati in più punti. “Chi è il suo parrucchiere?”, mi chiedo. Ma c’è mai stata da un parrucchiere? Si gratta il cuoio capelluto e poi si guarda le unghie. Indossa una maglietta con su scritto: NON SONO QUEL TIPO DI RAGAZZA. MA POSSO DIVENTARLO! <br />
Sono contento che non sia troppo carina, ma so che le cose potrebbero cambiare.<br />
Do un’occhiata all’orologio che mi ha regalato Joanie.<br />
«Le lancette brillano e il quadrante è di madreperla», mi disse. «Quanto l’hai pagato?», le chiesi.<br />
«Chissà perché ero convinta che sarebbe stata la prima cosa<br />
che avresti detto».<br />
Sapevo che la mia domanda l’aveva ferita, aveva perso un sacco di tempo a scegliere il regalo giusto. Joanie adora fare regali. È il suo modo per dimostrare che ci conosce, che ha perso del tempo a cercare di capire i nostri gusti.<br />
Almeno questo è quello che sembra. Non avrei dovuto domandarle il prezzo. Voleva solo dimostrarmi che mi conosceva.<br />
«Che ora è?», domanda Scottie.<br />
«Le dieci e trenta».<br />
«È ancora presto».<br />
«Lo so», dico. Non so che fare. Siamo venuti in ospedale non<br />
soltanto per visitare Joanie, con la speranza che sia migliorata durante la notte, che abbia reagito alla luce e ai suoni e a dolorose iniezioni, ma anche perché non abbiamo nessun altro posto dove andare. Scottie di solito è a scuola tutto il giorno. Ci pensa Esther ad andarla a prendere alla fine delle lezioni, ma sentivo che questa settimana avrebbe dovuto passare più tempo in ospedale e con me.<br />
«Cosa ti va di fare?», chiedo.<br />
Apre il suo album, un progetto che sembra occupare tutto il suo tempo. «Non lo so. Ho fame».<br />
«Di solito cosa fai a quest’ora?»<br />
«Sono a scuola».<br />
«E se fosse domenica? Dove andresti?»<br />
«In spiaggia».<br />
Penso all’ultima volta che ho badato a lei da solo e a cosa abbiamo fatto. Credo avesse più o meno un anno, un anno e mezzo. Joanie era volata a Maui per un servizio fotografico e non era riuscita a trovare una babysitter. I suoi genitori, per qualche motivo, non potevano tenerla. Io mi trovavo nel bel mezzo di un processo ed ero a casa, ma avevo del lavoro che non potevo assolutamente rimandare. E così misi Scottie nella vasca da bagno con un pezzo di sapone. Prima cominciò a schizzare l’acqua e cercò di berla, poi vide il sapone e provò ad afferrarlo. Le sgusciò via e ci riprovò, con un’espressione meravigliata sul faccino. Scivolai nel corridoio, dove avevo sistemato una scrivania per lavorare e un interfono per bambini. La sentivo ridere, quindi sapevo che non stava annegando.<br />
Mi chiedo se infilarla in una vasca da bagno con un pezzo scivoloso di Irish Spring possa ancora funzionare.<br />
«Possiamo andare in spiaggia», dico. «La mamma ti porterebbe al club?»<br />
«Be’, sì. E dove se no?»<br />
«Allora è deciso. Parli a tua madre, chiamiamo un’infermiera, facciamo un salto a casa e poi andiamo in spiaggia».<br />
Scottie prende una foto dal suo album, la accortoccia e la getta via. Mi chiedo se sia la foto della madre sul letto, probabilmente non il miglior cimelio di famiglia. «Vorrei», dice Scottie. «Cos’è che vorrei?».<br />
È un gioco che facciamo spesso. Di tanto in tanto, nomina un luogo dove vorrebbe essere, oltre al posto e al tempo delle no- stre vite in cui ci troviamo al momento.<br />
«Vorrei che fossimo dal dentista», decide.<br />
«Anch’io. Vorrei che il dentista ci stesse facendo l’ortopanoramica».<br />
«E facesse la pulizia dei denti alla mamma», dice Scottie.<br />
Vorrei davvero che fossimo nello studio del dottor Branch, tutti e tre con le labbra intorpidite a sballarci con il gas esilarante. Una cura canalare sarebbe uno scherzo in confronto a tutto questo. O anche qualsiasi altro intervento medico, sul serio. A dire il vero, vorrei essere a casa a lavorare. Devo decidere a chi vendere il terreno che appartiene alla mia famiglia dal 1840. La vendita cancellerà qualsiasi appezzamento di terra in mano alla mia famiglia, e io ho disperatamente bisogno di studiare le offerte prima di incontrare i miei cugini tra sei giorni. È il nostro termine ultimo. Alle due, tra sei giorni, a casa di Cugino Sei. Ci accorderemo su un compratore. Sono stato un incosciente ad aver rimandato questo problema per così tanto tempo, ma è quello che ha fatto la mia famiglia fino ad ora. Abbiamo voltato le spalle al nostro retaggio, aspettando che qualcuno si facesse avanti e si facesse carico del nostro patrimonio e dei nostri debiti.<br />
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</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>GENERE</b>: Romanzo</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>TRAMA:</b></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;">"L'azione si svolge in un futuro prossimo del mondo (l'anno 1984) in cui il potere si concentra in tre immensi superstati: Oceania, Eurasia ed Estasia. Al vertice del potere politico in Oceania c'è il Grande Fratello, onnisciente e infallibile, che nessuno ha visto di persona ma di cui ovunque sono visibili grandi manifesti. Il Ministero della Verità, nel quale lavora il personaggio principale, Smith, ha il compito di censurare libri e giornali non in linea con la politica ufficiale, di alterare la storia e di ridurre le possibilità espressive della lingua. Per quanto sia tenuto sotto controllo da telecamere, Smith comincia a condurre un'esistenza "sovversiva". Scritto nel 1949, il libro è considerato una delle più lucide rappresentazioni del totalitarismo.<br />
</span></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>INCIPIT:</b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"> <i> <br />
PARTE PRIMA I<br />
Era una luminosa e fredda giornata d'aprile, e gli orologi battevano tredici colpi. Winston Smith, tentando di evitare le terribili raffiche di vento col mento affondato nel petto, scivolò in fretta dietro le porte di vetro degli Appartamenti Vittoria: non così in fretta, tuttavia, da impedire che una folata di polvere sabbiosa entrasse con lui.<br />
L'ingresso emanava un lezzo di cavolo bollito e di vecchi e logori stoini. A una delle estremità era attaccato un manifesto a colori, troppo grande per poter essere messo all'interno. Vi era raffigurato solo un volto enorme, grande più di un metro, il volto di un uomo di circa quarantacinque anni, con folti baffi neri e lineamenti severi ma belli. Winston si diresse verso le scale. Tentare con l'ascensore, infatti, era inutile. Perfino nei giorni migliori funzionava raramente e al momento, in ossequio alla campagna economica in preparazione della Settimana dell'Odio, durante le ore diurne l'erogazione della corrente elettrica veniva interrotta. L'appartamento era al settimo piano e Winston, che aveva trentanove anni e un'ulcera varicosa alla caviglia destra, procedeva lentamente, fermandosi di tanto in tanto a riprendere fiato. Su ogni pianerottolo, di fronte al pozzo dell'ascensore, il manifesto con quel volto enorme guardava dalla parete. Era uno di quei ritratti fatti in modo che, quando vi muovete, gli occhi vi seguono. IL GRANDE FRATELLO VI GUARDA, diceva la scritta in basso.<br />
All'interno dell'appartamento una voce pastosa leggeva un elenco di cifre che avevano qualcosa a che fare con la produzione di ghisa grezza. La voce proveniva da una placca di metallo oblunga, simile a uno specchio oscurato, incastrata nella parete di destra. Winston girò un interruttore e la voce si abbassò notevolmente, anche se le parole si potevano ancora distinguere. Il volume dell'apparecchio (si chiamava teleschermo) poteva essere abbassato, ma non vi era modo di spegnerlo. Winston si avvicinò alla finestra: era una figura minuscola, fragile, la magrezza del corpo appena accentuata dalla tuta azzurra che costituiva l'uniforme del Partito. Aveva i capelli biondi, il colorito del volto naturalmente sanguigno, la pelle resa ruvida dal sapone grezzo, dalle lamette smussate e dal freddo dell'inverno appena trascorso.<br />
Fuori il mondo appariva freddo, perfino attraverso i vetri chiusi della finestra. Giù in strada piccoli mulinelli di vento facevano roteare spirali di polvere e di carta straccia e, sebbene splendesse il sole e il cielo fosse di un azzurro vivo, sembrava che non vi fosse colore nelle cose, se si eccettuavano i manifesti incollati per ogni dove. Il volto dai baffi neri guardava fisso da ogni cantone. Ve ne era uno proprio sulla facciata della casa di fronte. <br />
IL GRANDE FRATELLO VI GUARDA, diceva la scritta, mentre gli occhi scuri guardavano in fondo a quelli di Winston. Più giù, a livello di strada, un altro manifesto, strappato a uno degli angoli, sbatteva al vento con ritmo irregolare, coprendo e scoprendo un'unica parola: SOCING. In lontananza un elicottero volava a bassa quota sui, tetti, si librava un istante come un moscone, poi sfrecciava via disegnando una curva. Era la pattuglia della polizia, che spiava nelle finestre della gente. Ma le pattuglie non avevano molta importanza. Solo la Psicopolizia contava.<br />
Alle spalle di Winston, la voce proveniente dal teleschermo continuava a farfugliare qualcosa a proposito della ghisa grezza e della realizzazione più che completa del Nono Piano Triennale. Il teleschermo riceveva e trasmetteva contemporaneamente. Se Winston avesse emesso un suono anche appena appena più forte di un bisbiglio, il teleschermo lo avrebbe captato; inoltre, finché fosse rimasto nel campo visivo controllato dalla placca metallica, avrebbe potuto essere sia visto che sentito. Naturalmente, non era possibile sapere se e quando si era sotto osservazione. Con quale frequenza, o con quali sistemi, la Psicopolizia si inserisse sui cavi dei singoli apparecchi era oggetto di congettura. Si poteva persino presumere che osservasse tutti continuamente. Comunque fosse, si poteva collegare al vostro apparecchio quando voleva. Dovevate vivere (e di fatto vivevate, in virtù di quell'abitudine che diventa istinto) presupponendo che qualsiasi rumore da voi prodotto venisse ascoltato e qualsiasi movimento — che non fosse fatto al buio — attentamente scrutato.<br />
Winston dava le spalle al teleschermo. Era più sicuro, anche se sapeva bene che perfino una schiena può essere rivelatrice. A un chilometro di distanza, immenso e bianco nel sudicio panorama, si ergeva il Ministero della Verità, il luogo dove lui lavorava. E questa, pensò con un senso di vaga ripugnanza, questa era Londra, la principale città di Pista Uno, a sua volta la terza provincia più popolosa dell'Oceania. Si sforzò di cavare dalla memoria qualche ricordo dell'infanzia che gli dicesse se Londra era sempre stata così. C'erano sempre state queste distese di case ottocentesche fatiscenti, con i fianchi sorretti da travi di legno, le finestre rattoppate col cartone, i tetti ricoperti da fogli di lamiera ondulata, i muri dei giardini che pericolavano, inclinandosi da tutte le parti? E le aree colpite dalle bombe, dove la polvere d'intonaco mulinava nell'aria e le erbacce crescevano disordinatamente sui mucchi delle macerie, e i posti dove le bombe avevano creato spazi più ampi, lasciando spuntare colonie di case di legno simili a tanti pollai? Ma era inutile, non riusciva a ricordare. Della sua infanzia non restava che una serie di quadri ben distinti, ma per la gran parte incomprensibili e privi di uno sfondo contro cui stagliarsi.<br />
Il Ministero della Verità (Miniver, in neolingua) differiva in maniera sorprendente da qualsiasi altro oggetto che la vista potesse discernere.<br />
Era un'enorme struttura piramidale di cemento bianco e abbagliante che s'innalzava, terrazza dopo terrazza, fino all'altezza di trecento metri. Da dove si trovava Winston era possibile leggere, ben stampati sulla bianca facciata in eleganti caratteri, i tre slogan del Partito:<br />
<br />
LA GUERRA È PACE<br />
LA LIBERTÀ È SCHIAVITÙ <br />
L'IGNORANZA È FORZA<br />
<br />
Si diceva che il Ministero della Verità contenesse tremila stanze al di sopra del livello stradale e altrettante ramificazioni al di sotto. Sparsi qua e là per Londra vi erano altri tre edifici di aspetto e dimensioni simili. Facevano apparire talmente minuscoli i fabbricati circostanti, che dal tetto degli Appartamenti Vittoria li si poteva vedere tutti e quattro simultaneamente. Erano le sedi dei quattro Ministeri fra i quali era distribuito l'intero apparato governativo: il Ministero della Verità, che si occupava dell'informazione, dei divertimenti, dell'istruzione e delle belle arti; il Ministero della Pace, che si occupava della guerra; il Ministero dell'Amore, che manteneva la legge e l'ordine pubblico; e il Ministero dell'Abbondanza, responsabile per gli affari economici. In neolingua i loro nomi erano i seguenti: Miniver, Minipax, Miniamor e Miniabb.<br />
Fra tutti, il Ministero dell'Amore incuteva un autentico terrore. Era assolutamente privo di finestre. Winston non vi era mai entrato, anzi non vi si era mai accostato a una distanza inferiore al mezzo chilometro. Accedervi era impossibile, se non per motivi ufficiali, e anche allora solo dopo aver attraversato grovigli di filo spinato, porte d'acciaio e nidi di mitragliatrici ben occultati. Anche le strade che conducevano ai recinti esterni erano pattugliate da guardie con facce da gorilla, in uniforme nera e armate di lunghi manganelli.<br />
Winston si girò di scatto. Il suo volto aveva assunto quell'espressione di sereno ottimismo che era consigliabile mostrare quando ci si trovava davanti al teleschermo. Attraversò la stanza ed entrò nella minuscola cucina. Uscendo a quell'ora dal Ministero, non aveva potuto mangiare alla mensa e sapeva bene che in cucina c'era solo un pezzo di pane nero destinato alla prima colazione del giorno dopo. Tirò giù dalla mensola una bottiglia di liquido incolore con una semplice etichetta bianca: GIN VITTORIA. <br />
Emanava un odore nauseante, oleoso, che ricordava l'alcol di riso cinese. Winston si versò il corrispondente di una mezza tazza da tè, si preparò al colpo, poi l'ingoiò come se si trattasse di una medicina.<br />
</i></span></span><br />
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</script><fb:like font="" href="http://librandoci.blogspot.it/2012/03/1984.html" send="true" show_faces="true" width="450"></fb:like>LibrandoCIhttp://www.blogger.com/profile/16529616996313456992noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6435825165576447406.post-43854472099840514822012-03-19T08:14:00.002-07:002012-03-23T04:31:50.771-07:00Fai bei sogni<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjCHfciPKSvu-DpTeq-8M2TWIeqah0BDoCTChutpAcQhR0TSSSWLv57QbyAF3TdaIwI0K8m6n0Xfi6YGcTjOuZlA0KIoAbKLb2KhzaoQLkOgJdF5VHKTovVt0ppgglcpBZHd-bDOM2HCTu4/s1600/novita-fai-bei-sogni-massimo-gramellini-L-1HjF-9.jpeg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjCHfciPKSvu-DpTeq-8M2TWIeqah0BDoCTChutpAcQhR0TSSSWLv57QbyAF3TdaIwI0K8m6n0Xfi6YGcTjOuZlA0KIoAbKLb2KhzaoQLkOgJdF5VHKTovVt0ppgglcpBZHd-bDOM2HCTu4/s200/novita-fai-bei-sogni-massimo-gramellini-L-1HjF-9.jpeg" width="131" /></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>AUTORE</b>: <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Massimo_Gramellini" target="_blank">Massimo Gramellini</a></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>GENERE</b>: Romanzo</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>TRAMA:</b></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;">"Fai bei sogni" è la storia di un segreto celato in una busta per quarant'anni. La storia di un bambino, e poi di un adulto, che imparerà ad affrontare il dolore più grande, la perdita della mamma, e il mostro più insidioso: il timore di vivere. "Fai bei sogni" è dedicato a quelli che nella vita hanno perso qualcosa. Un amore, un lavoro, un tesoro. E rifiutandosi di accettare la realtà, finiscono per smarrire se stessi. Come il protagonista di questo romanzo. Uno che cammina sulle punte dei piedi e a testa bassa perché il cielo lo spaventa, e anche la terra. <br />
</span></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>INCIPIT:</b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"> <i> <br />
Come ogni anno, l’ultimo dell’anno sono passato a prendere Madrina per accompagnarla dalla mamma. Madrina e` un legno antico ben conservato. Vive da sola in una casa piena di luce, dove legge libri gialli e chiacchiera con le fotografie incorniciate di suo marito. Ogni tanto cambia mensola e parla con la foto della mamma, principalmente di me. Suppongo le taccia le informazioni piu` scabrose. Che ho avuto due mogli, sia pure una alla volta. E che non ho poi fatto l’avvocato.<br />
Mentre la aiutavo a infilarsi il cappotto, e` stata lei a portare il discorso sul romanzo che le avevo regalato a Natale.<br />
« L’ho finito stanotte... »<br />
« Ti e` piaciuto, anche se non e` un giallo? »<br />
« Certo, lo hai scritto tu. »<br />
« E le pagine che riguardano la mamma? »<br />
« Appunto di quelle volevo parlarti. »<br />
« Sono le uniche autobiografiche. Ci ho messo un<br />
pezzo della mia storia l`ı dentro. »<br />
« Sei sicuro che sia la tua storia? »<br />
« Perche ́... non lo e`? »<br />
« Non e` andata proprio cos`ı... Caro il mio ragazzo, avrei una cosa da darti. »<br />
<br />
L’ho vista armeggiare con chiavi da gnomo intorno ai cassetti del como`. Fra le sue belle mani piene di nodi e` spuntata una busta marrone.<br />
Me l’ha consegnata con un tremolio nella voce.<br />
« Dopo quarant’anni sarebbe ora che qualcuno ti dicesse la verita`. »<br />
<br />
QUARANT’ANNI PRIMA<br />
<br />
Quarant’anni prima, l’ultimo dell’anno mi ero sve- gliato cos`ı presto che credevo di sognare ancora. Ricordo l’odore della mamma nella mia stanza, la sua vestaglia ai piedi del letto. Che ci faceva lì?<br />
E poi: la neve sul davanzale, le luci accese in tutta la casa, un rumore di passi strascicati e quel guaito di creatura ferita.<br />
« Nooooo! »<br />
Infilo le pantofole nei piedi sbagliati, ma non c’e` tempo per rimediare. La porta sta gia` cigolando sotto la spinta delle mie mani, finche ́ lo vedo in mezzo al corridoio, accanto all’albero di Natale.<br />
Papa`.<br />
La quercia della mia infanzia, piegato come un salice da una forza invisibile e sorretto per le ascelle da due sconosciuti.<br />
Indossava la giacca da camera color porpora che gli aveva regalato la mamma. Quella con un cordone delle tende al posto della cintura. Si muoveva a scatti, scalciando e contorcendosi.<br />
Appena si accorse della mia presenza, lo sentii mormorare: « E` mio figlio... Per favore, portatelo dai vicini ».<br />
Abbandono` la testa all’indietro e urto` l’albero di Natale. Un angelo con le ali di vetro perse l’equilibrio e precipito` al tappeto.<br />
Gli sconosciuti erano muti ma gentili e mi parcheggiarono sul lato opposto del pianerottolo, da una coppia di pensionati.<br />
Tiglio e Palmira.<br />
Tiglio affrontava la vita dietro la corazza immutabile del suo pigiama a righe e con il conforto di una ostinata sordita`. Comunicava soltanto per iscritto, ma quella mattina si rifiutava di rispondere alle domande che gli avevo scarabocchiato in stampatello sul margine bianco del giornale.<br />
DOV’E` LA MAMMA? <br />
HANNO RAPINATO P A P A` ?<br />
Dei banditi dovevano essere entrati in casa durante la notte... E se fossero stati i due che lo tenevano per le ascelle?<br />
Apparve Palmira con le borse della spesa.<br />
« Papa` ha avuto un po’ di mal di testa, bambìn. Ma adesso sta bene. Quei signori erano i medici che lo hanno visitato. »<br />
« Come mai non avevano il camice? »<br />
« Lo mettono solo in ospedale. »<br />
« E come mai erano due? »<br />
«I medici del pronto soccorso sono sempre in due. »<br />
« Ah, giusto. Così se uno si ammala di colpo, l’altro lo puo` guarire. Dov’e` la mamma? »<br />
« Papa` l’ha accompagnata a fare una commissione. »<br />
« E quando torna? »<br />
« Presto, vedrai. La vuoi una cioccolata calda? » In mancanza della mamma mi accontentai della<br />
cioccolata.<br />
Qualche ora dopo venni preso in custodia dai migliori amici dei miei.<br />
Giorgio e Ginetta.<br />
Non credo di averli mai considerati separatamente. Mamma e papa` si erano conosciuti al loro matrimonio, una circostanza che non smetteva di stimolare gli ingranaggi del mio cervellino.<br />
« Mamma, ascolta: se Giorgio e Ginetta si fossero dimenticati di portarti alla festa, saresti stata sempre tu la mia mamma oppure un’altra invitata? »<br />
Avevo una lingua mai esausta, nonostante fosse piena di tagli e di toppe come il grembiule di un artigiano.<br />
« E` un miracolo che con un attrezzo simile suo figlio possa parlare » aveva spiegato il pediatra alla mamma.<br />
« Adesso di miracolo ne servirebbe un altro, dottore: riuscire ogni tanto a farlo stare zitto » aveva risposto lei. « Con la parlantina che si ritrova mi diventera` un avvocato. »<br />
Non ero d’accordo. Io volevo smettere di parlare e incominciare a scrivere. Quando mi convincevo che qualche adulto aveva commesso un’ingiustizia nei miei confronti, gli agitavo una biro sotto il mento: «Da grande raccontero` tutto in un libro che si intitolera` Io bambino ».<br />
Il titolo era migliorabile, ma il libro sarebbe stato una bomba.<br />
La verita` e` che avrei preferito essere un pittore. A sei anni avevo gia` dipinto il mio ultimo capolavoro: La mamma mangia un grappolo d’uva. Il grappolo era alto il doppio della mamma, gli acini sembravano le palle dell’albero di Natale e la faccia della mamma era identica a un acino.<br />
Lei lo aveva appeso in cucina e lo mostrava con orgoglio ai parenti di passaggio. Dalle loro facce perplesse avevo ricevuto il primo responso esistenziale: la pittura non sarebbe mai stata il mio talento. Il mondo che avevo dentro avrei dovuto cercare di disegnarlo con le parole.<br />
A casa di Giorgio e Ginetta ando` in scena il cenone piu` triste della storia. Malgrado i miei tentativi di ravvivare la conversazione, io e il figlio tredicenne venimmo spediti nei letti a castello alle nove di sera, dopo una pastasciutta e una bistecchina, entrambe al burro.<br />
<br />
Non ci fu verso di ottenere una fetta di panettone e una spiegazione decente. Mamma e papa` erano andati a fare una commissione, la stessa della mat- tina o forse un’altra, ma altrettanto misteriosa. E noi dovevamo filare subito a nanna.<br />
Ricordo il respiro regolare del mio compagno di clausura sopra di me. E i fuochi di mezzanotte che smacchiavano il buio della stanza attraverso le serrande non perfettamente abbassate.<br />
Rintanato sotto le coperte, gli occhi accesi e la testa vorticante come una giostra incantata, continua- vo a chiedermi cosa avessi combinato di tanto tremendo durante le vacanze di Natale per meritare un castigo simile.<br />
Avevo detto due bugie, risposto male una volta alla mamma e tirato un calcio nel sedere a Riccardo, il bambino della Juve che abitava al secondo piano.<br />
Non mi sembravano peccati gravi, specie l’ultimo.<br />
</i></span></span><br />
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</script><fb:like font="" href="http://librandoci.blogspot.it/2012/03/fai-bei-sogni.html" send="true" show_faces="true" width="450"></fb:like>LibrandoCIhttp://www.blogger.com/profile/16529616996313456992noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6435825165576447406.post-16563883916974503532012-03-12T08:54:00.002-07:002012-03-12T09:54:28.895-07:00On The Road<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjiwh0CtslbgUBd-J6c384YtJnG4lxCPyb0zVVgyyruamy8NHaIjkHvt4BLGmuS2jg_etJJo5Cd-9ssK2PKUU2Ecwwxj64bMu6RqOb3OB6Fp0yZ_hJgFdMQGwV4Gacc3MEeN1F9hS7ELU34/s1600/Unknown.jpeg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjiwh0CtslbgUBd-J6c384YtJnG4lxCPyb0zVVgyyruamy8NHaIjkHvt4BLGmuS2jg_etJJo5Cd-9ssK2PKUU2Ecwwxj64bMu6RqOb3OB6Fp0yZ_hJgFdMQGwV4Gacc3MEeN1F9hS7ELU34/s200/Unknown.jpeg" width="128" /></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>AUTORE</b>:<a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Jack_Kerouac" target="_blank"> Jack Kerouac</a></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>GENERE</b>: Romanzo Beatnik</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>TRAMA:</b></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;">Sal Paradise, un giovane newyorkese con ambizioni letterarie, incontra Dean Moriarty, un ragazzo dell'Ovest. Uscito dal riformatorio, Dean comincia a girovagare sfidando le regole della vita borghese, sempre alla ricerca di esperienze intense. Dean decide di ripartire per l'Ovest e Sal lo raggiunge; è il primo di una serie di viaggi che imprimono una dimensione nuova alla vita di Sal. La fuga continua di Dean ha in sé una caratteristica eroica, Sal non può fare a meno di ammirarlo, anche quando febbricitante, a Città del Messico, viene abbandonato dall'amico, che torna negli Stati Uniti.<br />
</span></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>INCIPIT:</b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"> <i> <br />
Parte prima<br />
<br />
1<br />
<br />
La prima volta che incontrai Dean fu poco tempo dopo che mia moglie e io ci separammo. Avevo appena superato una seria malattia della quale non mi prenderò la briga di parlare, sennonché ebbe qualcosa a che fare con la triste e penosa rottura e con la sensazione da parte mia che tutto fosse morto. Con l'arrivo di Dean Moriarty ebbe inizio quella parte della mia vita che si potrebbe chiamare la mia vita lungo la strada. Prima di allora avevo spesso sognato di andare nel West per vedere il continente, sempre facendo piani vaghi e senza mai partire. Dean è il tipo perfetto per un viaggio perché nacque letteralmente per la strada, quando i suoi genitori passarono da Salt Lake City, nel 1926, in un vecchio macinino, diretti a Los Angeles. Le prime notizie su di lui mi furono date da Chad King, che mi aveva fatto vedere alcune sue lettere scritte in un riformatorio del New Mexico. M'interessai enormemente a quelle lettere perché chiedevano a Chad in modo così ingenuo e dolce di insegnarli ogni cosa su Nietzsche e tutti i meravigliosi argomenti intellettuali che Chad conosceva. A un certo punto Carlo e io parlammo delle lettere e ci chiedemmo se avremmo mai conosciuto quello strano Dean Moriarty. Tutto ciò accadeva molto tempo fa, quando Dean non era quello che è oggi, ma solo un giovane carcerato avvolto di mistero. Poi arrivò la notizia che Dean era uscito dal riformatorio e stava venendo a New York per la prima volta; si diceva anche che avesse appena sposato una ragazza di nome Marylou.<br />
Un giorno stavo bighellonando per la Città Universitaria e Chad e Tim Gray mi dissero che Dean abitava in un appartamento senza acqua calda corrente nell'East Harlem, la Harlem spagnola. Dean era arrivato a New York la notte precedente per la prima volta, con Marylou, la sua bella e vivace pollastrella; erano scesi dall'autobus della Greyhound nella 50ma Strada, e avevano girato l'angolo in cerca di un posto per mangiare ed erano entrati difilato da Hector, e da allora in poi la rosticceria di Hector era sempre stata per Dean un grande simbolo di New York. Avevano speso parecchi soldi in grossi bellissimi dolci con la ghiaccia e in bombe alla crema. <br />
Tutto questo tempo Dean andava dicendo a Marylou cose del genere: "Dunque, tesoro, eccoci qua a New York e anche se non ti ho detto proprio tutto quello che avevo in mente quando attraversammo il Missouri e specialmente nel momento in cui siamo passati davanti al riformatorio di Booneville che mi ricordava il mio problema carcerario, ora è assolutamente necessario posporre tutte quelle cose sorpassate concernenti i nostri personali affari amorosi e cominciare immediatamente a pensare a specifici progetti di vita lavorativa..." e così via nel modo che gli era solito in quei primi tempi.<br />
Andai con i ragazzi all'appartamento senza acqua calda, e Dean si fece sulla porta in mutande. Marylou stava balzando giù dal divano; Dean aveva spedito in cucina l'altro inquilino dell'appartamento, probabilmente a fare il caffè, mentre lui si dedicava ai suoi problemi amorosi, poiché per lui il sesso era l'unica e sola e sacrosanta e importante cosa nella vita, quantunque gli toccasse sudare e imprecare per sbarcare il lunario e tutto il resto. Lo si poteva capire da come si metteva in piedi dondolando la testa, guardando sempre in basso, approvando col capo, come un giovane pugile che ascolti le istruzioni, per farti capire che stava a sentire ogni tua parola, buttando là un migliaio di "Si" e "Va bene". La prima impressione che mi fece Dean fu quella di un giovane Gene Autry - armonioso, snello di fianchi, con gli occhi azzurri, e uno spiccato accento dell'Oklahoma - un eroe con le basette nel nevoso West. Effettivamente, tempo avanti aveva lavorato in un ranch, quello di Ed Wall nel Colorado, prima di sposare Marylou e di venire nell'Est. Marylou era una graziosa biondina con un'infinità di ricci come un mare di chiome dorate; sedeva là sull'orlo del divano con le mani abbandonate in grembo e i fumosi occhi blu da provinciale sbarrati in uno sguardo fisso, per il fatto che si trovava in una squallida catapecchia grigia di New York della quale aveva sentito parlare giù nel West, e aspettava, come un'emaciata longilinea donna surrealista di Modigliani in una camera rispettabile. Però, oltre ad essere una piccola dolce ragazza, era paurosamente stupida e capace di fare orribili cose. Quella notte bevemmo tutti della birra e ci sfidammo al braccio di ferro e chiacchierammo fino all'alba, e al mattino, mentre sedevamo in cerchio fumando in silenzio le cicche raccolte dai portacenere nella luce grigia di una malinconica giornata, Dean si alzò nervosamente, camminò avanti e indietro, cogitabondo, e decise che l'unica cosa da fare era che Marylou preparasse la colazione e scopasse il pavimento. «In altre parole dobbiamo buttarci nella mischia, tesoro, come dicevo, altrimenti ci saranno fluttuazioni e mancanza di vera conoscenza o cristallizzazione dei nostri progetti.»<br />
Allora me ne andai. Durante la settimana seguente egli confidò a Chad King che era assolutamente necessario che lui gl'insegnasse a scrivere; Chad disse che io ero scrittore e che avrebbe dovuto venire da me per dei consigli. Nel frattempo Dean aveva trovato lavoro in un parcheggio, aveva litigato con Marylou nel loro appartamento a Hoboken - Dio sa perché c'erano andati - e lei era talmente arrabbiata e così profondamente invasa dal desiderio di vendetta che aveva riferito alla polizia certe accuse false inventate isteriche e pazze, e Dean aveva dovuto battersela da Hoboken. Così non sapeva dove abitare. Se ne venne dritto a Paterson, nel New Jersey, dove abitavo con mia zia, e una sera, mentre stavo studiando, sentii bussare alla porta, ed era Dean, che s'inchinava, strisciando ossequiosamente i piedi nel buio dell'ingresso, e diceva: «Salve, ti ricordi di me... Dean Moriarty? Sono venuto a chiederti di farmi vedere come si scrive». «E dov'è Marylou?» chiesi, e Dean disse che a quanto pareva aveva messo insieme qualche dollaro prostituendosi ed era tornata a Denver - la sgualdrina! Così uscimmo per bere qualche birra perché non potevamo parlare come volevamo di fronte a mia zia, che sedeva nel soggiorno leggendo il giornale. Essa diede a Dean una sola occhiata e decise che era un pazzo. Nel bar dissi a Dean: «Diavolo, amico, so benissimo che non sei venuto da me solo per il desiderio di diventare scrittore, e dopo tutto, che ne so io in proposito? So solo che devi darci dentro con l'energia di uno dedito alla benzedrina». E lui disse: «Sì, certo, capisco benissimo quel che vuoi dire e infatti mi si sono affacciati tutti questi problemi, ma ciò che voglio è la realizzazione di quei fattori che, se si dovesse dipendere dalla dicotomia di Schopenhauer per qualsiasi intimamente realizzato...» e così via in questa maniera, cosa che io non capivo neanche un poco e che non capiva nemmeno lui. In quei giorni non sapeva proprio di che stesse parlando; voglio dire, era un giovane avanzo di galera tutto preso dalle meravigliose possibilità di diventare un vero intellettuale, e gli piaceva parlare con quel tono e far uso di quelle parole ma in modo confuso, come le aveva sentite da "veri intellettuali" - quantunque, badate bene, in tutte le altre cose non fosse altrettanto ingenuo, e gli ci vollero solo pochi mesi con Carlo Marx per essere completamente addentro con tutti i termini e il gergo dell'ambiente. Ciò nonostante noi due ci capivamo su altri piani di pazzia, e io acconsentii a farlo stare a casa mia finché non avesse trovato un lavoro e inoltre ci mettemmo d'accordo per andare nel West, una volta o l'altra.<br />
</i></span></span><br />
<div id="fb-root"></div><script src="http://connect.facebook.net/en_US/all.js#appId=130105987065730&xfbml=1">
</script><fb:like font="" href="http://librandoci.blogspot.com/2012/03/on-road.html" send="true" show_faces="true" width="450"></fb:like>LibrandoCIhttp://www.blogger.com/profile/16529616996313456992noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6435825165576447406.post-63187688457771355652012-03-08T09:10:00.003-08:002012-03-08T09:12:34.532-08:00Piccole Donne<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjeUCiA_e6znKhDCbkupMqgV3QKSXxb8o-EFFzBA5Jf9z5TZHzA2vxnCYDBKTsWW5bYy3wkPxD0CY1glz6VvX3EsVDZuFzbBJDSz-Z5sThlLxfY65y-Ufi6Bbw-6K0yTmSO7Xoih13djCf4/s1600/Piccole-donne.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjeUCiA_e6znKhDCbkupMqgV3QKSXxb8o-EFFzBA5Jf9z5TZHzA2vxnCYDBKTsWW5bYy3wkPxD0CY1glz6VvX3EsVDZuFzbBJDSz-Z5sThlLxfY65y-Ufi6Bbw-6K0yTmSO7Xoih13djCf4/s200/Piccole-donne.jpg" style="cursor: move;" width="160" /></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>AUTORE</b>: <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Louisa_May_Alcott" target="_blank">Louisa May Alcott</a></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>GENERE</b>: Romanzo di formazione</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>TRAMA:</b></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;">Un libro che con la sua freschezza e la sua vivacità ha commosso generazioni di lettori. Le quattro sorelle March – la giudiziosa Meg, l’impertinente Jo, la dolce Beth, la vanitosa Amy – si preparano alla vita vivendo sogni e speranze dell’adolescenza sullo sfondo dell’America scossa dalla guerra di Secessione. È sufficiente la prima pagina di “Piccole donne” per immettere il lettore nell’atmosfera casalinga di casa March: il chiacchiericcio fitto delle sorelle, gli echi di un mondo che fuori è pieno di gioia, le evasioni nel sogno. Pagina dopo pagina seguiamo con trepidazione i sogni delle quattro giovani adolescenti, i loro capricci, i loro slanci, le loro vittorie, le loro amicizie, le loro difficoltà, che Louisa May Alcott ci presenta con un’analisi psicologica così penetrante che ancora oggi sentiamo attuali. Allora entriamo in casa March, sediamoci accanto al caminetto e viviamo insieme a loro questo anno fantastico ricco di strabilianti sorprese...<br />
</span></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>INCIPIT:</b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"> <i> CAPITOLO PRIMO<br />
Il giuoco dei pellegrini<br />
— Natale non sembrerà più Natale senza regali — brontolò Jo sdraiata sul tappeto dinanzi al caminetto.<br />
— L’essere poveri è una disgrazia — disse Meg, guardando con un sospiro il suo vecchio vestitino.<br />
— Non è giusto che alcune ragazze debbano aver tanto ed altre nulla! — soggiunse la piccola Amy con voce piagnucolosa.<br />
— Abbiamo però la nostra buona mamma ed il nostro papà e tante altre belle cose — disse Beth dal suo cantuccio.<br />
Le quattro faccine, illuminate dai bagliori del fuoco che scoppiettava nel caminetto, si rischiararono un momento a queste parole, ma si oscurarono di nuovo allorché Jo disse con tristezza: — Papà non è con noi e chi sa quando tornerà! — Non disse — forse mai — ma tutte lo aggiunsero silenziosamente, pensando al padre loro tanto lontano, là, sul campo di battaglia.<br />
Tutte tacquero per qualche istante, poi Meg ricominciò: — Sapete bene la ragione per cui la mamma ha proposto di non comprare regali per Natale. Essa crede che non abbiamo diritto di spendere i nostri denari in divertimenti quando i nostri cari nell’esercito soffrono tanto. Non siamo buone a molto noi, ma possiamo pur fare i nostri piccoli sacrifizi e dovremmo compierli con piacere, per quanto io confessi che mi costano qualche fatica — e Meg scosse la testa ripensando alle belle cosine che da tanto tempo desiderava.<br />
— Non lo fare, Jo, son cose da ragazzacci.<br />
— È appunto per questo che lo faccio.<br />
— Io non posso soffrire le ragazze sgarbate.<br />
— Ed io non posso soffrire le ragazze smorfiose che stanno sempre in<br />
ghingheri.<br />
— Gli uccellini dello stesso nido vanno d’accordo — interruppe Beth,<br />
la paciera, con una smorfia così curiosa che le due sorelle scoppiarono in una risata e il battibecco cessò per quella volta.<br />
— A dir il vero avete torto tutt’e due — disse Meg, cominciando, come sorella maggiore, la sua ramanzina! — Tu sei abbastanza grande, ormai, per smettere quei modi da sbarazzino e comportarti meglio, Giuseppina. Ciò non aveva tanta importanza quando eri piccola, ma ora che sei così alta e che ti sei tirata su i capelli, dovresti rammentarti che sei una signorina e non un ragazzo.<br />
— Non è vero nulla! e se il tirarmi su i capelli mi fa diventare una signorina, porterò la treccia giù, fino a venti anni! — gridò Jo, strappandosi via la rete e lasciandosi cadere sulle spalle una bellissima treccia di capelli castagni.<br />
— Penso con raccapriccio che un giorno dovrò pur essere la signorina March, dovrò portare le sottane lunghe e metter su un’aria di modestia e di affettazione come la mia cara sorella! È la cosa più insopportabile del mondo pensare d’essere donna quando darei qualunque cosa per essere nata uomo! Ed ora che muoio dalla voglia di andare al campo con papà, mi tocca star qui a far la calza come una vecchia di cent’anni! — E Jo, in un impeto di rabbia, gettò per terra la calza che stava facendo, tanto che il gomitolo di lana andò a rotolare dall’altra parte della stanza.<br />
— Povera Jo! Non è davvero giusto! Ma non può essere altrimenti, perciò ti devi contentare del tuo nome, che pare quello di un ragazzo e ti puoi divertire a far da fratello a noi altre — disse Beth, accarezzando la testa arruffata che si era posata sulle sue ginocchia con una mano il cui tocco, né lavatura di piatti, né spolveratura, avrebbe potuto rendere meno che dolce.<br />
— Quanto a te, Amy, — continuò Meg; — sei addirittura esagerata! Mi piacciono le tue manierine gentili ed il tuo modo raffinato di parlare, ma quando vuoi usare delle parole lunghe e ricercate che non conosci e cerchi di essere elegante, sei addirittura ridicola ed affettata. —<br />
— Se Jo è un ragazzaccio ed Amy è affettata, che cosa sono, io? — domandò Beth pronta a prendere la sua parte di predica.<br />
— Tu sei un angelo e null’altro.— rispose Meg abbracciandola e nessuno la contraddisse poiché «il topo» era il cocco della famiglia. Benché il tappeto fosse molto logoro ed i mobili molto vecchi pure la stanza dove erano riunite le quattro ragazze era resa gaia e piacevole da uno o due buoni quadri appesi al muro, dalle librerie piene di libri, dai crisantemi e dalle rose di Natale che fiorivano sulle finestre e dall’atmosfera di pace casalinga che pervadeva ogni cosa. Margherita, la maggiore delle sorelle, aveva 16 anni ed era molto carina. Bionda, ben formata, aveva occhi celesti, una quantità di capelli di un castagno chiaro, una bocchina dolce e delle mani fini e bianche a cui teneva molto.<br />
Giuseppina o Jo, come la chiamavano in famiglia, era alta, magra, scura di carnagione ed assomigliava un poco ad un puledro non ancora domato, perché non sapeva mai dove, né come tenere le lunghe membra che sembravano esserle sempre d’impaccio. Aveva una espressione risoluta nella bocca, un naso bizzarro, ed occhi grigi, che sembravano vedere tutto e che potevano essere, a volta a volta, severi, furbi o pensierosi. I suoi lunghi e folti capelli erano la sua unica bellezza; ma ella li portava quasi sempre in una rete, perché non le dessero noia. Jo aveva le spalle un po’ curve, piedi grossi e mani lunghe; i vestiti quasi sempre scuciti che le cascavano di dosso e l’aria di una ragazza che sta trasformandosi rapidamente in donna, ma che vorrebbe rimanere bimba.<br />
Elisabetta o Beth era una rosea fanciulla di 13 anni, tutta pace e timidezza: il padre la chiamava «piccola tranquillità» ed il nome le si confaceva a pennello, perché sembrava vivere beata in un mondo a sé da cui non usciva se non per stare con i pochi che ella amava e stimava.<br />
Amy, la più piccola, era un personaggio importante, secondo la sua opinione, almeno. Era bianca come la neve, con occhi celesti, ed i folti capelli biondi le scendevano inanellati sulle spalle; era pallida e magra, ma faceva il suo possibile per comportarsi sempre come una vera signorina.<br />
Quali fossero i caratteri delle quattro sorelle i lettori vedranno in seguito.<br />
Suonarono le 6 e Beth, dopo avere spazzato la cenere dal camino, prese un paio di pantofole e le avvicinò al fuoco per scaldarle.<br />
La vista delle vecchie pantofole parve avere una buona influenza sulle sorelle; esse sapevano che la mamma doveva arrivare tra poco e tutt’e quattro si prepararono per riceverla. Meg smise di predicare ed accese il lume; Amy si alzò dalla poltrona, senza che alcuno glielo ricordasse e Jo si dimenticò di essere tanto stanca, tolse di mano a Beth le pantofole della mamma e le tenne vicino al fuoco.<br />
— Ma non credo che quel poco che daremmo possa alleggerire le sofferenze dell’esercito; un misero dollaro non potrà far gran cosa. Sono d’accordo anch’io di non aspettarmi nulla né dalla mamma né da voialtre, ma vorrei, con i miei pochi risparmi, comperarmi Undina e Sintram! È<br />
tanto tempo che lo desidero! — disse Jo, che aveva una vera passione per la lettura.<br />
— Io aveva pensato di comprarmi un po’ di musica! — disse Beth, con un sospiro così leggiero che nessuno potè udirlo.<br />
— Io voglio comprarmi una bella scatola di lapis Faber; ne ho proprio bisogno — disse Amy risolutamente.<br />
— Mamma non ha detto nulla riguardo ai nostri risparmi e suppongo che non sarebbe contenta se ci privassimo di tutto quello che ci può far piacere. Comperiamoci quello che desideriamo e divertiamoci un po’; mi pare che lavoriamo abbastanza per meritarcelo! — gridò Jo, guardandosi i tacchi delle scarpe, come avrebbe fatto un «dandy».<br />
— Lo credo io! Io che, da mattina a sera, devo far lezione a quei terribili bimbi, quando darei non so che cosa per restare a casa e passare le giornate a modo mio! — cominciò Meg con voce lamentevole.<br />
— Tu puoi cantare quanto vuoi, ma non meni certo una vita così brutta come la mia! — aggiunse Jo.<br />
— Come ti piacerebbe star sempre rinchiusa con una vecchia nervosa ed antipatica che ti fa trottar tutto il santo giorno su e giù, che non è mai contenta e che ti tormenta tanto da farti venir la voglia di buttarti giù dalla finestra o di darle un buon paio di scappellotti?<br />
— Veramente non bisognerebbe lamentarsi, ma credetelo pure che lavar piatti e tener la casa in ordine è la peggior cosa del mondo! E le mie mani diventano così ruvide che non posso più suonare una nota! — E Beth, dicendo queste parole, si guardò le mani con un sospiro che, questa volta, tutti poterono udire.<br />
— Non credo che nessuna di voi abbia da soffrire quanto me; — disse Amy — voialtre non andate a scuola e non dovete stare con ragazze impertinenti che vi tormentano se non sapete la lezione, vi canzonano perché non avete un bel vestito o perché vostro padre non è ricco, e v’insultano perché non avete un naso greco!<br />
— Ah! se ci fosse ora un po’ di quel denaro che papà perdette quando eravamo piccole! Che bella cosa, eh, Jo? Come saremmo buone ed ubbidienti, se non avessimo alcun pensiero! — disse Meg che si ricordava di tempi migliori.<br />
— Mi pare però che l’altro giorno tu dicessi che ti ritenevi molto più fortunata dei ragazzi King, che nonostante tutti i loro denari, leticavano e brontolavano da mattina a sera.<br />
— È vero, Beth! E credo sul serio che noi siamo assai più fortunate di loro; sì abbiamo da lavorare, ma ci divertiamo fra di noi e siamo «un’allegra masnada», come direbbe Jo.<br />
— Jo si serve sempre di termini così volgari! — osservò Amy, gettando<br />
uno sguardo di rimprovero alla lunga figura sdraiata sul tappeto. Jo, a queste parole, si alzò a sedere, mise le mani nelle tasche del grembiule e cominciò a fischiare.<br />
— Sono tutte sciupate; mammina dovrebbe averne un altro paio. — disse dopo un breve silenzio.<br />
— Avevo pensato di comperargliene un paio col mio dollaro — disse Beth.<br />
— No, le voglio comperar io — strillò Amy.<br />
— Io sono la maggiore... — cominciò Meg, ma fu interrotta da Jo che disse con accento energico:<br />
— Io sono l’uomo, ora che papi non c’è, e spetta a me comperare le pantofole: se vi ricordate, papà raccomandò la mamma in ispecial modo a me, quando andò via.<br />
— Sapete cosa faremo? — disse Beth — Compreremo tutte qualcosa per la mamma e nulla per noi.<br />
— Brava Beth! Quello che volevo proporre io! Ma che cosa prenderemo? — esclamò Jo. Tutte e quattro pensarono un momento poi Meg esclamò, come se l’idea le fosse sorta alla vista delle sue belle manine: — Io le regalerò un bel paio di guanti.<br />
— Io le pantofole: le migliori che ci sono — gridò Jo.<br />
— Io una dozzina di fazzoletti orlati tutti da me — disse Beth.<br />
— Io comprerò una bottiglia di Acqua di Colonia, che piace tanto alla<br />
mamma e che non costa molto; così mi potrà anche rimanere qualche soldo per i miei lapis — aggiunse Amy.<br />
— Facciamole credere che vogliamo comperare qualcosa per noi e prepariamole un’improvvisata! Bisogna andare domani a fare tutte le commissioni Meg, c’è tanto da fare per la rappresentazione della sera di Natale! — disse Jo, camminando su e giù per la stanza con le mani dietro la schiena e il naso per aria.<br />
— Questa è l’ultima volta, però, che prendo parte alla rappresentazione: sono ormai troppo grande — disse Meg, che, tra parentesi, era bimba quanto le altre quando si trattava di mascherate.<br />
— Lo dici, ma non lo farai! Ti piace troppo vestirti colla bella veste bianca a coda, portare i capelli sciolti per le spalle e metterti tutti quei gioielli di carta argentata e dorata! Sei la migliore attrice della compagnia e se tu manchi che cosa faremo? Dovremo smettere anche noi — disse Jo — A proposito: bisognerebbe fare una prova stasera; vieni qua Amy, fa un po’ la scena dello svenimento; hai proprio bisogno di impararla meglio; stai sempre lì impalata come un pezzo di legno.<br />
</i></span></span><br />
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</script><fb:like font="" href="http://librandoci.blogspot.com/2012/03/piccole-donne.html" send="true" show_faces="true" width="450"></fb:like>LibrandoCIhttp://www.blogger.com/profile/16529616996313456992noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6435825165576447406.post-68586122799253594442012-03-06T01:38:00.001-08:002012-03-06T01:44:26.815-08:00La voce invisibile del vento<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgKfGXGirPQgohCxXhxkL1fSKHZ2lYRlYuNHj3ZHTZAjufVHao3MhEnWk1KXF-9JTp8ftEzFvNv2K1mW4owYnVYOd1HGp9z-06ZIlQgZ6sxVBA4_yjnNXMvnA1R2gxBnyp0cmLgFazQYu7A/s1600/La-voce-invisibile-del-vento-di-Clara-Sanchez.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgKfGXGirPQgohCxXhxkL1fSKHZ2lYRlYuNHj3ZHTZAjufVHao3MhEnWk1KXF-9JTp8ftEzFvNv2K1mW4owYnVYOd1HGp9z-06ZIlQgZ6sxVBA4_yjnNXMvnA1R2gxBnyp0cmLgFazQYu7A/s200/La-voce-invisibile-del-vento-di-Clara-Sanchez.jpg" width="135" /></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>AUTORE</b>: <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Clara_Sanchez_(scrittrice)" target="_blank">Clara Sánchez</a></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>GENERE</b>: Romanzo</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>TRAMA:</b></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;">Spagna, località di Las Marinas. La luce si è ritirata verso qualche luogo nel cielo. Il buio della notte avvolge le viuzze del paese e il mare è nero come la pece. Julia ha perso la strada di casa: è circondata dal silenzio e sente solo la voce del vento che soffia dal mare, e profuma di sale e di fiori. Non ricorda cosa sia successo: era uscita a prendere il latte per suo figlio, ma sulla strada del ritorno all'improvviso si è ritrovata in macchina senza soldi, documenti e cellulare. In pochi minuti quella che doveva essere una vacanza da sogno si è trasformata in un incubo. Per le strade non c'è nessuno, le case sulla spiaggia sembrano tutte uguali e Julia non riesce a ritrovare l'appartamento nel quale l'attendono il marito Felix e il figlio di pochi mesi. Prova a contattarli da un telefono pubblico, ma la linea è sempre occupata. Tutto, intorno a lei, è così familiare eppure così stranamente irreale. Tra le vie oscure e labirintiche c'è solo una luce, quella di un locale notturno. A Julia non resta altra scelta che raggiungerlo, nella speranza di trovare qualcuno che l'aiuti. Qui, quasi ad aspettarla, c'è un uomo, un tipo affascinante, con la barba incolta e l'accento dell'Est Europa, che sembra sapere tante, troppe cose su di lei. Si chiama Marcus: Julia ha la sensazione di averlo già incontrato da qualche parte. Fidarsi di lui è facile. Eppure Marcus non è quello che sembra e nasconde qualcosa.<br />
</span></span><br />
<br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>INCIPIT:</b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"> <i> PRIMO GIORNO<br />
<br />
JULIA <br />
<br />
Uscirono da Madrid alle quattro del pomeriggio prendendo la a3 in direzione est. Julia aveva trascorso la mattinata a fare le valigie, un’operazione che adesso, con Tito, era diventata straordinariamente complicata. Da quando era nato, sei mesi prima, ogni passo fuori di casa implicava portarsi dietro mille cianfrusaglie. E sembrava che il mondo si sbriciolasse se ne mancava una. Pannolini, biberon, gocce per le orecchie, ombrellino, cappellino per il sole. Le cose più necessarie andavano in una grande borsa marrone trapuntata con una fantasia a orsetti blu, che di solito per la strada Julia teneva appesa alla maniglia del passeggino. I vestiti di Félix e i suoi li aveva infilati alla rinfusa nella Samsonite verde aperta sul letto sin dal mattino presto. Quando finalmente l’aveva chiusa, era distrutta a furia di andare su e giù per l’appartamento. Aveva chiuso anche gli armadi. Quanto bisognava faticare per concedersi un bagnetto al mare e stendersi un po’ al sole! Avrebbe cambiato Tito subito prima di mettersi in viaggio e ne avrebbe approfittato per buttare l’ultimo pannolino sporco nei bidoni dell’immondizia del palazzo. Prima di dimenticarsene, aveva controllato la manopola del gas e staccato il computer e il frigorifero. Che altro? Sicuramente c’era ancora qualcosa. Ma non le rimaneva più spazio in testa per nessun altro dettaglio. Se si pensasse a fondo a quello che ci si lascia alle spalle, non si finirebbe mai.<br />
Con le uova rimaste dopo aver pulito il frigorifero aveva preparato due panini con la tortilla, uno per sé e l’altro per Félix. D’estate lui lavorava senza fare la pausa pranzo, perciò finiva alle tre del pomeriggio.<br />
Alle tre e mezzo arrivava a casa e prendeva Tito, in modo che Julia potesse andare a lavorare. Almeno in teoria, visto che un giorno sì e l’altro no alla com- pagnia di assicurazioni si verificava qualche imprevisto, e allora del bimbo si occupava una vicina che aveva due figlie, di otto e dieci anni, che andavano a controllarlo in continuazione.<br />
Julia lavorava come responsabile dei camerieri al bar-caffet- teria dell’hotel Plaza ed era riuscita a ottenere il turno pomeridiano finché Tito non avesse iniziato ad andare all’asilo nido. Dopo essersi buttata sul divano completamente esausta con il panino in mano, si era guardata lentamente attorno finché, senza che potesse farci niente, le si erano chiusi gli occhi.<br />
Dopo tre ore di viaggio si fermarono in un autogrill pieno di passeggeri di autobus di linea. Fu davvero un’impresa riuscire a prendere un caffè tra gli spintoni e la folla che si accalcava, ma almeno Félix si rimise in forze mangiando il panino e ne approfittarono per comprare una bottiglia di acqua minerale e una di vino, oltre che delle empanadas al tonno per cena. E, magicamente, dopo cinque ore di viaggio, a mano a mano che si avvicinavano alla costa, l’odore dell’aria cominciò a cambiare, portato dal mare a ondate sempre più umide e salmastre, e poi iniziarono a spuntare dappertutto oleandri, buganvillee e palme.<br />
Riuscirono a raggiungere Las Marinas prima che facesse buio. Julia aveva chiesto a Félix di guidare per tutto il tragitto in modo da riposare un po’. La verità era che dalla nascita del bambino, e anche prima, durante la gravidanza, si sentiva sempre stanca. Beveva molto caffè e prendeva anche un mucchio di vitamine, nella speranza che prima o poi le facessero effetto. Per controllare meglio Tito, si era seduta dietro accanto a lui e ogni tanto accarezzava lo scialle che lo proteggeva dall’aria condizionata. A doverlo spiegare, avrebbe detto che le dava sicurezza toccare suo figlio, mentre il sonno la vinceva di nuovo.<br />
Il paesino assomigliava agli altri lungo la costa. C’erano un castello, diversi grandi supermercati, un porto con pescherecci e piccole barche da turismo e un grande traghetto che portava a Ibiza. Julia scoprì che nella strada principale c’erano anche una fantastica gelateria con un enorme cono sulla porta e un mercatino dell’usato. Fu proprio l’ingorgo dovuto al mercatino che li costrinse a fare molti giri e ci misero un bel po’ a imboccare la strada del porto, che finalmente li avrebbe condotti alla spiaggia e al loro appartamento.<br />
Lo aveva prenotato Félix su Internet. Si trattava di un grande complesso residenziale con piscina situato in seconda o terza fila rispetto alla spiaggia, con un’incantevole architettura tradizionale mediterranea, secondo la descrizione dell’agenzia immobiliare. In genere quelle case appartenevano a tedeschi o inglesi che le affittavano d’estate tramite agenzia e le tenevano per sé tutto il resto dell’anno, durante la bassa stagione. I proprietari del loro appartamento erano inglesi e si chiamavano Tom e Margaret Sherwood. Quello che attraeva maggiormente Julia era poter andare a piedi in spiaggia senza la complicazione dell’auto.<br />
Più si avvicinavano, più il suo desiderio di giungere a destinazione e sistemarsi aumentava, mentre Madrid e l’appartamento chiuso erano ormai ben più lontani di quanto si sarebbe immaginata solo qualche ora prima. Magari si potesse lasciare tutto alle spalle mettendoci qualche centinaio di chilometri di mezzo, pensò un po’ più sveglia, appoggiando la testa al finestrino.<br />
Passarono davanti al Club Nautico e al commissariato di polizia, al cui ingresso stazionava un gruppo quasi immobile di africani. La luce in cielo si stava ritirando chissà dove. Sul lungomare si succedevano una quantità di negozietti e tavolini all’aperto, e doveva essere per questo che si era creata una coda preoccupante.<br />
Rimasero fermi per una decina di minuti, poi Félix diede un colpo sul volante in segno di protesta. «Hai fame?» chiese guardando i tavolini con l’aria di chi non si sente arrivato a destinazione finché non ha preso possesso dell’appartamento. Se Félix aveva un pregio, era che di solito non si lasciava trasportare dal nervosismo, al punto che a volte Julia dubitava che gli scorresse sangue nelle vene.<br />
</i></span></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"><i><br />
</i></span></span><br />
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</script><fb:like font="" href="http://librandoci.blogspot.com/2012/02/il-prigioniero-del-cielo.html" send="true" show_faces="true" width="450"></fb:like>LibrandoCIhttp://www.blogger.com/profile/16529616996313456992noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6435825165576447406.post-11108194592182470752012-03-02T01:54:00.002-08:002012-03-02T01:56:26.244-08:00Il Gattopardo<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgSdVxu_PrQViZuAAVsNcHHfkFSf2O1yvk2475WZz8NGbI6Drofs31hwDs_50WfyiVMXabRVTkG4N30igMnjp2zUTTh8x1Ap75sezG8pBHsHKqdIEpuYOWPyX3BQVVI8XKvusRdrSB_7ZsS/s1600/gattopardo.gif" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgSdVxu_PrQViZuAAVsNcHHfkFSf2O1yvk2475WZz8NGbI6Drofs31hwDs_50WfyiVMXabRVTkG4N30igMnjp2zUTTh8x1Ap75sezG8pBHsHKqdIEpuYOWPyX3BQVVI8XKvusRdrSB_7ZsS/s200/gattopardo.gif" width="129" /></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>AUTORE</b>: <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Tomasi_di_Lampedusa" target="_blank">Giuseppe Tomasi di Lampedusa</a></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>GENERE</b>: Romanzo storico</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>TRAMA:</b></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"> Don Fabrizio, principe di Salina, all'arrivo dei Garibaldini, sente inevitaile il declino e la rovina della sua classe. Approva il matrimonio del nipote Tancredi, senza più risorse economiche, con la figlia, che porta con sé una ricca dote, di Calogero Sedara, un astuto borghese. Don Fabrizio rifiuta però il seggio al Senato che gli viene offerto, ormai disincantato e pessimista sulla possibile sopravvivenza di una civiltà in decadenza e propone al suo posto proprio il borghese Calogero Sedara.<br />
</span></span><br />
<br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>INCIPIT:</b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"> <i> CAPITOLO PRIMO.<br />
Rosario e presentazione del Principe, il giardino e il soldato morto.<br />
Le udienze reali. La cena. In vettura per Palermo. Andando da Mariannina. Il ritorno a San Lorenzo. Conversazione con Tancredi. In Amministrazione: i feudi, e i ragionamenti politici. In osservatorio con padre Pirrone. Distensione al pranzo. Don Fabrizio e i contadini. Don Fabrizio e il figlio Paolo. La notizia dello sbarco e di nuovo il Rosario.<br />
<br />
Nunc et in hora mortis nostrae. Amen.<br />
<br />
La recita quotidiana del Rosario era finita. Durante mezz'ora la voce pacata del Principe aveva ricordato i Misteri Gloriosi e Dolorosi; durante mezz'ora altrevoci, frammiste, avevano tessuto un brusio ondeggiante sul quale si erano distaccati i fiori d'oro di parole inconsuete: amore, verginità, morte; e durante quel brusio il salone rococò sembrava aver mutato aspetto; financo i pappagalli che spiegavano le ali iridate sulla seta del parato erano apparsi intimiditi; perfino la Maddalena, fra le due finestre, era sembrata una penitente anziché una bella biondona, svagata in chissà quali sogni, come la si vedeva sempre.<br />
Adesso, taciutasi la voce, tutto rientrava nell'ordine, nel disordine, consueto. Dalla porta attraverso la quale erano usciti i servi, l'alano Bendicò, rattristato dalla propria esclusione, entrò e scodinzolò. Le donne si alzavano lentamente, e l'oscillante regredire delle loro sottane lasciava a poco a poco scoperte le nudità mitologiche che si disegnavano sul fondo latteo delle mattonelle. Rimase coperta soltanto<br />
un'Andromeda cui la tonaca di padre Pirrone, attardato in sue orazioni supplementari, impedí per un bel po' di rivedere l'argenteo Perseo che sorvolando i flutti si affrettava al soccorso ed al bacio.<br />
Nell'affresco del soffitto si risvegliavano le divinità. Le ere di Tritoni e di Driadi, che dai monti e dai mari fra nuvole lampone e ciclamino si precipitavano verso una trasfigurata Conca d'Oro per esaltare la gloria di casa Salina, apparvero di subito tanto colme di esultanza da trascurare le piú semplici regole prospettiche; e gli Dei maggiori, i Principi fra gli Dei, Giove folgorante, Marte accigliato, Venere languida, che avevano preceduto le turbe dei minori, sorreggevano di buon grado lo scudo azzurro col Gattopardo.<br />
Essi sapevano che per ventitré ore e mezza, adesso, avrebbero ripreso la signoria della villa. Sulle pareti le bertucce ripresero a far sberleffi ai cacatoés.<br />
Al di sotto di quell'Olimpo palermitano anche i mortali di casa Salina discendevano in fretta giú dalle sfere mistiche. Le ragazze raggiustavano le pieghe delle vesti, scambiavano occhiate azzurrine e parole in gergo di educandato; da piú di un mese, dal giorno dei moti del Quattro Aprile, le avevano per prudenza fatte rientrare dal convento, e rimpiangevano i dormitori a baldacchino e l'intimità collettiva del Salvatore.<br />
I ragazzini si accapigliavano di già per il possesso di una immagine di S. Francesco di Paola; il primogenito, l'erede, il duca Paolo, aveva già voglia di fumare e, timoroso di farlo in presenza dei genitori, andava palpando attraverso la tasca la paglia intrecciata del portasigari. Nel volto emaciato si affacciava una malinconia metafisica: la giornata era stata cattiva, Guiscardo, il sauro irlandese, gli era sembrato giú di vena, e Fanny non aveva trovato il modo (o la voglia di fargli pervenire il solito bigliettino color di mammola. A che fare, allora, si era incarnato il Redentore?<br />
La prepotenza ansiosa della Principessa fece cadere seccamente il rosario nella borsa trapunta di jais, mentre gli occhi belli e maniaci sogguardavano i figli servi e il marito tiranno verso il quale il corpo minuscolo si protendeva in una vana ansia di dominio amoroso.<br />
Lui, il Principe, intanto si alzava: l'urto del suo peso da gigante faceva tremare l'impiantito, e nei suoi occhi chiarissimi si riflesse, un attimo, l'orgoglio di questa effimera conferma del proprio signoreggiare su uomini e fabbricati.<br />
Adesso posava lo smisurato Messale rosso sulla seggiola che gli era stata dinanzi durante la recita del Rosario, poneva il fazzoletto sul quale aveva poggiato il ginocchio, e un po' di malumore intorbidò il suo sguardo, quando rivide la macchiolina di caffé che fin dal mattino aveva ardito interrompere la vasta bianchezza del panciotto.<br />
Non che fosse grasso: era soltanto immenso e fortissimo; la sua testa sfiorava (nelle case abitate dai comuni mortali) il rosone inferiore dei lampadari; le sue dita sapevano accartocciare come carta velina le monete da un ducato; e fra villa Salina e la bottega di un orefice era un frequente andirivieni per la riparazione di forchette e cucchiai che la sua contenuta ira, a tavola, gli faceva spesso piegare in cerchio. Quelle dita, d'altronde, sapevano anche essere di tocco delicatissimo nel carezzare e maneggiare,<br />
di ciò si ricordava a proprio danno Maria Stella, la moglie; e le viti, le ghiere, i bottoni, smerigliati dei telescopi, cannocchiali, e "ricercatori di comete" che lassú, in cima alla villa, affollavano il suo osservatorio privato, si mantenevano intatti sotto lo sfioramento leggero. I raggi del sole calante ma ancora alto di quel pomeriggio di maggio accendevano il colorito roseo, il pelame color di miele del Principe; denunziavano essi l'origine tedesca di sua madre, di quella principessa Carolina la cui alterigia aveva congelato, trent'anni prima, la Corte sciattona delle Due sicilie.<br />
Ma nel sangue di lui fermentavano altre essenze germaniche ben piú incomode per quell'aristocratico siciliano, nell'anno 1860, di quanto potessero essere attraenti la pelle bianchissima ed i capelli biondi nell'ambiente di olivastri e di corvini: un temperamento autoritario, una certa rigidità morale, una propensione alle idee astratte che nell'habitat molliccio della società palermitana si erano mutati rispettivamente in prepotenza capricciosa, perpetui scrupoli morali e disprezzo per i suoi parenti e amici, che gli sembrava andassero alla deriva nei meandri del lento fiume pragmatistico siciliano.<br />
Primo (ed ultimo) di un casato che per secoli non aveva mai saputo fare neppure l'addizione delle proprie spese e la sottrazione dei propri debiti, possedeva forti e reali inclinazioni alle matematiche; aveva applicato queste all'astronomia e ne aveva tratto sufficienti riconoscimenti pubblici e gustosissime gioie private. Basti dire che in lui orgoglio e analisi matematica si erano a tal punto associati da dargli l'illusione che gli astri obbedissero ai suoi calcoli (come, di fatto, sembravano fare) e che i due pianetini che aveva scoperto (Salina e Svelto li aveva chiamati, come il suo feudo e un suo bracco indimenticato) propagassero la fama della sua casa nelle sterili plaghe fra Marte e Giove e che quindi gli affreschi della villa fossero stati piú una profezia che una adulazione.<br />
Sollecitato da una parte dall'orgoglio e dall'intellettualismo materno, dall'altra dalla sensualità e faciloneria del padre, il povero principe Fabrizio viveva in perpetuo scontento pur sotto il cipiglio zeusiano, e stava a contemplare la rovina del proprio ceto e del proprio patrimonio senza avere nessuna attività ed ancora minor voglia di porvi riparo.<br />
Quella mezz'ora fra il Rosario e la cena era uno dei momenti meno irritanti della giornata, ed egli ne pregustava ore prima la pur dubbia calma.<br />
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<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"><i><br />
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</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>GENERE</b>: Romanzo</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>TRAMA:</b></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"> Barcellona, dicembre 1957. Nella libreria dei Sempere entra un individuo misterioso che acquista una preziosa edizione del Conte di Montecristo e la lascia in custodia a Daniel perché la consegni al suo amico Fermin. Il libro porta una dedica inquietante: "Per Fermin Romero de Torres, che è riemerso tra i morti e ha la chiave del futuro", firmato "13". Tra malintesi, imbrogli e minacciosi ricordi dal passato inizia l'indagine di Daniel per decifrare quella dedica enigmatica e capire quali segreti nasconde il suo fedele amico. Prima di potersene rendere conto, il giovane libraio viene catapultato in un passato che lo riguarda da vicino, dove la morte di sua madre Isabella si lega al destino di David Martin, il grande scrittore che dal carcere scrive Il gioco dell'angelo, e a quello del perfido editore Mauricio Valls, una vecchia conoscenza degli anni di carcere di Fermin. Quello che Daniel scoprirà non rimarrà senza effetti sulla sua vita, molte domande rimaste in sospeso avranno una risposta e lui si troverà in mano, inaspettatamente, la possibilità di vendicarsi.<br />
</span></span><br />
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<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>INCIPIT:</b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"> <i> Barcellona, dicembre 1957<br />
<br />
Quell’anno, prima di Natale, ci toccarono soltanto giorni plumbei e ammantati di brina. Una penombra azzurrata avvolgeva la città e la gente camminava in fretta coperta fino alle orecchie, disegnando con il fiato veli di vapore nell’aria gelida. Erano pochi coloro che in quei giorni si fermavano a guardare la vetrina di Sempere e Figli, e ancora meno quelli che si avventuravano a entrare per chiedere di quel libro sperduto che li aveva aspettati per tutta la vita, e la cui vendita, poesie a parte, avrebbe contribuito a rappezzare le precarie finanze della libreria.<br />
“Sento che oggi sarà il giorno giusto. Oggi cambierà la nostra sorte” proclamai sulle ali del primo caffè della giornata, puro ottimismo allo stato liquido.<br />
Mio padre, che battagliava dalle otto di quella mattina con il registro della contabilità destreggiandosi abilmente con gomma e matita, alzò gli occhi dal bancone e osservò la sfilata di clienti mancati che si perdevano dietro l’angolo.<br />
“Il cielo ti ascolti, Daniel, perché di questo passo, se va male la campagna di Natale, a gennaio non avremo nemmeno i soldi per la bolletta della luce. Qualcosa dovremo pur fare.”<br />
“Ieri Fermìn ha avuto un’idea” dissi. “Secondo lui, è un piano magistrale per salvare la libreria dalla bancarotta imminente.”<br />
“Che Dio ci colga confessati e comunicati.”<br />
Citai testualmente:<br />
“Magari, se mi mettessi a decorare la vetrina in mutande, qualche femmina avida di letteratura e di emozioni forti entrerebbe a spendere soldi, perché, dicono gli esperti, il futuro della letteratura dipende dalle donne e Dio sa che non ancora nata una signorina in grado di resistere all’attrazione agreste di questo corpo da montanaro” recitai.<br />
Sentii alle mie spalle la matita di mio padre cadere a terra e mi voltai.<br />
“Fermin dixit” aggiunsi.<br />
Avevo pensato che mio padre avrebbe sorriso della travata di Fermìn, ma quando mi accorsi che non sembrava risvegliarsi dal suo silenzio lo guardai di sottecchi. Sempere senior non solo non sembrava divertito da quello sproposito, ma aveva assunto n’espressione meditabonda, come se volesse prenderlo sul serio.<br />
“Ma tu guarda, magari Fermìn ci ha azzeccato” mormorò.<br />
Lo osservai incredulo. Forse le difficoltà economiche che ci avevano colpito nelle ultime settimane avevano finito per compromettere il senno del mio progenitore.<br />
“Non mi dire che gli permetterai di andare a spasso in mutande in libreria.”<br />
“No, non è questo. E’ la vetrina. Mentre parlavi, mi è venuta un’idea…Forse siamo ancora in tempo a salvare il Natale…”<br />
Lo vidi scomparire nel retrobottega e riemergere equipaggiato con la sua uniforme ufficiale per l’inverno: lo stesso cappotto, la stessa sciarpa e lo stesso cappello che ricordavo da bambino. Bea diceva di sospettare che mio padre non comprasse vestiti dal 1942, e tutti gli indizi portavano a ritenere che mia moglie avesse ragione. Mentre si infilava i guanti, sorrideva vagamente e nei suoi occhi si percepiva quello scintillio quasi infantile che riuscivano a strappargli solo le grandi imprese.<br />
“Ti lascio da solo per un po’” annunciò. “ Esco a fare una commissione”.<br />
“Posso chiederti dove stai andando?”<br />
Mio padre mi fece l’occhiolino.<br />
“E’ una sorpresa. Poi vedrai.”<br />
Lo seguii fino alla porta e lo vidi partire a passo fermo in direzione della Puerta del Angel, una sagoma fra le tante nella marea grigia di passanti che navigava per un altro lungo inverno di cenere e d’ombra.<br />
<br />
Approfittando del fatto di essere rimasto solo, decisi di accendere la radio per assaporare un po’ di musica mentre riordinavo con calma i libri sugli scaffali. Mio padre era dell’opinione che tenere la radio accesa in libreria quando c’erano clienti fosse di cattivo gusto; se invece la accendevo in presenza di Fermìn, lui si lanciava a canticchiare strofette sulla musica di qualunque melodia – o, peggio ancora, a ballare ciò che definiva “ sensuali ritmi caraibici” – e dopo pochi minuti mi faceva venire i nervi a fior di pelle.<br />
Tenuto conto di quelle difficoltà pratiche, ero arrivato alla conclusione che avrei dovuto limitare il piacere procuratomi dalle onde hertziane ai rari momenti in cui in negozio, a parte me e svariate decine di migliaia di libri, non c’era più nessuno. <br />
Quella mattina Radio Barcelona trasmetteva la registrazione pirata, fatta da un collezionista, del magnifico concerto che il trombettista Louis Armstrong e il suo gruppo avevano tenuto tre Natali prima all’Hotel Windsor Palace della Diagonal. Negli intervalli pubblicitari, il conduttore si affannava a etichettare quei suoni come gez e avvertiva che alcune delle loro sincopi procaci potevano non essere adatte alle orecchie dell’ascoltatore nazionale, forgiato nella tonadilla, nel bolero e nell’incipiente movimento yè-yè che dominavano le trasmissioni di quegli anni.<br />
Fermìn era solito dire che, se don Isaac Albèniz fosse nato negro, il jazz sarebbe stato inventato a Camprodòn, come i biscotti in scatola, e che, al pari dei reggiseni a punta che sfoggiava la sua adorata Kim Novak in qualcuno dei film che vedevamo ai matinè del cinema Fèmina, quei suoni costituivano una delle rare conquiste dell’manità a partire dall’inizio del XX secolo. Non l’avrei contraddetto. Lasciai trascorrere il resto della mattinata tra la magia di quella musica e il profumo dei libri, assaporando la serenità e al soddisfazione procurata da un lavoro fatto bene.<br />
A quanto aveva affermato, Fermìn si era preso la mattina libera per ultimare i preparativi del matrimonio con Bernarda, previsto per l’inizio di febbraio. Quando ne aveva parlato, due settimane prima, gli avevamo detto tutti che stava precipitando le cose e che la fretta è una brutta bestia. Mio padre aveva cercato di convincerlo a rimandare quell’unione di almeno un paio di mesi, argomentando che di solito le nozze si svolgevano d’estate, con il bel tempo, ma Fermìn aveva insistito su quella data sostenendo che lui, esemplare abituato all’inclemente clima secco delle colline dell’Estremadura, sudava a profusione durante l’estate, a suo giudizio semitropicale, della costa mediterranea e non riteneva conforme alle buone regole celebrare matrimonio con chiazze di sudore grandi come tegami sotto le ascelle.<br />
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<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"><i><br />
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</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>GENERE</b>: Romanzo di formazione</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>TRAMA:</b></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"> Un pastorello andaluso, Santiago, ha un grande desiderio: viaggiare. Si mette in viaggio per Tarifa dove una zingara lo invita a raggiungere le piramidi d'Egitto, dove troverà un tesoro. Derubato di ogni suo avere a Tangeri, è costretto a lavorare presso il mercato dei Cristalli. Raccolti i soldi necessari si rimette in viaggio verso le piramidi, dove incontra un cavaliere che gli comunica che il tesoro è in Spagna.</span></span><br />
<br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>INCIPIT:</b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"> <i> PROLOGO<br />
L'Alchimista prese un libro, portato da qualcuno della carovana. Il volume era privo di copertina, ma lui riuscì a identificarne l'autore: Oscar Wilde.<br />
Mentre sfogliava le pagine, trovò una storia su Narciso.<br />
L'Alchimista conosceva la leggenda di Narciso, un bel giovane che tutti i giorni andava a contemplare la propria bellezza in un lago. Era talmente affascinato da se stesso che un giorno scivolò e morì annegato. Nel punto in cui cadde nacque un fiore, che fu chiamato narciso.<br />
Ma non era così che Oscar Wilde concludeva la storia.<br />
Egli narrava invece che, quando Narciso morì, accorsero le Oreadi - le ninfe del bosco - e videro il lago trasformato da una pozza di acqua dolce in una brocca di lacrime salate.<br />
Perché piangi? domandarono le Oreadi. Piango per Narciso, disse il lago.<br />
Non ci stupisce che tu pianga per Narciso, soggiunsero. Infatti, mentre noi tutte lo abbiamo sempre rincorso per il bosco, tu eri l'unico ad avere la possibilità di contemplare da vicino la sua bellezza.<br />
Ma Narciso era bello? domandò il lago.<br />
Chi altri meglio di te potrebbe saperlo? risposero, sorprese, le Oreadi. In fin dei conti, era sulle tue sponde che Narciso si sporgeva tutti i giorni.<br />
Il lago rimase per un po' in silenzio. Infine disse:<br />
Io piango per Narciso, ma non mi ero mai accorto che fosse bello. Piango per Narciso perché, tutte le volte che lui si sdraiava sulle mie sponde, io potevo vedere riflessa nel fondo dei suoi occhi la mia bellezza. Che bella storia, disse l'Alchimista.<br />
<br />
PRIMA PARTE<br />
Il ragazzo si chiamava Santiago. Stava cominciando a imbrunire quando giunse con il suo gregge davanti a una vecchia chiesa abbandonata. Il tetto era crollato da tempo e un enorme sicomoro era cresciuto nel luogo dove una volta sorgeva la sacrestia.<br />
Decise di trascorrere la notte in quel luogo. Fece entrare tutte le pecore dalla porta in rovina e poi dispose alcune tavole di legno perché non<br />
potessero fuggire durante la notte. Non c'erano lupi in quella zona, ma una volta un animale era scappato e c'era voluta un'intera giornata perché lo ritrovasse.<br />
Mise per terra la giacca e si sdraiò, usando come guanciale il libro che aveva appena finito di leggere. Prima di addormentarsi, pensò che doveva cominciare a leggere libri un po' più voluminosi: ci sarebbe voluto più tempo a finirli ed erano guanciali più comodi per la notte.<br />
Era ancora buio quando si svegliò. Guardò in alto e, attraverso il soffitto semidistrutto, intravide le stelle che brillavano.<br />
Vorrei dormire ancora un po', pensò. Aveva fatto lo stesso sogno della settimana precedente e, di nuovo, si era svegliato prima della sua conclusione.<br />
Si alzò e bevve un sorso di vino. Poi afferrò il bastone e cominciò a<br />
svegliare le pecore che ancora dormivano. Aveva notato che, appena si destava lui, anche la maggior parte delle bestie cominciava a svegliarsi. Come se vi fosse una misteriosa energia che univa la sua vita a quella delle pecore che da due anni percorrevano insieme con lui la regione, in cerca di cibo e di acqua. Ormai si sono tanto abituate a me che conoscono i miei orari, mormorò sottovoce. Poi, riflettendo, pensò che poteva essere anche il contrario: forse era lui che si era abituato all'orario delle pecore.<br />
Ce n'erano alcune, però, che impiegavano un po' più di tempo a muoversi. Il ragazzo le risvegliò a una a una con il suo bastone, chiamandole per nome. Era convinto che le pecore fossero in grado di capire ciò che lui diceva: perciò ogni tanto usava leggere loro i brani di quei libri che lo avevano colpito, o parlar loro della solitudine e della gioia di un pastore in mezzo alla campagna, oppure commentare le ultime novità che osservava nelle città per cui soleva passare.<br />
Negli ultimi giorni, tuttavia, il suo argomento era stato praticamente uno solo: la giovinetta, figlia del commerciante, che viveva nella città dove sarebbe giunto di lì a quattro giorni. C'era già stato solo una volta, l'anno precedente. Il commerciante, che possedeva una bottega di tessuti, gradiva sempre che le pecore fossero tosate davanti ai suoi occhi, per evitare imbrogli. Un amico gli aveva indicato quella bottega, e il pastore vi aveva portato le sue pecore.<br />
Ho bisogno di vendere un po' di lana, aveva detto al commerciante.<br />
Il negozio era pieno e l'uomo gli aveva chiesto di aspettare fino all'imbrunire. Lui, allora, si era seduto lì davanti sul marciapiede e aveva tirato fuori dalla bisaccia un libro.<br />
Non pensavo che i pastori sapessero leggere, aveva detto allora una voce femminile accanto a lui.<br />
Era una ragazza tipica della regione andalusa, con i lunghi capelli neri e gli occhi che ricordavano vagamente gli antichi conquistatori mori.<br />
Perché le pecore insegnano più dei libri, aveva risposto il ragazzo. Si erano trattenuti a parlare per più di due ore. Lei gli aveva detto di essere la figlia del commerciante, parlandogli poi della vita nel paese, dove ogni giorno era uguale all'altro. Il pastore le aveva raccontato delle campagne dell'Andalusia, delle ultime novità che aveva notato nelle città dove era passato. Era contento perché, per una volta, poteva parlare con qualcuno, a parte le pecore.<br />
Come hai imparato a leggere? gli aveva domandato la ragazza a un certo punto. Come tutti gli altri, aveva risposto lui. A scuola.<br />
E allora, se sai leggere, perché sei soltanto un pastore?<br />
Il ragazzo aveva accennato una scusa qualunque per non rispondere a quella domanda: lei, certo, non avrebbe potuto capirlo. Aveva continuato a raccontare le sue storie di viaggi, mentre quegli occhietti mori si aprivano e si chiudevano per la meraviglia e la sorpresa. Via via che il tempo passava, il ragazzo aveva cominciato a desiderare che quel giorno non avesse mai fine, che il padre di lei fosse occupato ancora per lungo tempo e lo facesse attendere<br />
tre giorni. Si era reso conto che stava provando qualcosa che non aveva mai sentito prima di allora: il desiderio di fermarsi per sempre in una città.<br />
Con quella giovinetta dai capelli neri, i giorni non sarebbero stati mai uguali.<br />
Ma infine il commerciante era arrivato e gli aveva detto di tosare quattro pecore. Poi gli aveva pagato il dovuto e chiesto di tornare l'anno dopo.<br />
Ora mancavano solo quattro giorni perché facesse ritorno a quel villaggio. Era eccitato e, al tempo stesso, insicuro: forse la giovinetta lo aveva dimenticato. Da quelle parti passavano tanti pastori a vendere la lana.<br />
Non ha importanza, disse il ragazzo alle pecore. Anch'io conosco altre giovani in altre città.<br />
Ma, in fondo al cuore, sentiva invece che quello era importante. Perché anche i pastori, come i marinai o come i commessi viaggiatori, sanno che c'è sempre una città dove esiste qualcuno capace di far loro dimenticare la gioia di vagare liberamente per il mondo.<br />
Il giorno cominciò a rischiararsi e il pastore guidò le pecore in direzione<br />
del sole. Loro non hanno mai bisogno di prendere alcuna decisione, pensò. Ecco perché, forse, rimangono sempre con me. L'unica necessità che le pecore sentivano era di un po' d'acqua e di un po' di cibo. Fino a quando il ragazzo avesse conosciuto i pascoli migliori dell'Andalusia, le pecore gli sarebbero state sempre amiche. Anche se i giorni erano tutti uguali, fatti di lunghe ore che si trascinavano fra il sorgere e il tramontare del sole. E tutto ciò anche se non avevano mai letto un solo libro nelle loro brevi vite, e non conoscevano la lingua degli uomini che portava le novità nei paesi. Si accontentavano di acqua e cibo, e ciò bastava. In cambio, offrivano generosamente la loro lana, la loro compagnia e, di tanto in tanto, la loro carne.<br />
Se oggi diventassi un mostro e decidessi di ammazzarle una dopo l'altra, lo capirebbero soltanto dopo che fosse stato sterminato quasi tutto il gregge, pensò il ragazzo. Perché si fidano di me, mentre non si fidano più del loro istinto. Solo perché io le conduco al nutrimento e all'acqua.<br />
</i></span></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"><i><br />
</i></span></span><br />
<div id="fb-root"></div><script src="http://connect.facebook.net/en_US/all.js#appId=130105987065730&xfbml=1">
</script><fb:like font="" href="http://librandoci.blogspot.com/2012/02/lalchimista.html" send="true" show_faces="true" width="450"></fb:like>LibrandoCIhttp://www.blogger.com/profile/16529616996313456992noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6435825165576447406.post-9663017071166735202012-02-20T05:38:00.000-08:002012-02-20T05:44:33.774-08:00Il gabbiano Jonathan Livingston<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhPij0TE6JA8i19bukhlqDARonaKaIQhOfqSMf2LfHeGt4DpIo4Oy5yK3HrEIsXRF-ediz9oUCSNf7YRch_gIY9rwDwt1YrmlsQzIibuIchYk7NtEQTKZXvQRTOXZ_aZxY7GglyBg_oHLN7/s1600/il-gabbiano-jonathan-livingston-di-richard-bach.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhPij0TE6JA8i19bukhlqDARonaKaIQhOfqSMf2LfHeGt4DpIo4Oy5yK3HrEIsXRF-ediz9oUCSNf7YRch_gIY9rwDwt1YrmlsQzIibuIchYk7NtEQTKZXvQRTOXZ_aZxY7GglyBg_oHLN7/s200/il-gabbiano-jonathan-livingston-di-richard-bach.jpg" width="119" /></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>AUTORE</b>: <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Richard_Bach" target="_blank">Richard Bach</a></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>GENERE</b>: Romanzo di formazione</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>TRAMA:</b></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"> “Ciascuno di noi è, in verità, un’immagine del Grande Gabbiano, un’infi nita idea di libertà, senza limiti.” E anche: “Mai ti si concede un desiderio senza che inoltre ti sia concesso il potere di farlo avverare”. Sono le celebri folgorazioni di Richard Bach, contenute nello scrigno d’oro del suo capolavoro. Come Siddharta di Hesse o Il piccolo Principe di Saint-Exupéry, Il gabbiano Jonathan Livingston non è un semplice romanzo, una insuperabile fi aba che da decenni incanta i lettori. È molto di più: un manuale per liberarsi dalle costrizioni interne ed esterne, un sussidio per la propria libertà interiore e per una vita vissuta con la serenità di chi ha compreso l’infi nito mistero del mondo, l’entusiasmo che mette le ali, secondo una parabola che potrebbe essere considerata come un vangelo moderno: “D’ora in poi vivere qui sarà più vario e interessante... Noi avremo una nuova ragione di vita. Ci solleveremo dalle tenebre dell’ignoranza, ci accorgeremo di essere creature di grande intelligenza e abilità. Saremo liberi! Impareremo a volare!”. <br />
</span></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>INCIPIT:</b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"> <i> Era di primo mattino,<br />
e il sole appena sorto luccicava tremolando sulle scaglie del mare appena increspato.<br />
A un miglio dalla costa un peschereccio arrancava verso il largo. E fu data la voce allo Stormo. E in men che non si dica tutto lo Stormo Buonappetito si adunò, si diedero a giostrare ed accanirsi per beccare qualcosa da mangiare. Cominciava così una nuova dura giornata.<br />
Ma lontano di là soletto, lontano dalla costa e dalla barca, un gabbiano si stava allenando per suo conto: era il gabbiano Jonathan Livingston. Si trovava a una trentina di metri d’altezza: distese le zampette palmate, aderse il becco, si tese in uno sforzo doloroso per imprimere alle ali una torsione tale da consentirgli di volare lento. E infatti rallentò tanto che il vento divenne un fruscìo lieve intorno a lui, tanto che il mare ristava immoto sotto le sue ali. Strinse gli occhi, si concentrò intensamente, trattenne il fiato, compì ancora uno sforzo per accrescere solo... d’un paio... di centimetri... quella... penosa torsione e... D’un tratto gli si arruffano le penne, entra in stallo e precipita giù.<br />
I gabbiani, lo sapete anche voi, non vacillano, non stallano mai. Stallare, scomporsi in volo, per loro è una vergogna, è un disonore.<br />
Ma il gabbiano Jonathan Livingston – che faccia tosta, eccolo là che ci riprova ancora, tende e torce le ali per aumentarne la superficie, vibra tutto nello sforzo e patapunf stalla di nuovo – no, non era un uccello come tanti.<br />
La maggior parte dei gabbiani non si danno la pena di apprendere, del volo, altro che le nozioni elementari: gli basta arrivare dalla costa a dov’è il cibo e poi tornare a casa. Per la maggior parte dei gabbiani, volare non conta, conta mangiare. A quel gabbiano lì, invece, non importava tanto procurarsi il cibo, quanto volare. Più d’ogni altra cosa al mondo, a Jonathan Livingston piaceva librarsi nel cielo.<br />
Ma a sue spese scoprì che, a pensarla n quel modo, non è facile poi trovare amici, fra gli altri uccelli. E anche i suoi genitori arano afflitti a vederlo così: che passava giornate intere tutto solo, dietro i suoi esperimenti, quei suoi voli planati a bassa quota, provando e riprovando.<br />
Non sapeva spiegarsi perché, ad esempio, quando volava basso sull’acqua, a un’altezza inferiore alla metà della sua apertura alare, riusciva a sostenersi più a lungo nell’aria e con meno fatica. Concludeva la planata, lui, mica con quel solito tuffo a zampingiù nel mare, bensì con una lunga scivolata liscia liscia, sfiorando la superficie con le gambe raccolte contro il corpo, in un tutto aerodinamico. Quando poi si diede a eseguire planate con atterraggio a zampe retratte anche sulla spiaggia (e a misurare quindi, coi suoi passi, la lunghezza di ogni planata) i suoi genitori si mostrarono molto ma molto sconsolati.<br />
“Ma perché, Jon, perché?” gli domandò sua madre. “Perché non devi essere un gabbiano come gli altri, Jon? Ci vuole tanto poco! Ma perché non lo lasci ai pellicani il volo radente? agli albatri? E perché non mangi niente? Figlio mio, sei ridotto penne e ossa!”<br />
“Non m’importa se sono penne e ossa, mamma. A me importa soltanto imparare che cosa si può fare su per aria, e cosa no: ecco tutto. A me preme soltanto di sapere.”<br />
“Sta’ un po’ a sentire, Jonathan” gli disse suo padre, con le buone. “Manca poco all’inverno. E le barche saranno pochine, e i pesci nuoteranno più profondi, sotto il pelo dell’acqua. Se proprio vuoi studiare, studia la pappatoria e il modo di procurartela! ‘Sta faccenda del volo è bella e buona, ma mica puoi sfamarti con la planata, dico bene? Non scordarti, figliolo, che si vola per mangiare.”<br />
Jonathan assentì, obbediente. Nei giorni successivi cercò quindi di comportarsi come gli altri gabbiani. Ci si mise di buona volontà. E, gettando strida, giostrava, torneava anche lui con lo Stormo intorno ai moli, intorno ai pescherecci, tuffandosi a gara per acchiappare un pezzo di pane, un pesciolino, qualche avanzo. Ma a un certo punto non ne poté più.<br />
Tutto questo non ha senso, si disse: e lasciò cadere, apposta, un’acciuga duramente conquistata, se la pappasse quel vecchio gabbiano affamato che lo seguiva. Qui perdo tempo, quando potrei impiegarlo invece a esercitarmi! Ci sono tante cose da imparare!<br />
Non andò molto, infatti, che Jonathan piantò lo Stormo e tornò solo, sull’alto mare, a esercitarsi, affamato e felice.<br />
Adesso studiava velocità e, in capo a una settimana di allenamenti, ne sapeva di più, su questa materia, del più veloce gabbiano che c’era al mondo.<br />
Eccolo a circa trecento metri d’altezza che, battendo le ali a più non posso, si butta in picchiata: una picchiata vertiginosa verso le onde. A questo punto capisce perché ai gabbiani questa manovra, a tutta velocità, non può riuscire. In appena sei secondi, uno tocca le settanta miglia all’ora: velocità alla quale l’ala d’un uccello non è più stabile, nella fase ascendente.<br />
Ci si era provato più volte, ma sempre con lo stesso risultato. Pur mettendoci il massimo impegno, perdeva sempre il controllo, a una velocità così elevata.<br />
Saliva a quota trecento. Avanti dritto, a tutta birra, prima. Poi scivolata nell’aria. E giù in picchiata. Niente! Ogni santa volta l’ala sinistra andava in stallo nella fase ascendente, lui veniva spostato con violenza a mano manca, stallava con la destra per cercare di riprendersi e, trac, cadeva in vite.<br />
Non riusciva a metterci sufficiente attenzione, al momento in cui dava quel colpo d’ala ascendente. Dieci volte ci aveva provato e ogni volta, appena toccate le settanta miglia orarie, si trasformava in una trottola di penne e, perduto il dominio dell’aria, tonfava nell’acqua.<br />
Il trucco – gli balenò alla fine in mente, quand’era ormai fradicio – consiste nel tener le ali ferme. Sì: remeggiare finché non sei sulle cinquanta miglia, poi tener salde le ali.<br />
Salì a quota seicento e riprovò. Si buttò in picchiata, becco diritto in giù, ali tutte aperte, appena toccate le cinquanta, spiegate e ferme. Occorreva una forza tremenda, ma il trucco riusciva. Nello spazio di dieci secondi, era sfrecciato a novanta miglia l’ora. Jonathan aveva stabilito il record mondiale di velocità dei gabbiani!<br />
Ma il suo trionfo fu di breve durata. Nell’istante in cui s’accinse a risalire, nell’istante in cui mutò l’angolazione delle ali, perse disastrosamente il controllo, frullò e divenne un turbinìo di penne. Come prima: solo che, a novanta, fu un effetto-dinamite. E Jonathan espose in aria. Piombò in mare. In un mare duro come il granito.<br />
</i></span></span><br />
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</script><fb:like font="" href="http://librandoci.blogspot.com/2012/02/il-gabbiano-jonathan-livingston.html" send="true" show_faces="true" width="450"></fb:like>LibrandoCIhttp://www.blogger.com/profile/16529616996313456992noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6435825165576447406.post-61501553687132190962012-02-16T06:25:00.002-08:002012-02-16T06:27:37.945-08:00Uomini che odiano le donne<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi6VEXBovdZ0iHOISUs1ZNNZeFU6zlvDul4aLVhLI-1zaXGXqThLSsJr3-88oHjf5gwfKSmLlIH92NbwW-5ARXEwk-bfq_XeeqxWI73ejUYrQmseMR3dy7ANgUqyRtxmSmTvsC7sEPCDXMl/s1600/uomini-che-odiano-le-donne.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi6VEXBovdZ0iHOISUs1ZNNZeFU6zlvDul4aLVhLI-1zaXGXqThLSsJr3-88oHjf5gwfKSmLlIH92NbwW-5ARXEwk-bfq_XeeqxWI73ejUYrQmseMR3dy7ANgUqyRtxmSmTvsC7sEPCDXMl/s200/uomini-che-odiano-le-donne.jpg" width="131" /></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>AUTORE</b>: <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Stieg_Larsson" target="_blank">Stieg Larsson</a></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>GENERE</b>: Romanzo Thriller</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>TRAMA:</b></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"> Sono passati molti anni da quando Harriet, nipote prediletta del potente industriale Henrik Vanger, è scomparsa senza lasciare traccia. Da allora, ogni anno l'invio di un dono anonimo riapre la vicenda, un rito che si ripete puntuale e risveglia l'inquietudine di un enigma mai risolto. Ormai molto vecchio, Henrik Vanger decide di tentare per l'ultima volta di fare luce sul mistero che ha segnato tutta la sua vita. L'incarico di cercare la verità è affidato a Mikael Blomkvist: quarantenne di gran fascino, Blomkvist è il giornalista di successo che guida la rivista Millennium, specializzata in reportage di denuncia sulla corruzione e gli affari loschi del mondo imprenditoriale. Sulle coste del Mar Baltico, con l'aiuto di Lisbeth Salander, giovane e abilissima hacker, indimenticabile protagonista femminile al suo fianco ribelle e inquieta, Blomkvist indaga a fondo la storia della famiglia Vanger. E più scava, più le scoperte sono spaventose.<br />
</span></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>INCIPIT:</b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"><i>Prologo <br />
Venerdì 1 novembre<br />
<br />
Era diventato un rito che si ripeteva ogni anno. Il destinatario del fiore ne compiva stavolta ottantadue. Quando il fiore arrivò, aprì il pacchetto e lo liberò della carta da regalo in cui era avvolto. Quindi sollevò il ricevito- re e compose il numero di un ex commissario di pubblica sicurezza che dopo il pensionamento era andato a stabilirsi sulle rive del lago Siljan. I due uomini non erano solo coetanei, ma erano anche nati nello stesso giorno - fatto che in quel contesto poteva essere considerato come una sorta d'ironia. Il commissario, che sapeva che la telefonata sarebbe arrivata dopo la distribuzione della posta delle undici, nell'attesa stava bevendo un caffè. Quest'anno il telefono squillò già alle dieci e trenta. Lui alzò la cornetta e disse ciao senza nemmeno presentarsi.<br />
«È arrivato.»<br />
«Cos'è, questa volta?»<br />
«Non so che genere di fiore sia. Lo farò identificare. È bianco.» «Nessuna lettera, suppongo?»<br />
«No. Nient'altro che il fiore. La cornice è la stessa dell'anno scorso. Una<br />
di quelle cornici da poco che uno si monta da solo.» «Timbro postale?»<br />
«Stoccolma.»<br />
«Calligrafia?»<br />
«Come al solito, stampatello, tutte maiuscole. Lettere dritte e ordinate.»<br />
Con ciò l'argomento era stato esaurito e i due rimasero seduti qualche minuto in silenzio, ognuno dalla sua parte della linea telefonica. Il com- missario in pensione si lasciò andare contro lo schienale della sedia davan- ti al tavolo della cucina, succhiando la pipa. Sapeva comunque che non ci si aspettava più che ponesse qualche domanda risolutiva oppure iperintel- ligente, in grado di gettare nuova luce sulla faccenda. Quel tempo era passato da un pezzo, e la conversazione fra i due anziani conoscenti aveva piuttosto il carattere di un rituale intorno a un mistero che nessun altro essere umano al mondo aveva il benché minimo interesse a risolvere.<br />
Il suo nome latino era Leptospermum (Myrtaceae) Rubinette. Si trattava di un arbusto piuttosto anonimo dotato di piccole foglie simili a quelle dell'erica, che produceva un fiore di due centimetri con una corolla di cinque petali. Era alto grossomodo dodici centimetri.<br />
La pianta era originaria delle regioni montuose e del bush australiani, dove cresceva in robusti agglomerati. In Australia la chiamavano Desert Snow. Più avanti, un'esperta del giardino botanico di Uppsala avrebbe constatato che si trattava di una pianta insolita, raramente coltivata in Svezia. Nella sua perizia, la studiosa scriveva che l'arbusto era imparentato con il Leptospermum Flavescens, e che sovente era confuso con il ben più comune cugino Leptospermum Scoparium, che cresceva abbondante in Nuova Zelanda. La differenza, a detta dell'esperta, consisteva nel fatto che il Rubinette presentava un piccolo numero di microscopici puntini rosa sulle punte dei petali, che conferivano al fiore una vaga sfumatura rosata.<br />
Il Rubinette era, in definitiva, un fiore sorprendentemente modesto. Era privo di valore commerciale. Non possedeva proprietà medicamentose note né effetti allucinogeni. Non si poteva mangiare, era inutilizzabile come spezia e senza utilità nella fabbricazione di coloranti vegetali. Per contro aveva una certa importanza per gli abitanti originari dell'Australia, gli aborigeni, che tradizionalmente consideravano la zona intorno ad Ayers Rock e la relativa flora come sacre. L'unico scopo della pianta sulla terra sembrava di conseguenza essere quello di fare omaggio della sua capricciosa bellezza all'ambiente circostante.<br />
Nella sua perizia, la botanica di Uppsala constatava che se quel piccolo arbusto era poco comune in Australia, in Scandinavia era addirittura raro. Personalmente non ne aveva mai visto un esemplare, ma dopo un'indagine fra i colleghi era venuta a sapere che erano stati fatti dei tentativi di introdurre la pianta in un giardino di Göteborg, e che si immaginava venisse coltivata privatamente in luoghi diversi, da appassionati di giardinaggio e botanici dilettanti dotati di piccole serre. Era difficile da coltivare in Svezia perché esigeva un clima mite e secco, e doveva essere ricoverata al chiuso durante i mesi invernali. Non tollerava il terreno calcareo ed esigeva annaffiature dal basso, direttamente sulla radice. Era una pianta per coltivatori esperti.<br />
<br />
Questo fatto che si trattasse di un fiore raro in Svezia avrebbe dovuto, in teoria, rendere più facile rintracciare l'origine di quello specifico esemplare, ma in pratica era un'impresa impossibile. Non esistevano registri da<br />
consultare o licenze da esaminare. Non c'era nessuno che sapesse quanti coltivatori privati si fossero cimentati in generale nell'impresa di cercare di ottenere un fiore così difficile. Poteva trattarsi di tutto, da qualche singolo entusiasta a diverse centinaia di appassionati di giardinaggio con a disposizione semi oppure piante. Che potevano essere stati acquistati privatamen- te oppure tramite ordine postale da qualche altro coltivatore o giardino botanico di qualsiasi parte d'Europa. La pianta poteva perfino essere stata procurata direttamente durante qualche viaggio in Australia. Cercare di identificare proprio quel coltivatore specifico fra i milioni di svedesi che hanno una piccola serra oppure un vaso alla finestra del soggiorno sarebbe stata, in altre parole, un'impresa disperata.<br />
Il fiore era solamente l'ultimo di una lunga serie di sconcertanti omaggi che arrivavano regolarmente dentro una busta imbottita il primo di novembre. Il genere variava ogni anno, ma si trattava sempre di fiori belli e relativamente rari. Al solito, il fiore era stato essiccato, montato con cura su carta da acquerello e messo sotto vetro in una cornice di tipo semplice nel formato 29 X 16 centimetri.<br />
Il mistero dei fiori non era mai stato reso pubblico, era noto solo a una cerchia ristretta di persone. Tre decenni prima, l'arrivo annuale del fiore era diventato oggetto di analisi presso il laboratorio della scientifica, fra esperti di impronte digitali e grafologi, fra investigatori della polizia, e in un gruppo di parenti e amici del destinatario. Attualmente gli attori del dramma si erano ridotti a tre: l'anziano festeggiato, il poliziotto in pensione e ovviamente la persona sconosciuta che inviava il regalo. Siccome almeno i primi due avevano raggiunto un'età così avanzata che ormai per loro era tempo di prepararsi all'inevitabile, la cerchia degli interessati si sarebbe presto ulteriormente ridotta.<br />
Il poliziotto in pensione era un temprato veterano. Non avrebbe mai dimenticato il suo primissimo intervento, che era consistito nell'arrestare un addetto alla cabina di comando dei segnali delle ferrovie, violento e ubriaco marcio, prima che questi causasse qualche guaio a se stesso o ad altri. Durante la sua carriera aveva messo dentro bracconieri, uomini che maltrattavano le mogli, imbroglioni, ladri d'auto e gente che guidava in stato d'ubriachezza. Aveva incontrato ladri, rapinatori, spacciatori, stupratori e almeno un dinamitardo più o meno pazzo. Aveva partecipato a nove inchieste per omicidio di varia natura. Cinque di queste erano state del genere in cui il colpevole stesso telefona alla polizia e, pieno di rimorsi, confessa di aver ammazzato la moglie o il fratello o qualche altro congiunto. Tre avevano richiesto un'indagine; due dei casi erano stati risolti nell'arco di qualche giorno, e uno dopo due anni con l'aiuto della polizia di stato.<br />
Il nono caso era stato risolto da un punto di vista poliziesco, ossia gli inquirenti sapevano chi era l'assassino, ma le prove erano così deboli che il procuratore aveva deciso di sospendere provvisoriamente le indagini. Col tempo e con grande indignazione del commissario, il reato era caduto in prescrizione. Però in generale poteva dirsi soddisfatto della sua lunga e felice carriera, e di ciò che era riuscito a realizzare.<br />
Invece era tutt'altro che soddisfatto.<br />
</i></span></span><br />
<div id="fb-root"></div><div id="fb-root"></div><script src="http://connect.facebook.net/en_US/all.js#appId=130105987065730&xfbml=1">
</script><fb:like font="" href="http://librandoci.blogspot.com/2012/02/uomini-che-odiano-le-donne.html" send="true" show_faces="true" width="450"></fb:like>LibrandoCIhttp://www.blogger.com/profile/16529616996313456992noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6435825165576447406.post-82708717142051155322012-02-14T04:18:00.000-08:002012-02-14T04:19:34.935-08:00Siddharta<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgYwl8mYwNPFTXv-UEryXa_ro073pzN9vylzZ90BwFwaeJf_wIEAR4xY3pS5osv1fT0mJc0KDXPVSjPyojVbs5MvswAAz6pAHCvWRd0Un91e8QQN-98op_p1tSCr-Yepfs-mnPWsSVA40tL/s1600/siddharta-hermann-hesse.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgYwl8mYwNPFTXv-UEryXa_ro073pzN9vylzZ90BwFwaeJf_wIEAR4xY3pS5osv1fT0mJc0KDXPVSjPyojVbs5MvswAAz6pAHCvWRd0Un91e8QQN-98op_p1tSCr-Yepfs-mnPWsSVA40tL/s200/siddharta-hermann-hesse.jpg" width="119" /></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>AUTORE</b>: <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Hermann_Hesse" target="_blank">Hermann Hesse</a></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>GENERE</b>: Romanzo di formazione</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>TRAMA:</b></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"> Chi è Siddharta? È uno che cerca, e cerca soprattutto di vivere intera la propria vita. Passa di esperienza in esperienza, dal misticismo alla sensualità, dalla meditazione filosofica alla vita degli affari, e non si ferma presso nessun maestro, non considera definitiva nessuna acquisizione, perché ciò che va cercato è il tutto, il misterioso tutto che si veste di mille volti cangianti. E alla fine quel tutto, la ruota delle apparenze, rifluirà dietro il perfetto sorriso di Siddharta, che ripete il "costante, tranquillo, fine, impenetrabile, forse benigno, forse schernevole, saggio, multirugoso sorriso di Gotama, il Buddha, quale egli stesso l'aveva visto centinaia di volte con venerazione". Siddharta è senz'altro l'opera di Hesse più universalmente nota.<br />
</span></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>INCIPIT:</b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"><i>IL FIGLIO DEL BRAHMINO<br />
Nell'ombra della casa, sulle rive soleggiate del fiume presso le barche,<br />
nell'ombra del bosco di Sal, all'ombra del fico crebbe Siddharta, il bel figlio del Brahmino, il giovane falco, insieme all'amico suo, Govinda, anch'egli figlio di Brahmino. Sulla riva del fiume, nei bagni, nelle sacre abluzioni, nei sacrifici votivi il sole bruniva le sue spalle lucenti. Ombre attraversavano i suoi occhi neri nel boschetto di mango, durante i giochi infantili, al canto di sua madre, durante i santi sacrifici, alle lezioni di suo padre, così dotto, durante le conversazioni dei saggi. Già da tempo Siddharta prendeva parte alle conversazioni dei saggi, si esercitava con Govinda nell'arte oratoria, nonché nello esercizio delle facoltà di osservazione e nella pratica della concentrazione interiore. Già egli sapeva come si pronuncia impercettibilmente 1'Om, la parola suprema, sapeva assorbirla in se stesso pronunciandola silenziosamente nell'atto di inspirare, sapeva emetterla silenziosamente nell'atto di espirare, con l'anima raccolta, la fronte raggiante dello splendore che emana da uno spirito luminoso. Già egli sapeva, nelle profondità del proprio essere, riconoscere l'Atman, indistruttibile, uno con la totalità del mondo.<br />
Il cuore del padre balzava di gioia per quel figlio così studioso, così avido di sapere; era un grande sapiente, un sommo sacerdote quello ch'egli vedeva svilupparsi in lui: un principe fra i Brahmini.<br />
La gioia gonfiava il petto di sua madre quand'ella lo guardava, quando lo vedeva camminare, quando lo vedeva sedere e alzarsi: Siddharta, così forte, così bello, che procedeva col suo passo snello, che la salutava con garbo così compìto.<br />
L'amore si agitava nel cuore delle giovani figlie dei Brahmini, quando Siddharta passava per le strade della città, con la sua fronte luminosa, con i suoi occhi regali, così slanciato e nobile nella persona.<br />
Ma più di tutti lo amava l'amico suo Govinda, il figlio del Brahmino.<br />
Amava gli occhi di Siddharta e la sua cara voce, amava il suo passo e il garbo perfetto dei movimenti, amava tutto ciò che Siddharta diceva e faceva, ma soprattutto ne amava lo spirito, i suoi alti, generosi pensieri, la sua volontà ardente, la vocazione sublime. Sapeva bene Govinda: questo non diventerà un Brahmino come ce n'è tanti, un pigro ministro di sacrifici, o un avido mercante d'incantesimi, un vano e vacuo retore, un prete astuto e cattivo, e non sarà nemmeno una buona, sciocca pecora nel gregge dei molti. No, e anch'egli, Govinda, non voleva diventare tale, un Brahmino come ce ne son migliaia. Voleva seguire Siddharta, il prediletto, il magnifico. E se un giorno Siddharta fosse diventato un dio, se fosse asceso un giorno nella gloria dei celesti, allora Govinda l'avrebbe seguìto, come suo amico, suo compagno, suo servo, suo scudiere, sua ombra.<br />
Così tutti amavano Siddharta. A tutti egli dava gioia, tutti ne traevano piacere.<br />
Ma egli, Siddharta, a se stesso non procurava piacere, non era di gioia a se stesso. <br />
Passeggiando sui sentieri rosati del frutteto, sedendo nell'ombra azzurrina del boschetto delle contemplazioni, purificando le proprie membra nel quotidiano lavacro di espiazione, celebrando i sacrifici nel bosco di mango dalle ombre profonde, con la sua perfetta compitezza d'atteggiamenti, amato da tutti, di gioia a tutti, pure non portava gioia in cuore. Lo assalivano sogni e pensieri irrequieti, portati fino a lui dalla corrente del fiume, scintillati dalle stelle della notte, dardeggiati dai raggi del sole; sogni lo assalivano, e un'agitazione dell'anima, vaporata dai sacrifici, esalante dai versi del RigVeda, stillata dalle dottrine dei vecchi testi brahminici.<br />
Siddharta aveva cominciato ad alimentare in sé la scontentezza. <br />
Aveva cominciato a sentire che l'amore di suo padre e di sua madre, e anche lo amore dell'amico suo,Govinda, non avrebbero fatto per sempre la sua eterna felicità, non gli avrebbero dato la quiete, non l'avrebbero saziato, non gli sarebbero bastati. Aveva cominciato a sospettare che il suo degnissimo padre e gli altri suoi maestri, cioè i saggi Brahmini, gli avevano già impartito il più e il meglio della loro saggezza, avevano già versato interamente i loro vasi pieni nel suo recipiente in attesa, ma questo recipiente non s'era riempito, lo spirito non era soddisfatto, l'anima non era tranquilla, non placato il cuore. Buona cosa le abluzioni,certo: ma erano acqua, non lavavano via il peccato, non guarivano la sete dello spirito, non scioglievano gli affanni del cuore. Eccellente cosa i sacrifici e la preghiera agli dèi: ma questo era tutto? Davano i sacrifici la felicità? E come stava questa faccenda degli dèi? Era realmente Prajapati che aveva creato il mondo? Non era invece 1'Atman, l'unico, il solo, il tutto? Che gli dèi non fossero poi forme create, come tu e io, soggette al tempo, caduche? Anzi, era poi bene, era giusto, era un atto sensato e sublime sacrificare agli dèi? A chi altri si doveva sacrificare, a chi altri si doveva rendere onore, se non a Lui, allo unico, all'Atman? E dove si poteva trovare 1'Atman, dove abitava, dove batteva il suo eterno cuore, dove altro mai se non nel più profondo del proprio io, in quel che di indistruttibile ógnuno porta in sé? Ma dove, dov'era questo Io, questa interiorità, questo assoluto? Non era carne e ossa, non era pensiero né coscienza: così insegnavano i più saggi. Dove, dove dunque era? Penetrare laggiù, fino all'lo, a me, all'Atman: c'era forse un'altra via che mettesse conto di esplorare? Ahimè! questa via nessuno la insegnava, nessuno la conosceva, non il padre, non i maestri e i saggi, non i pii canti dei sacrifici! Tutto sapevano i Brahmini e i loro libri sacri, tutto, e perfino qualche cosa di più; di tutto s'erano occupati, della creazione del mondo, della natura del linguaggio, dei cibi, dell'inspirare e dell'espirare, della gerarchia dei cinque sensi, dei fatti degli dèi ...cose infinite sapevano ... Ma valeva la pena saper tutto questo, se non si sapeva l'uno e il tutto, la cosa più importante di tutte, la sola cosa importante?<br />
Certo, molti versi dei libri santi, specialmente nelle Upanishad di Samaveda, parlavano di questa interiorità e di quest'assoluto; splendidi versi. « La anima tua è l'intero mondo »: così vi stava scritto. E vi stava scritto che l'uomo nel sonno, nel profondo sonno, penetra nel proprio Io e prende stanza nell'Atman. Meravigliosa saggezza stava in questi versi, tutta la scienza dei più saggi stava qui radunata in magiche parole, pura come miele. No, non si doveva certo far poco conto della prodigiosa conoscenza che qui era stata raccolta e conservata da innumerevoli genera- zioni di Brahmini. Ma dov'erano i saggi, dove i sacerdoti o i penitenti, ai quali fosse riuscito, non soltanto di conoscerla, questa profondissima scienza, ma di viverla? Dove era l'esperto che sapesse magicamente richiamare dal sonno allo stato di veglia l'esperienza dell'Atman, ricondur- la nella vita quotidiana, nella parola e nell'azione? Molti degni Brahmini conosceva Siddharta, suo padre prima di tutti, il puro, il dotto, degno sopra ogni altro. Ammirabile era suo padre, nobile e calmo il suo contegno, pura la sua vita, saggia la sua parola, squisiti e alti pensieri avevan dimora dietro la sua fronte... ma anche lui, che tanto sapeva, viveva forse nella beatitudine, possedeva la pace, non era anche lui soltanto un uomo che cerca, un assetato? Non doveva egli sempre riattingere, come un assetato, alle sacre fonti, sacrifici, libri, conversazioni dei Brahmini? Perché doveva anche lui, l'irreprensibile, purificarsi ogni giorno dal peccato, affannarsi per le abluzioni, sempre da capo, ogni giorno? Dunque non era in lui 1'Atman, non zampillava nel suo cuore la fonte originaria? Eppure era questa che bisognava trovare: scoprire la fonte originaria nel proprio Io, e impadronirsene! Tutto il resto era ricerca, era errore e deviazione.<br />
Tali erano i pensieri di Siddharta, questa era la sua sete, questo il suo tormento.<br />
</i></span></span><br />
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</script><fb:like font="" href="http://librandoci.blogspot.com/2012/02/siddharta.html" send="true" show_faces="true" width="450"></fb:like>LibrandoCIhttp://www.blogger.com/profile/16529616996313456992noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6435825165576447406.post-72046057759319158892012-02-11T01:29:00.000-08:002012-02-11T01:30:15.346-08:00Super Santos<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgQkY_pMLbHGHdN1dLoFYl7EhWT854gpShnFnulCHOTAsnZ54pFNYASGphOuVGMvTaiqdSVXTbR_6J3wPl6_tdKgZ7QUN4Eis2HuqWNfjs8L3gXKLsbS7TVVflrAv4vQAcQd_uQbTkAOVlT/s1600/Saviano-super-santos.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgQkY_pMLbHGHdN1dLoFYl7EhWT854gpShnFnulCHOTAsnZ54pFNYASGphOuVGMvTaiqdSVXTbR_6J3wPl6_tdKgZ7QUN4Eis2HuqWNfjs8L3gXKLsbS7TVVflrAv4vQAcQd_uQbTkAOVlT/s200/Saviano-super-santos.jpg" width="160" /></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>AUTORE</b>: <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Roberto_Saviano" target="_blank">Roberto Saviano</a></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>GENERE</b>: Romanzo di formazione</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>TRAMA:</b></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"> Quattro amici, quattro ragazzini che diventeranno uomini in una terrra in cui crescere è un lusso da pagare caro. La passione per il calcio vissuta nelle strade di Gomorra, inseguendo un pallone arancio fuoco. Roberto Saviano, ispirato da un vicenda realmente accaduta, mette in scena un racconto perfetto, preciso come una punizione messa a segno, straziante come un rigore sbagliato.<br />
</span></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>INCIPIT:</b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"> <i> E’ una regola eterna. Immutabile. E bisognerebbe riuscire a tovare una formula matematica. O quantomeno una riduzione numerica, una frase aritmetica, un tentativo di proporzione, un delirio logaritmico. Insomma, qualcosa che ne dimostri l’assoluta scientificità. Si dovrebbe trovare una traccia formale per poter comprendere i meccanismi ineluttabili e perenni che regolano le partite di calcio di strada. Il chiattone in porta, quello smilzo e veloce davanti, il robusto in difesa e quelli che restano a centrocampo. Lì possono andare tutti: quello che non i piedi buoni ma sa lanciare, quello che sa correre veloce ma ha il fiato corto, quello muscoloso ma non abbastanza stabile. Insomma, a centrocampo va messo quello che sa fare tutto a metà. Ora però rispetto a qualche anno fa ci sono delle varianti. Quando ero ragazzo i portieri erano i peggiori. E la porta era una punizione tra le più umilianti. Un posto dove vedere la partita da lontano e ricevere dolorose pallonate in faccia che ti segnavano in viso di rosso per settimane. Un ruolo che ti costringeva a raccogliere la colpa del gol subìto e a essere ignorato dagli abbracci del gol realizzato. Piuttosto che un giocatore, un portiere era un raccattapalle mobile. Un ruolo terribile. Spesso il posto del portiere era sopportato a turno, ma quando non si trovava nessuno da umiliare in porta, da poter soggiogare nelle retrovie, quando insomma tutti i giocatori erano capaci di tener testa, allora si sceglieva di giocare a “porta americana”. Senza portiere. Due squadre si fronteggiavano cercando di segnare in un’unica porta con nessuno a difenderla: a turno, la quadra difende o attacca, alternandosi nei ruoli dopo ogni gol. Non mi è chiao perché questa modalità sia stata definita all’americana.<br />
Una volta ero in macchina con un gruppo di ragazzi ubriachi, tornavamo da una festa e questi aprirono le quattro portiere dell’auto mentre correvano su una strada sterrata urlando “andiamo all’americana”.<br />
A Maddaloni c’è una pizzeria che serve pizze all’americana: su un piccolo treppiedi messo al centro del tavolo arrivano enormi ruote con diversi condimenti. Enormi, esagerate, “all’americana” appunto. Tutto quello che è strano e insensato o forse semplicemente fuori dal comune, come giocare senza portiere, mangiare una pizza enorme con sopra tutto, o rischiare da idioti un incidente mortale, viene definito “americano”.<br />
<br />
Oggi invece i portieri sono stati rivalutati. Ora sono campioni, hanno donne bellissime, vincono Palloni D’oro, hanno un ruolo decisivo, la loro non è una condizione obbligata perché non sanno fare altro. Così molti ragazzini scelgono di fare il portiere. I chiattoni della squadra non si sentono più esiliati nelle retrovie, ma prescelti per difendere l’ultimo baluardo.<br />
Nel centro storico di Napoli, tutti i ragazzini neri vanno in porta da quando il Milan ha acquistato un portiere brasiliano di colore, non proprio un campione, Dida.<br />
Un po’ come quei ragazzi che vengono dall’Argentina e godono di assoluta fiducia nelle proprie capacità sportive grazie a Maradona. Dopo la crisi argentina del 2000 che ha prosciugato i risparmi della piccola e media borghesia, sono sbarcati a Napoli molti argentini i cui antenati erano partiti cento anni prima dal Golfo. Ora i loro nipoti, dopo aver implorato nelle ambasciate italiane il passaporto di ritorno che i loro avi avrebbero strappato volentieri, sono tornati a abitare nei quartieri da cui erano fuggiti gli emigranti. Un percorso inverso che mai avrebbero immaginato di dover fare. I ragazzi dai cognomi italiani e nomi latinoamericani sono tornati a giocare per i vicoli dei loro trisavoli, a battere calci d’angolo sui piedi delle statue come i loro bisnonni. A quei ragazzini il solo provenire dalla terra di Maradona, il solo avere una cadenza simile a quella del Pibe de Oro basta a concedere subito un carisma infinito e una certezza di bravura. Anche se sono incapaci e brocchi.<br />
Il tocco – così al sud chiamiamo la conta che avviene tra i due capisquadra per scegliere i giocatori – è un vero laboratorio antropologico. I capisquadra sono i più bulli, non sempre i più bravi. Anzi, quasi mai lo sono. Ma sanno fare scivolate violente rovinando le caviglie, dare testate mirando al naso, sputare con una mira da cecchino e beccare sempre la pupilla ben aperta. Sono quelli che sanno farla pagare a chi buca il pallone o lo fa finire dietro ad una cancellata. Ma nel tocco non c’è abilità o bravura. Il tocco è determinato dall’arbitrio delle dita lanciate davanti alle pance: solo caso e fortuna. In genere il primo ad essere scelto è l’attaccante di talento, se però la squadra inizia a comporsi di brocchi, quella prima scelta diventa una condanna che non lascia alcuna speranza di vittoria. Allora spesso accade che mentre si compone la squadra, che può essere di tre, quattro, cinque o sei persone, il giocatore più forte si accorge chiaramente che il tocco gli è andato storto e il caposquadra sta scegliendo gli scarti. Così non gli rimane che gettarsi a terra e piangere. Sena vergogna alcuna, perché la vergogna di piangere nasce solo quando subisci uno schiaffo, ma piangere contro i destino del tocco è l’unico modo per tentare di rimischiare le dita e ricominciare da capo, e non c’è vergogna a protestare contro la cattiva sorte.<br />
Spesso non cambia nulla, ma a volte può capitare che qualcuno rimescoli tutto e tenti di rifare le squadre, pur di far cessare il pianto.<br />
<br />
</i></span></span><br />
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</script><fb:like font="" href="http://librandoci.blogspot.com/2012/02/super-santos.html" send="true" show_faces="true" width="450"></fb:like>LibrandoCIhttp://www.blogger.com/profile/16529616996313456992noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6435825165576447406.post-76217147481634464852012-02-09T03:28:00.000-08:002012-02-09T03:28:57.178-08:00Altà Fedeltà<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhsthY3NdzOZdF6S7y1uq0qfVscJjIAMOT_PFmaBDLgt_6s8Gh6WuLcUHsXpVNMxirCcYdnCVA61BHwk5y0K7mDAlmD-gNfh4nx3o5oLoPxNsCMSZazrfv835z2k8cCJG3D6hp2by6GlXhj/s1600/alta+fedelta%CC%80+2.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhsthY3NdzOZdF6S7y1uq0qfVscJjIAMOT_PFmaBDLgt_6s8Gh6WuLcUHsXpVNMxirCcYdnCVA61BHwk5y0K7mDAlmD-gNfh4nx3o5oLoPxNsCMSZazrfv835z2k8cCJG3D6hp2by6GlXhj/s1600/alta+fedelta%CC%80+2.jpg" /></a><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>AUTORE</b>: <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Nick_Hornby" target="_blank">Nick Hornby</a></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>GENERE</b>: Romanzo di formazione</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>TRAMA:</b></span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"> Le avventure, gli amori, le disillusioni e i sogni di un giovane londinese, amante della musica e abbandonato da una fidanzata. Una rappresentazione della gioventu di oggi che si rifiuta di diventare grande. <br />
</span></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>INCIPIT:</b></span><br />
<span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"> <i> Ecco, per stilare una classifica, le cinque più memorabili fregature di tutti i tempi, in ordine cronologico:<br />
1) Alison Ashworth 2) Penny Hardwick 3) Jackie Alien<br />
4) Charlie Nicholson 5) Sarah Kendrew.<br />
Ecco quelle che mi hanno ferito davvero. Ci vedi forse il tuo nome lì in mezzo, Laura? Ammetto che rientreresti fra le prime dieci, ma non c'è spazio per te fra le prime cinque; sono posti destinati a quel genere di umiliazioni e di strazi che tu semplicemente non sei in grado di appioppare. Questo forse suona più cattivo di quanto vorrei, ma il fatto è che noi siamo troppo cresciuti per rovinarci la vita a vicenda, e questo è un bene, non un male, per cui se non sei in classifica, non prenderla sul piano personale. Quei tempi sono passati, e che liberazione, cazzo; l'infelicità significava davvero qualcosa, allora. Adesso è solo una seccatura, un po' come avere il raffreddore o essere al verde. Se volevi veramente incasinarmi, dovevi arrivare prima.<br />
1. Alison Ashworth (1972)<br />
Quasi tutti i pomeriggi, ciondolavamo ai giardinetti che stavano proprio dietro casa mia. Vivevo nello Hertfordshire, ma avrebbe potuto benissimo trattarsi di un qualsiasi sobborgo inglese: il solito genere di sobborgo, col solito genere di giardi-<br />
netti - a tre minuti da casa, giusto dall'altra parte della strada, davanti a una breve fila di negozi (un supermercato VG, un giornalaio, un negozio di liquori). Niente ti aiutava a orientarti; se i negozi erano aperti (e chiudevano alle cinque e mezza, e all'una il giovedì, e per tutto il giorno la domenica), magari potevi andare dal giornalaio e dare un'occhiata al giornale locale, ma anche questo non era detto che ti mettesse sulla pista giusta.<br />
Avevamo dodici o tredici anni, e avevamo scoperto da poco l'ironia - o almeno, quella che poi compresi essere l'ironia: ci sentivamo Uberi di usare l'altalena, la giostra e gli altri giochi per bambini che arrugginivano lì ai giardinetti, solo a condizione di ostentare una specie di distacco voluto e ironico. Il che implicava o affettare distrazione (e in questo caso si poteva fischiettare, o chiacchierare, o giocherellare con un mozzicone di sigaretta o con una scatola di fiammiferi); oppure sfidare il pericolo, e quindi buttarsi dall'altalena quando toccava il punto più alto, saltare dalla giostra quando era lanciata al massimo della velocità, o aggrapparsi al dondolo finché non raggiungeva una posizione quasi verticale. Se in un modo o nell'altro riuscivi a dimostrare che in questi divertimenti infantili potevi rischiarci la pelle, allora giocarci diventava ok.<br />
Non avevamo ironia, però, in fatto di ragazze. Non c'era stato tempo. Un attimo non esistevano, almeno non in un qualche modo per noi interessante, e l'attimo dopo non potevi evitarle: erano<br />
dappertutto, erano ovunque. Un attimo avevi voglia di dargli una botta in testa perché erano tua sorella, o la sorella di qualcun altro, e l'attimo dopo volevi... in realtà, non sapevamo mica cosa volessimo dopo, ma era qualcosa, qualcosa. Quasi all'improvviso, tutte queste sorelle (non esisteva al- tro tipo di ragazze, non ancora) erano diventate interessanti, persino inquietanti.<br />
Vedi, noi non eravamo tanto diversi da prima. C'era venuta la voce stridula, ma la voce stridula non è un grande aiuto - ti rende ridicolo, indesiderabile. E i peli che ci stavano spuntando sul pube erano il nostro segreto, un segreto strettamente conservato fra noi e i nostri slip, e sarebbero passati anni prima che un membro del sesso opposto verificasse che erano<br />
proprio dove dovevano essere. Le ragazze, invece, tutto ad un tratto avevano il seno e, insieme a quello, un nuovo modo di camminare con le braccia incrociate sul petto, un atteggiamento che nascondeva e allo stesso tempo evidenziava quanto era appena accaduto. E poi ecco trucco e profumo, sempre da quattro soldi, e usati in modo inesperto, a volte persino comico, ma comunque un segno piuttosto terrificante di come le cose fossero andate avanti a nostra insaputa, senza di noi, al di là di noi.<br />
Cominciai a uscire con una di queste ragazze... no, non è esatto, perché io non ebbi alcuna parte nella decisione. Ma nemmeno posso dire che lei cominciò a uscire con me. Il problema sta nell'espressione « uscire con », che sottintende una sorta di parità ed eguaglianza. Invece ciò che accadde fu che Alison, la sorella di David Ashworth, si staccò dal capannello femminile che si raccoglieva tutte le sere vicino alla panchina e mi adottò, mi mise sotto la sua ala e mi portò via dal dondolo.<br />
Adesso non riesco più a ricordare come fece. Credo che lipperlì nemmeno mi resi conto di quanto stava succedendo, ricordo infatti che a metà strada verso il nostro primo bacio, il primo bacio della mia vita, provai una sensazione di totale sbigottimento: non mi capacitavo che Alison Ashworth e io fossi- mo diventati tanto intimi. Non sapevo con precisione nemmeno come fossi finito dalla sua parte dei giardinetti, lontano da suo fratello, da Mark Godfrey e dagli altri, né come ci fossimo allontanati dal gruppo delle sue amiche, né come lei avesse avvicinato la sua faccia alla mia facendomi capire che dovevo mettere la mia bocca sulla sua. Tutto l'episodio è al di là di qualsiasi spiegazione razionale. Ma le cose andarono proprio così, e si ripeterono, pressoché uguali, il pomeriggio dopo, e quello dopo ancora.<br />
Cosa credevo di fare? E lei cosa credeva di fare? Adesso, se mi viene voglia di baciare qualcuna in quel modo lì, con la bocca, la lingua e tutto il resto, è perché voglio anche altre cose: sesso, venerdì sera al cinema, compagnia e conversazione, fusione della rete famigliare e amicale, che mi si porti lo sciroppo a letto quando sono malato, un paio di cuffie nuove per ascoltare i miei dischi e i miei ed, e forse un bambino che si chiamerà Jack e una bambina che si chiamerà Holly o Maisie, non ho ancora deciso. Ma non volevo nessuna di queste cose da Alison Ashworth. Non i bambini, perché eravamo noi i bambini, non i venerdì sera al cinema, perché al cine ci andavamo il sabato mattina, non il Lempsis, perché a quello ci pensava mamma, e men che meno il sesso, soprattutto non il sesso, per l'amor di Dio non il sesso, l'invenzione più disgustosa e terrificante dei primi anni settanta.<br />
Allora cosa significava quella lingua in bocca? In realtà, non significava un bel niente; eravamo come persi nel buio. In parte era imitazione (persone che fino allora avevo visto baciarsi: James Bond, Simon Templar, Napoleon Solo, Barbara Windsor e Sid James e forse Jim Dale, Elsie Tanner, Omar Sharif e Julie Christie, Elvis, e un sacco di altra gente in bianco e nero - che però baciandosi non dimenava la testa qui e là -che mamma voleva sempre guardare in tivù); in parte era schiavitù ormonale; in parte era la pressione del gruppo dei coetanei (Kevin Bannister ed Elizabeth Barnes era già un paio di settimane che ci davano dentro); e in parte ancora era cieco panico... Non c'era coscienza, né desiderio, né piacere, se si esclude un calore ignoto e moderatamente gradevole nelle viscere. Eravamo come due animaletti, il che non significa che di lì a qualche giorno ci strappassimo i vestiti di dosso; bensì soltanto che, in senso metaforico, avevamo cominciato ad annusarci i rispettivi posteriori, e non trovavamo l'odore del tutto repellente.<br />
Ma senti, Laura, il quarto pomeriggio, arrivai ai giardinetti e Alison era seduta là, sulla panchina, abbracciata a Kevin Bannister, e di Elizabeth Barnes nemmeno l'ombra. Nessuno disse niente - non Alison, né Kevin, né io, né i maschi ritardati che ancora non erano stati iniziati al sesso e ciondolavano attorno al dondolo. Mi sentii avvampare, arrossii, e tutto a un tratto non seppi più come camminare senza essere consapevole di ogni singola parte del mio corpo. Cosa fare? Dove andare? Non volevo litigare; non volevo sedermi con quei due; non volevo andare a casa. Così, concentrandomi fortemente sui pacchetti vuoti di sigarette N.6 che costituivano il confine fra la zona dei maschi e quella delle femmine, senza guardare né<br />
su né indietro, né da un lato né dall'altro, girai i tacchi e tornai verso il branco maschile raccolto attorno al dondolo. Ero a metà strada quando commisi il mio unico errore: mi fermai e guardai l'orologio, ma che mi pigli un colpo se so cosa volessi dare a intendere, o chi credessi di imbrogliare. Dopo tutto, che genere di ora potrebbe obbligare un ragazzino di tredici anni a scappare via da una ragazzina e a dirigersi verso un campo giochi, le mani che sudano, il cuore che batte a mille, cercando disperatamente di non piangere? Certamente non le quattro di un pomeriggio di un giorno di fine settembre.<br />
Scroccai una cicca a Mark Godfrey e andai a sedermi per conto mio sul dondolo.<br />
« Puttana Eva », disse duro David, il fratello di Alison, e io gli sorrisi grato.<br />
Tutto qui. Dove avevo sbagliato? Primo incontro: giardinetti, sigaretta, pomiciata. Secondo incontro:<br />
idem. Terzo incontro: idem. Quarto incontro: scaricato. Ok, ok. Forse avrei dovuto vedere i segni premonitori. Forse me l'ero voluta. Forse il pomeriggio del secondo idem avrei dovuto capire che ci eravamo fossilizzati, che avevo lasciato che le cose ristagnassero al punto da spingerla a cercare qualcun altro. Ma lei avrebbe anche potuto cercare di parlarmi! Avrebbe potuto darmi almeno un altro paio di giorni per provare a riaggiustare le cose!<br />
Il mio rapporto con Alison Ashworth era durato in tutto sei ore (le due ore che andavano dalla uscita da scuola al primo telegiornale della sera, per tre volte), così non potevo pretendere di essermi abituato ad averla vicina e di non sapere più cosa fare di me. In realtà adesso di lei non ricordo quasi più niente. Capelli lunghi e neri? Può essere. Piccolina? Sicuramente più piccola di me. Occhi a mandorla, quasi da orientale, carnagione scura? Forse è lei, forse è un'altra. Chissà. Comunque, se dovessi rifare la classifica secondo il dolore provato, anziché in ordine cronologico, Alison passerebbe dritta dal primo al secondo posto. Sarebbe bello pensare che poi sono cresciuto e i tempi sono cambiati, e i rapporti sono diventati più profondi, le donne meno crudeli, la suscettibilità meno accesa, le reazioni più veloci, gli istinti più maturi. Eppure tutto quello che mi è accaduto da allora a oggi mi sembra che con- rò, non m'interessavano per niente le qualità, mi interessavano solo i seni, e di conseguenza Penny non faceva per me.<br />
Mi piacerebbe poter dire che fra noi si svolsero lunghe, interessanti conversazioni, e che restammo buoni amici per tutta l'adolescenza - sarebbe stata perfetta come amica - ma mi sa che non parlammo mai. Noi andavamo al cinema, alle feste e in discoteca, e lottavamo. Lottavamo nella sua camera da letto, e nelle camere da letto delle case delle feste, e nei soggiorni delle case delle feste, e quando arrivò l'estate lottammo in diversi prati. Lottavamo sempre per la stessa vecchia questione. Certe volte mi veniva una tale noia a cercare di toccarle il seno, che provavo a toccarla in mezzo alle gambe; era come chiedere in prestito cinque sterline, sentirsi dire di no, e allora chiederne cinquanta.<br />
Queste le domande più frequenti fra i ragazzi della mia scuola (una scuola solo maschile): «Hai combinato niente? »; « Ti lascia fare niente? »; « Cosa ti lascia fare? » e così via. Certe volte le domande erano derisorie, e sottintendevano la risposta « No ». « Non stai combinando niente, eh? »; « Non si è fatta toccare nemmeno un po' le tette, eh? » Le ragazze, dal canto loro, dovevano accontentarsi della voce passiva. Penny usava l'espressione « essere presa ». « Non voglio ancora essere presa », mi spiegava in tono paziente e forse un po' mesto (sembrava che prevedesse di doversi arrendere, un giorno o l'altro, non adesso, e che quando fosse accaduto, non le sarebbe piaciuto affatto), togliendosi la mia mano dal petto per la centomilionesima volta. Attacco e difesa, invasione e resistenza... era come se i seni fossero proprietà che il sesso opposto aveva annesse illegalmente; mentre appartenevano a noi, le rivolevamo indietro.<br />
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</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>GENERE</b>: Romanzo</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><b>TRAMA</b>:</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><br />
</span><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"> Apparso nel 1890 e accolto dalla critica vittoriana con scandalo e furiose polemiche, "Il ritratto di Dorian Gray" costituisce una sorta di manifesto del decadentismo inglese. Il romanzo narra la vicenda del bellissimo Dorian che ottiene di conservare intatte gioventù e avvenenza, nonostante le mille dissolutezze cui si abbandona. Sarà infatti un suo ritratto, tenuto opportunamente nascosto, a invecchiare al suo posto. Libro che è quasi un compendio della "filosofia" wildiana nella sua ricerca della sensazione intensa e rara, nella negazione di ogni credo o sentimento che il piacere, "Il ritratto di Dorian Gray" sottolinea con forza la supremazia dell'artista sulle leggi morali e sulle convenzioni sociali. Idee che Wilde praticò e pagò in prima persona, volendo "vivere la propria vita come un'opera d'arte" e difendendo, attraverso la grazia scherzosa e paradossale del suo inimitabile stile, i valori dell'arte, della cultura, dell'uomo. <br />
<br />
<b>INCIPIT</b>:<br />
<i> Lo studio era pervaso dall'odore intenso delle rose e, quando tra gli alberi del giardino spirava la leggera brezza estiva, dalla porta spalancata entrava l'intenso odore dei lillà, o il più delicato profumo dei fiori rosa dell'eglantina. Dall'angolo del divano di coperte da sella persiane, sul quale era sdraiato, fumando com'era sua abitudine<br />
innumerevoli sigarette, Lord Henry Wotton coglieva lo splendore dei fiori di liburno del colore e della dolcezza del miele, i cui tremuli rami parevano appena sopportare il peso della loro fiammeggiante bellezza. Ogni tanto, l'ombra fantastica di un uccello in volo saettava, con un fuggevole effetto giapponese, sulle lunghe tende di seta grezza tese dinanzi all'enorme finestra ricordandogli quei pittori di Tokio dal viso di pallida giada che, con i mezzi di un'arte necessariamente immobile, cercano di rendere il senso della velocità e del moto. Il cupo ronzio delle api che vagavano tra le alte erbe non falciate o roteavano con monotona insistenza intorno agli stami coperti di polvere dorata degli sparsi caprifogli sembrava rendere ancora più opprimente la sensazione di immobilità. Il rombo sommesso della città di Londra ricordava le note basse di un organo lontano.<br />
In mezzo alla stanza, fissato a un cavalletto, stava il ritratto a figura intera di un giovane di straordinaria bellezza e di fronte, poco lontano, sedeva l'autore, Basil Hallward, la cui improvvisa scomparsa alcuni anni prima aveva suscitato tanto scalpore e fatto sorgere tante strane congetture.<br />
Mentre il pittore guardava la forma bella e piena di grazia che con tanta abilità artistica aveva raffigurato, un sorriso di compiacimento gli attraversò il volto e parve volervisi fermare. Ma, improvvisamente, si alzò e chiudendo gli<br />
occhi posò le dita sulle palpebre, come se volesse tener prigioniero nella mente uno strano sogno da cui temeva ridestarsi.<br />
«È la tua opera migliore, Basil, la più bella cosa che hai mai fatto,» disse languido Lord Henry. «Devi assolutamente esporla al Grosvenor. L'Accademia è troppo grande e troppo volgare. Ogni volta che ci sono andato c'era tanta di quella gente che non sono riuscito a vedere i quadri, il che è tremendo, oppure tanti di quei quadri che non sono riuscito a vedere la gente, il che è anche peggio. Davvero, il Grosvenor è l'unico posto possibile.»<br />
«Penso che non lo esporrò in nessun posto,» rispose il pittore gettando all'indietro il capo in quello strano modo che provocava le risate dei suoi compagni di Oxford. «No, non lo esporrò in nessun posto.»<br />
Lord Henry inarcò le sopracciglia e lo guardò stupito attraverso le sottili spire di fumo che salivano in fantastici arabeschi dalla sigaretta grevemente oppiata. «Non vuoi esporlo? Perché, mio caro amico? C'è qualche motivo? Che strani tipi siete, voi pittori! Fate qualunque cosa per ottenere una reputazione, poi non appena l'avete raggiunta pare che la vogliate gettare via. È una sciocchezza, perché al mondo c'è una sola cosa peggiore del far parlare di sé ed è il non far parlare di sé. Un ritratto come questo ti porrebbe più in alto di tutti i giovani inglesi e ti farebbe invidiare dai vecchi, posto che i vecchi siano in grado di provare emozioni.»<br />
«So che riderai di me,» rispose il pittore, «ma non posso davvero esporlo. Vi ho messo dentro troppo di me.» Lord Henry si allungò sul divano ridendo.<br />
«Sì, sapevo che avresti riso; comunque è proprio vero.»<br />
«Troppo di te! Parola mia, Basil, non ti credevo così vanitoso; e non riesco proprio a trovare nessuna<br />
rassomiglianza tra te, con quel tuo viso forte e marcato e i capelli neri come il carbone, e questo giovane Adone che pare fatto di avorio e petali di rosa. Infatti, mio caro Basil, lui è un Narciso e tu... ecco, naturalmente hai un'espressione intelligente e tutto il resto, ma la bellezza, la vera bellezza, finisce dove inizia l'espressione intelligente. L'intelletto è di per se stesso una sorta di eccesso e in qualunque volto distrugge l'armonia. Non appena uno comincia a pensare, diventa tutto naso o tutta fronte, oppure qualcosa di orrendo. Guarda quelli che hanno avuto successo nelle professioni intellettuali. Sono assolutamente disgustosi. Eccetto, naturalmente, gli uomini di chiesa. Ma, del resto, gli uomini di chiesa non pensano. A ottant'anni un vescovo continua a ripetere quello che gli è stato insegnato a diciotto e, come naturale conseguenza, ha sempre un aspetto delizioso. Questo tuo misterioso amico di cui non mi hai mai detto il nome, ma il cui ritratto trovo davvero affascinante, non pensa mai. Ne sono assolutamente sicuro. È una creatura bella e priva di cervello, una creatura che si dovrebbe avere sempre vicina d'inverno, quando non ci sono fiori da ammirare e d'estate, quando si sente il bisogno di qualcosa che rinfreschi l'intelligenza. Non illuderti, Basil, non gli assomigli minimamente.»<br />
«Non mi hai capito, Harry,» replicò l'artista. «Naturalmente non gli assomiglio. Lo so perfettamente. In realtà mi dispiacerebbe assomigliargli. Scuoti le spalle? No, dico la verità. In ogni genere di distinzione, sia intellettuale che fisica, c'è una fatalità, quel genere di fatalità che, nella storia, pare in agguato sui passi incerti dei re. È meglio non essere diversi dal nostro prossimo. I brutti e gli stupidi hanno la parte migliore del mondo. Possono mettersi seduti a loro agio e godersi lo spettacolo. Se della vittoria non sanno nulla, gli viene perlomeno risparmiata la consapevolezza della sconfitta. Vivono come tutti dovremmo vivere: senza turbamenti, indifferenti e senza preoccupazioni. Non fanno male agli altri e non ricevono male da mani altrui. La tua nobiltà e la tua ricchezza, Harry, la mia intelligenza, per quel che può essere, la mia arte per quel che può valere, la bellezza di Dorian Gray: tutti soffriremo di ciò che gli dei ci hanno donato, ne soffriremo terribilmente tutti.»<br />
«Dorian Gray? Si chiama così?» domandò Lord Henry, muovendosi verso Basil Hallward.<br />
«Sì, si chiama così. Non volevo dirtelo.»<br />
«Perché no?»<br />
«Oh, non saprei spiegartelo. Quando una persona mi piace moltissimo, non dico mai a nessuno il suo nome. È<br />
come cederne una parte. Sono giunto ad amare la segretezza. Pare essere l'unica cosa che può renderci piena di meraviglia e di mistero la vita moderna. Basta nasconderla, e la più banale delle cose diventa deliziosa. Quando parto da Londra, non dico mai ai miei dove vado. Se lo dicessi, perderei ogni piacere. È una stupida abitudine, certo, ma in un certo qual modo pare che porti una grossa dose di romanticismo nella nostra vita. Immagino che mi riterrai tremendamente stupido.»<br />
«Niente affatto,» rispose Lord Henry, «niente affatto. Forse dimentichi che sono sposato e l'unico elemento di fascino del matrimonio sta nella necessità di una vita di inganni tra i coniugi. Io non so mai dov'è mia moglie e lei non sa mai che cosa sto facendo. Quando ci incontriamo, succede qualche volta, se usciamo insieme a cena o andiamo dal duca, ci raccontiamo con l'espressione più seria le cose più assurde. In questo mia moglie è molto brava, molto più brava di me. Non confonde mai i suoi appuntamenti, mentre a me capita regolarmente. Ma quando mi coglie in fallo, non mi fa scenate. A volte vorrei che me le facesse, ma lei si limita a prendermi in giro.»<br />
«Non sopporto il modo che hai di parlare della tua vita matrimoniale, Harry,» disse Basil Hallward, dirigendosi verso la porta che dava sul giardino. «Ritengo che tu sia un ottimo marito, ma che ti vergogni moltissimo delle tue virtù. Sei un tipo straordinario. Non dici mai una sola parola morale e non fai mai una cosa sbagliata. Il tuo cinismo è semplicemente una posa.»<br />
«La naturalezza è semplicemente una posa, e la più irritante che conosca,» esclamò Lord Henry ridendo. I due uomini uscirono insieme nel giardino e si accomodarono su un lungo sedile di bambù all'ombra di un alto cespuglio di alloro. Il sole scivolava sulle foglie lucide, bianche margherite fremevano nell'erba.<br />
Dopo una pausa, Lord Henry estrasse l'orologio. «Mi dispiace, Basil, ma devo andare,» mormorò, «e prima di andarmene vorrei che tu rispondessi a una domanda che ti ho fatto poco fa.»<br />
«Quale domanda?» domandò il pittore, tenendo gli occhi fissi a terra.<br />
«Lo sai benissimo.»<br />
«Non lo so, Harry.»<br />
«Bene, te la ripeterò. Voglio che tu mi spieghi perché non vuoi esporre il ritratto di Dorian Gray. Voglio sapere<br />
il vero motivo.»<br />
«Te l'ho detto.»<br />
«No. Hai detto che non volevi, perché in esso c'era troppo di te. Ora, questo è infantile.»<br />
«Harry,» disse Basil Hallward, guardandolo negli occhi, «ogni ritratto dipinto con sentimento è un ritratto dell'artista, non del modello. Il modello è solamente un accidente, l'occasione. Non è lui quello che viene rivelato dal pittore; è piuttosto il pittore che sulla tela dipinta rivela se stesso. Il motivo per cui non esporrò questo quadro è che ho il timore di avervi messo in evidenza il segreto della mia anima.»<br />
Lord Henry rise. «E qual è questo segreto?»<br />
«Te lo dirò,» disse Hallward, ma sul viso gli apparve un'espressione perplessa.<br />
«Sono impaziente, Basil,» insistette l'amico lanciandogli un'occhiata.<br />
«Oh, c'è davvero molto poco da dire, Harry,» rispose il pittore, «e temo che ti sarà difficile capirlo. Forse non<br />
lo crederai nemmeno.»<br />
Lord Henry sorrise, si chinò a raccogliere nell'erba una margherita dai petali rosati e la esaminò. «Sono sicuro<br />
che ti capirò,» replicò fissando attentamente il minuscolo disco d'oro piumato di bianco, «e per quanto riguarda il credere, posso credere a qualunque cosa purché sia del tutto incredibile.»<br />
Il vento fece cadere alcuni boccioli dagli alberi e i pesanti lillà con i loro grappoli di stelle oscillarono nell'aria languida. Accanto al muro una cavalletta cominciò a emettere il suo lieve stridio e una lunga e sottile libellula fluttuò nell'aria come un filo azzurro sulle ali di seta bruna. Lord Henry aveva l'impressione di percepire il palpito del cuore di Basil Hallward. Si chiese che cosa stesse avvenendo.<br />
«La storia è semplicemente questa,» disse il pittore dopo qualche attimo. «Due mesi fa andai a un ricevimento da Lady Brandon. Sai che noi poveri artisti di tanto in tanto ci dobbiamo far vedere in società, solo per ricordare al pubblico che non siamo selvaggi. Sei stato tu una volta a dirmi che, con un abito da sera e una cravatta bianca, chiunque, persino un agente di cambio, può guadagnarsi la reputazione di creatura civile. Bene, mi trovavo nella stanza da una decina di minuti e stavo parlando con enormi matrone troppo vestite e con noiosi accademici, quando improvvisamente mi resi conto che qualcuno mi stava guardando. Mi girai a metà e per la prima volta vidi Dorian Gray. Quando i nostri occhi si incontrarono mi sentii impallidire. Fui preso da una strana sensazione di terrore. Mi rendevo conto di trovarmi di fronte a un uomo il cui semplice fascino personale era tale che, se mi fossi lasciato andare, se glielo avessi permesso, avrebbe assorbito in sé la mia vera natura, la mia vera anima, persino la mia arte. Non voglio influenze esterne nella mia vita. Tu stesso, Harry, sai quanto io sia indipendente di natura. Sono sempre stato padrone di me stesso o almeno lo sono stato finché non ho incontrato Dorian Gray. Allora... ma non so come spiegartelo. Qualcosa pareva dirmi che ero sull'orlo di una terribile crisi. Avevo la strana sensazione che il destino avesse in serbo per me gioie squisite e squisite tristezze. Ebbi paura e mi voltai per lasciare la stanza. Non era la coscienza che mi spingeva a farlo, quanto piuttosto una sorta di viltà. Non mi vanto di aver cercato di fuggire.»<br />
«La coscienza e la viltà sono esattamente la stessa cosa, Basil. La coscienza è semplicemente il marchio di fabbrica della ditta: tutto qui.»<br />
«Non credo, Harry, e non credo nemmeno che tu ne sia convinto. In ogni modo, qualunque fosse il motivo, può anche darsi che fosse l'orgoglio, dato che sono molto orgoglioso, è certo che mi diressi decisamente verso la porta. E qui, naturalmente, inciampai in Lady Brandon. "Non intenderà lasciarci così presto, signor Hallward?" gridò. La conosci quella sua voce stranamente stridula.»<br />
«Sì, assomiglia in tutto a un pavone, fuorché nella bellezza,» disse Lord Henry, facendo a pezzi la margherita con le lunghe dita nervose.<br />
«Non riuscii a liberarmi di lei. Mi portò dalle Altezze Reali, da gente con Stelle e Giarrettiere, da vecchie dame con diademi giganteschi e nasi da pappagallo. Parlava di me come se fossi il suo più caro amico. In precedenza l'avevo incontrata solo una volta, ma si era messa in testa di esibirmi. Mi pare che in quel periodo uno dei miei quadri avesse riscosso un grande successo, o perlomeno se ne era parlato sui quotidiani popolari che nel diciannovesimo secolo rappresentano il sigillo dell'immortalità. E, improvvisamente, mi trovai faccia a faccia con il giovane la cui personalità mi aveva così stranamente turbato. Eravamo vicinissimi, quasi ci toccavamo. I nostri occhi si incontrarono una volta ancora. Fu un atto incauto da parte mia, ma chiesi a Lady Brandon di presentarmelo. Forse, dopotutto, non fu un atto così incauto: era semplicemente inevitabile. Ci saremmo parlati anche senza nessuna presentazione, ne sono certo. In seguito Dorian me lo disse. Anche lui aveva avuto la sensazione che fossimo destinati a conoscerci.»<br />
«E che cosa ti disse Lady Brandon di questo meraviglioso giovane?» domandò l'amico. «So che si dedica sempre a esporre un breve précis di tutti i suoi ospiti. Ricordo che una volta mi presentò a un vecchio gentiluomo dall'aria truculenta e dal volto scarlatto tutto coperto di nastri e decorazioni, sussurrandomi all'orecchio in un tragico bisbiglio, che probabilmente fu udito da tutti nella stanza, particolari stupefacenti. Semplicemente, scappai. Mi piace scoprire la gente da solo. Ma Lady Brandon tratta i suoi ospiti esattamente come un banditore tratta la sua merce: o li presenta in forma completamente sbagliata, oppure dice sul loro conto tutto, salvo quello che uno desidera sapere.»<br />
«Povera Lady Brandon! Sei duro con lei!» disse Hallward distrattamente.<br />
«Mio caro, ha cercato di mettere in piedi un salon ed è riuscita solo ad aprire un ristorante. Come potrei ammirarla? Ma, dimmi, che cosa ti ha detto del signor Dorian Gray?»<br />
«Oh, qualcosa come "Un ragazzo affascinante... la sua povera madre e io eravamo davvero inseparabili. Non ricordo assolutamente che cosa faccia... temo che... non faccia nulla... oh, sì, suona il pianoforte... o il violino, signor Gray?" Scoppiammo a ridere tutti e due e diventammo subito amici.»<br />
«Il ridere non è un brutto modo per iniziare un'amicizia, ed è senz'altro il migliore per terminarla,» disse il giovane Lord, cogliendo un'altra margherita.<br />
Hallward scosse il capo. «Tu non sai che cosa sia l'amicizia, Harry,» mormorò, «né che cosa sia l'inimicizia, del resto. A te piace chiunque, il che equivale a dire che tutti ti sono indifferenti.»<br />
«Sei terribilmente ingiusto!» esclamò Lord Henry spingendo all'indietro il cappello e alzando lo sguardo verso le piccole nubi che, come intricate matasse di lucente seta bianca, veleggiavano nel cavo turchese del cielo estivo. «Sì, sei terribilmente ingiusto. Io faccio molta differenza tra le persone. Scelgo gli amici per la bellezza, i conoscenti per il buon carattere e i nemici per l'intelligenza. Non si è mai abbastanza attenti nella scelta dei propri nemici. Io non ne ho nemmeno uno che sia stupido. Sono tutti persone dalle notevoli capacità intellettuali e, di conseguenza, mi apprezzano. È una manifestazione di vanità da parte mia? Io penso di sì.»<br />
«Pare anche a me, Harry. Ma, secondo questa classificazione, io sono soltanto un conoscente.»<br />
«Vecchio mio, tu sei molto più di un conoscente.»<br />
«E molto meno di un amico. Una specie di fratello, immagino.»<br />
«Oh, i fratelli! Non mi interessano i fratelli! Mio fratello maggiore non vuol morire, e i miei fratelli più giovani<br />
pare che non facciano altro.»<br />
«Harry!» esclamò Hallward, aggrottando le sopracciglia.<br />
«Caro amico, non dico sul serio. Ma non posso fare a meno di detestare i miei parenti. Immagino che sia<br />
dovuto al fatto che nessuno può sopportare chi possiede gli stessi suoi difetti. Ho molta simpatia per la rabbia che la democrazia inglese nutre nei confronti di quelli che chiamano i vizi delle classi superiori. Le masse pensano che l'ubriachezza, la stupidità e l'immoralità debbano essere una loro speciale prerogativa e che, se qualcuno di noi si comporta da deficiente, va a caccia nelle loro riserve. Quando il povero Southwark si presentò di fronte al tribunale dei divorzi, la loro indignazione fu spettacolare. E tuttavia non penso che il dieci per cento del proletariato viva nell'onestà.»</i></span></span><br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"></div><span class="Apple-style-span" style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px;"><span class="text_exposed_show" style="display: inline;"><b><br />
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