lunedì 27 febbraio 2012

Il prigioniero del cielo

AUTORE: Carlos Ruiz Zafón
GENERE: Romanzo

TRAMA:

Barcellona, dicembre 1957. Nella libreria dei Sempere entra un individuo misterioso che acquista una preziosa edizione del Conte di Montecristo e la lascia in custodia a Daniel perché la consegni al suo amico Fermin. Il libro porta una dedica inquietante: "Per Fermin Romero de Torres, che è riemerso tra i morti e ha la chiave del futuro", firmato "13". Tra malintesi, imbrogli e minacciosi ricordi dal passato inizia l'indagine di Daniel per decifrare quella dedica enigmatica e capire quali segreti nasconde il suo fedele amico. Prima di potersene rendere conto, il giovane libraio viene catapultato in un passato che lo riguarda da vicino, dove la morte di sua madre Isabella si lega al destino di David Martin, il grande scrittore che dal carcere scrive Il gioco dell'angelo, e a quello del perfido editore Mauricio Valls, una vecchia conoscenza degli anni di carcere di Fermin. Quello che Daniel scoprirà non rimarrà senza effetti sulla sua vita, molte domande rimaste in sospeso avranno una risposta e lui si troverà in mano, inaspettatamente, la possibilità di vendicarsi.


INCIPIT:
Barcellona, dicembre 1957

Quell’anno, prima di Natale, ci toccarono soltanto giorni plumbei e ammantati di brina. Una penombra azzurrata avvolgeva la città e la gente camminava in fretta coperta fino alle orecchie, disegnando con il fiato veli di vapore nell’aria gelida. Erano pochi coloro che in quei giorni si fermavano a guardare la vetrina di Sempere e Figli, e ancora meno quelli che si avventuravano a entrare per chiedere di quel libro sperduto che li aveva aspettati per tutta la vita, e la cui vendita, poesie a parte, avrebbe contribuito a rappezzare le precarie finanze della libreria.
“Sento che oggi sarà il giorno giusto. Oggi cambierà la nostra sorte” proclamai sulle ali del primo caffè della giornata, puro ottimismo allo stato liquido.
Mio padre, che battagliava dalle otto di quella mattina con il registro della contabilità destreggiandosi abilmente con gomma e matita, alzò gli occhi dal bancone e osservò la sfilata di clienti mancati che si perdevano dietro l’angolo.
“Il cielo ti ascolti, Daniel, perché di questo passo, se va male la campagna di Natale, a gennaio non avremo nemmeno i soldi per la bolletta della luce. Qualcosa dovremo pur fare.”
“Ieri Fermìn ha avuto un’idea” dissi. “Secondo lui, è un piano magistrale per salvare la libreria dalla bancarotta imminente.”
“Che Dio ci colga confessati e comunicati.”
Citai testualmente:
“Magari, se mi mettessi a decorare la vetrina in mutande, qualche femmina avida di letteratura e di emozioni forti entrerebbe a spendere soldi, perché, dicono gli esperti, il futuro della letteratura dipende dalle donne e Dio sa che non ancora nata una signorina in grado di resistere all’attrazione agreste di questo corpo da montanaro” recitai.
Sentii alle mie spalle la matita di mio padre cadere a terra e mi voltai.
“Fermin dixit” aggiunsi.
Avevo pensato che mio padre avrebbe sorriso della travata di Fermìn, ma quando mi accorsi che non sembrava risvegliarsi dal suo silenzio lo guardai di sottecchi. Sempere senior non solo non sembrava divertito da quello sproposito, ma aveva assunto n’espressione meditabonda, come se volesse prenderlo sul serio.
“Ma tu guarda, magari Fermìn ci ha azzeccato” mormorò.
Lo osservai incredulo. Forse le difficoltà economiche che ci avevano colpito nelle ultime settimane avevano finito per compromettere il senno del mio progenitore.
“Non mi dire che gli permetterai di andare a spasso in mutande in libreria.”
“No, non è questo. E’ la vetrina. Mentre parlavi, mi è venuta un’idea…Forse siamo ancora in tempo a salvare il Natale…”
Lo vidi scomparire nel retrobottega e riemergere equipaggiato con la sua uniforme ufficiale per l’inverno: lo stesso cappotto, la stessa sciarpa e lo stesso cappello che ricordavo da bambino. Bea diceva di sospettare che mio padre non comprasse vestiti dal 1942, e tutti gli indizi portavano a ritenere che mia moglie avesse ragione. Mentre si infilava i guanti, sorrideva vagamente e nei suoi occhi si percepiva quello scintillio quasi infantile che riuscivano a strappargli solo le grandi imprese.
“Ti lascio da solo per un po’” annunciò. “ Esco a fare una commissione”.
“Posso chiederti dove stai andando?”
Mio padre mi fece l’occhiolino.
“E’ una sorpresa. Poi vedrai.”
Lo seguii fino alla porta e lo vidi partire a passo fermo in direzione della Puerta del Angel, una sagoma fra le tante nella marea grigia di passanti che navigava per un altro lungo inverno di cenere e d’ombra.

Approfittando del fatto di essere rimasto solo, decisi di accendere la radio per assaporare un po’ di musica mentre riordinavo con calma i libri sugli scaffali. Mio padre era dell’opinione che tenere la radio accesa in libreria quando c’erano clienti fosse di cattivo gusto; se invece la accendevo in presenza di Fermìn, lui si lanciava a canticchiare strofette sulla musica di qualunque melodia – o, peggio ancora, a ballare ciò che definiva “ sensuali ritmi caraibici” – e dopo pochi minuti mi faceva venire i nervi a fior di pelle.
Tenuto conto di quelle difficoltà pratiche, ero arrivato alla conclusione che avrei dovuto limitare il piacere procuratomi dalle onde hertziane ai rari momenti in cui in negozio, a parte me e svariate decine di migliaia di libri, non c’era più nessuno.
Quella mattina Radio Barcelona trasmetteva la registrazione pirata, fatta da un collezionista, del magnifico concerto che il trombettista Louis Armstrong e il suo gruppo avevano tenuto tre Natali prima all’Hotel Windsor Palace della Diagonal. Negli intervalli pubblicitari, il conduttore si affannava a etichettare quei suoni come gez e avvertiva che alcune delle loro sincopi procaci potevano non essere adatte alle orecchie dell’ascoltatore nazionale, forgiato nella tonadilla, nel bolero e nell’incipiente movimento yè-yè che dominavano le trasmissioni di quegli anni.
Fermìn era solito dire che, se don Isaac Albèniz fosse nato negro, il jazz sarebbe stato inventato a Camprodòn, come i biscotti in scatola, e che, al pari dei reggiseni a punta che sfoggiava la sua adorata Kim Novak in qualcuno dei film che vedevamo ai matinè del cinema Fèmina, quei suoni costituivano una delle rare conquiste dell’manità a partire dall’inizio del XX secolo. Non l’avrei contraddetto. Lasciai trascorrere il resto della mattinata tra la magia di quella musica e il profumo dei libri, assaporando la serenità e al soddisfazione procurata da un lavoro fatto bene.
A quanto aveva affermato, Fermìn si era preso la mattina libera per ultimare i preparativi del matrimonio con Bernarda, previsto per l’inizio di febbraio. Quando ne aveva parlato, due settimane prima, gli avevamo detto tutti che stava precipitando le cose e che la fretta è una brutta bestia. Mio padre aveva cercato di convincerlo a rimandare quell’unione di almeno un paio di mesi, argomentando che di solito le nozze si svolgevano d’estate, con il bel tempo, ma Fermìn aveva insistito su quella data sostenendo che lui, esemplare abituato all’inclemente clima secco delle colline dell’Estremadura, sudava a profusione durante l’estate, a suo giudizio semitropicale, della costa mediterranea e non riteneva conforme alle buone regole celebrare matrimonio con chiazze di sudore grandi come tegami sotto le ascelle.




giovedì 23 febbraio 2012

L'alchimista

AUTORE: Paulo Coelho
GENERE: Romanzo di formazione

TRAMA:

Un pastorello andaluso, Santiago, ha un grande desiderio: viaggiare. Si mette in viaggio per Tarifa dove una zingara lo invita a raggiungere le piramidi d'Egitto, dove troverà un tesoro. Derubato di ogni suo avere a Tangeri, è costretto a lavorare presso il mercato dei Cristalli. Raccolti i soldi necessari si rimette in viaggio verso le piramidi, dove incontra un cavaliere che gli comunica che il tesoro è in Spagna.

INCIPIT:
PROLOGO
L'Alchimista prese un libro, portato da qualcuno della carovana. Il volume era privo di copertina, ma lui riuscì a identificarne l'autore: Oscar Wilde.
Mentre sfogliava le pagine, trovò una storia su Narciso.
L'Alchimista conosceva la leggenda di Narciso, un bel giovane che tutti i giorni andava a contemplare la propria bellezza in un lago. Era talmente affascinato da se stesso che un giorno scivolò e morì annegato. Nel punto in cui cadde nacque un fiore, che fu chiamato narciso.
Ma non era così che Oscar Wilde concludeva la storia.
Egli narrava invece che, quando Narciso morì, accorsero le Oreadi - le ninfe del bosco - e videro il lago trasformato da una pozza di acqua dolce in una brocca di lacrime salate.
Perché piangi? domandarono le Oreadi. Piango per Narciso, disse il lago.
Non ci stupisce che tu pianga per Narciso, soggiunsero. Infatti, mentre noi tutte lo abbiamo sempre rincorso per il bosco, tu eri l'unico ad avere la possibilità di contemplare da vicino la sua bellezza.
Ma Narciso era bello? domandò il lago.
Chi altri meglio di te potrebbe saperlo? risposero, sorprese, le Oreadi. In fin dei conti, era sulle tue sponde che Narciso si sporgeva tutti i giorni.
Il lago rimase per un po' in silenzio. Infine disse:
Io piango per Narciso, ma non mi ero mai accorto che fosse bello. Piango per Narciso perché, tutte le volte che lui si sdraiava sulle mie sponde, io potevo vedere riflessa nel fondo dei suoi occhi la mia bellezza. Che bella storia, disse l'Alchimista.

PRIMA PARTE
Il ragazzo si chiamava Santiago. Stava cominciando a imbrunire quando giunse con il suo gregge davanti a una vecchia chiesa abbandonata. Il tetto era crollato da tempo e un enorme sicomoro era cresciuto nel luogo dove una volta sorgeva la sacrestia.
Decise di trascorrere la notte in quel luogo. Fece entrare tutte le pecore dalla porta in rovina e poi dispose alcune tavole di legno perché non
potessero fuggire durante la notte. Non c'erano lupi in quella zona, ma una volta un animale era scappato e c'era voluta un'intera giornata perché lo ritrovasse.
Mise per terra la giacca e si sdraiò, usando come guanciale il libro che aveva appena finito di leggere. Prima di addormentarsi, pensò che doveva cominciare a leggere libri un po' più voluminosi: ci sarebbe voluto più tempo a finirli ed erano guanciali più comodi per la notte.
Era ancora buio quando si svegliò. Guardò in alto e, attraverso il soffitto semidistrutto, intravide le stelle che brillavano.
Vorrei dormire ancora un po', pensò. Aveva fatto lo stesso sogno della settimana precedente e, di nuovo, si era svegliato prima della sua conclusione.
Si alzò e bevve un sorso di vino. Poi afferrò il bastone e cominciò a
svegliare le pecore che ancora dormivano. Aveva notato che, appena si destava lui, anche la maggior parte delle bestie cominciava a svegliarsi. Come se vi fosse una misteriosa energia che univa la sua vita a quella delle pecore che da due anni percorrevano insieme con lui la regione, in cerca di cibo e di acqua. Ormai si sono tanto abituate a me che conoscono i miei orari, mormorò sottovoce. Poi, riflettendo, pensò che poteva essere anche il contrario: forse era lui che si era abituato all'orario delle pecore.
Ce n'erano alcune, però, che impiegavano un po' più di tempo a muoversi. Il ragazzo le risvegliò a una a una con il suo bastone, chiamandole per nome. Era convinto che le pecore fossero in grado di capire ciò che lui diceva: perciò ogni tanto usava leggere loro i brani di quei libri che lo avevano colpito, o parlar loro della solitudine e della gioia di un pastore in mezzo alla campagna, oppure commentare le ultime novità che osservava nelle città per cui soleva passare.
Negli ultimi giorni, tuttavia, il suo argomento era stato praticamente uno solo: la giovinetta, figlia del commerciante, che viveva nella città dove sarebbe giunto di lì a quattro giorni. C'era già stato solo una volta, l'anno precedente. Il commerciante, che possedeva una bottega di tessuti, gradiva sempre che le pecore fossero tosate davanti ai suoi occhi, per evitare imbrogli. Un amico gli aveva indicato quella bottega, e il pastore vi aveva portato le sue pecore.
Ho bisogno di vendere un po' di lana, aveva detto al commerciante.
Il negozio era pieno e l'uomo gli aveva chiesto di aspettare fino all'imbrunire. Lui, allora, si era seduto lì davanti sul marciapiede e aveva tirato fuori dalla bisaccia un libro.
Non pensavo che i pastori sapessero leggere, aveva detto allora una voce femminile accanto a lui.
Era una ragazza tipica della regione andalusa, con i lunghi capelli neri e gli occhi che ricordavano vagamente gli antichi conquistatori mori.
Perché le pecore insegnano più dei libri, aveva risposto il ragazzo. Si erano trattenuti a parlare per più di due ore. Lei gli aveva detto di essere la figlia del commerciante, parlandogli poi della vita nel paese, dove ogni giorno era uguale all'altro. Il pastore le aveva raccontato delle campagne dell'Andalusia, delle ultime novità che aveva notato nelle città dove era passato. Era contento perché, per una volta, poteva parlare con qualcuno, a parte le pecore.
Come hai imparato a leggere? gli aveva domandato la ragazza a un certo punto. Come tutti gli altri, aveva risposto lui. A scuola.
E allora, se sai leggere, perché sei soltanto un pastore?
Il ragazzo aveva accennato una scusa qualunque per non rispondere a quella domanda: lei, certo, non avrebbe potuto capirlo. Aveva continuato a raccontare le sue storie di viaggi, mentre quegli occhietti mori si aprivano e si chiudevano per la meraviglia e la sorpresa. Via via che il tempo passava, il ragazzo aveva cominciato a desiderare che quel giorno non avesse mai fine, che il padre di lei fosse occupato ancora per lungo tempo e lo facesse attendere
tre giorni. Si era reso conto che stava provando qualcosa che non aveva mai sentito prima di allora: il desiderio di fermarsi per sempre in una città.
Con quella giovinetta dai capelli neri, i giorni non sarebbero stati mai  uguali.
Ma infine il commerciante era arrivato e gli aveva detto di tosare quattro pecore. Poi gli aveva pagato il dovuto e chiesto di tornare l'anno dopo.
Ora mancavano solo quattro giorni perché facesse ritorno a quel villaggio. Era eccitato e, al tempo stesso, insicuro: forse la giovinetta lo aveva dimenticato. Da quelle parti passavano tanti pastori a vendere la lana.
Non ha importanza, disse il ragazzo alle pecore. Anch'io conosco altre giovani in altre città.
Ma, in fondo al cuore, sentiva invece che quello era importante. Perché anche i pastori, come i marinai o come i commessi viaggiatori, sanno che c'è sempre una città dove esiste qualcuno capace di far loro dimenticare la gioia di vagare liberamente per il mondo.
Il giorno cominciò a rischiararsi e il pastore guidò le pecore in direzione
del sole. Loro non hanno mai bisogno di prendere alcuna decisione, pensò. Ecco perché, forse, rimangono sempre con me. L'unica necessità che le pecore sentivano era di un po' d'acqua e di un po' di cibo. Fino a quando il ragazzo avesse conosciuto i pascoli migliori dell'Andalusia, le pecore gli sarebbero state sempre amiche. Anche se i giorni erano tutti uguali, fatti di lunghe ore che si trascinavano fra il sorgere e il tramontare del sole. E tutto ciò  anche se non avevano mai letto un solo libro nelle loro brevi vite, e non conoscevano la lingua degli uomini che portava le novità nei paesi. Si accontentavano di acqua e cibo, e ciò bastava. In cambio, offrivano generosamente la loro lana, la loro compagnia e, di tanto in tanto, la loro carne.
Se oggi diventassi un mostro e decidessi di ammazzarle una dopo l'altra, lo capirebbero soltanto dopo che fosse stato sterminato quasi tutto il gregge, pensò il ragazzo. Perché si fidano di me, mentre non si fidano più del loro istinto. Solo perché io le conduco al nutrimento e all'acqua.



lunedì 20 febbraio 2012

Il gabbiano Jonathan Livingston

AUTORERichard Bach
GENERE: Romanzo di formazione

TRAMA:

“Ciascuno di noi è, in verità, un’immagine del Grande Gabbiano, un’infi nita idea di libertà, senza limiti.” E anche: “Mai ti si concede un desiderio senza che inoltre ti sia concesso il potere di farlo avverare”. Sono le celebri folgorazioni di Richard Bach, contenute nello scrigno d’oro del suo capolavoro. Come Siddharta di Hesse o Il piccolo Principe di Saint-Exupéry, Il gabbiano Jonathan Livingston non è un semplice romanzo, una insuperabile fi aba che da decenni incanta i lettori. È molto di più: un manuale per liberarsi dalle costrizioni interne ed esterne, un sussidio per la propria libertà interiore e per una vita vissuta con la serenità di chi ha compreso l’infi nito mistero del mondo, l’entusiasmo che mette le ali, secondo una parabola che potrebbe essere considerata come un vangelo moderno: “D’ora in poi vivere qui sarà più vario e interessante... Noi avremo una nuova ragione di vita. Ci solleveremo dalle tenebre dell’ignoranza, ci accorgeremo di essere creature di grande intelligenza e abilità. Saremo liberi! Impareremo a volare!”.

INCIPIT:
Era di primo mattino,
e il sole appena sorto luccicava tremolando sulle scaglie del mare appena increspato.
A un miglio dalla costa un peschereccio arrancava verso il largo. E fu data la voce allo Stormo. E in men che non si dica tutto lo Stormo Buonappetito si adunò, si diedero a giostrare ed accanirsi per beccare qualcosa da mangiare. Cominciava così una nuova dura giornata.
Ma lontano di là soletto, lontano dalla costa e dalla barca, un gabbiano si stava allenando per suo conto: era il gabbiano Jonathan Livingston. Si trovava a una trentina di metri d’altezza: distese le zampette palmate, aderse il becco, si tese in uno sforzo doloroso per imprimere alle ali una torsione tale da consentirgli di volare lento. E infatti rallentò tanto che il vento divenne un fruscìo lieve intorno a lui, tanto che il mare ristava immoto sotto le sue ali. Strinse gli occhi, si concentrò intensamente, trattenne il fiato, compì ancora uno sforzo per accrescere solo... d’un paio... di centimetri... quella... penosa torsione e... D’un tratto gli si arruffano le penne, entra in stallo e precipita giù.
I gabbiani, lo sapete anche voi, non vacillano, non stallano mai. Stallare, scomporsi in volo, per loro è una vergogna, è un disonore.
Ma il gabbiano Jonathan Livingston – che faccia tosta, eccolo là che ci riprova ancora, tende e torce le ali per aumentarne la superficie, vibra tutto nello sforzo e patapunf stalla di nuovo – no, non era un uccello come tanti.
La maggior parte dei gabbiani non si danno la pena di apprendere, del volo, altro che le nozioni elementari: gli basta arrivare dalla costa a dov’è il cibo e poi tornare a casa. Per la maggior parte dei gabbiani, volare non conta, conta mangiare. A quel gabbiano lì, invece, non importava tanto procurarsi il cibo, quanto volare. Più d’ogni altra cosa al mondo, a Jonathan Livingston piaceva librarsi nel cielo.
Ma a sue spese scoprì che, a pensarla n quel modo, non è facile poi trovare amici, fra gli altri uccelli. E anche i suoi genitori arano afflitti a vederlo così: che passava giornate intere tutto solo, dietro i suoi esperimenti, quei suoi voli planati a bassa quota, provando e riprovando.
Non sapeva spiegarsi perché, ad esempio, quando volava basso sull’acqua, a un’altezza inferiore alla metà della sua apertura alare, riusciva a sostenersi più a lungo nell’aria e con meno fatica. Concludeva la planata, lui, mica con quel solito tuffo a zampingiù nel mare, bensì con una lunga scivolata liscia liscia, sfiorando la superficie con le gambe raccolte contro il corpo, in un tutto aerodinamico. Quando poi si diede a eseguire planate con atterraggio a zampe retratte anche sulla spiaggia (e a misurare quindi, coi suoi passi, la lunghezza di ogni planata) i suoi genitori si mostrarono molto ma molto sconsolati.
“Ma perché, Jon, perché?” gli domandò sua madre. “Perché non devi essere un gabbiano come gli altri, Jon? Ci vuole tanto poco! Ma perché non lo lasci ai pellicani il volo radente? agli albatri? E perché non mangi niente? Figlio mio, sei ridotto penne e ossa!”
“Non m’importa se sono penne e ossa, mamma. A me importa soltanto imparare che cosa si può fare su per aria, e cosa no: ecco tutto. A me preme soltanto di sapere.”
“Sta’ un po’ a sentire, Jonathan” gli disse suo padre, con le buone. “Manca poco all’inverno. E le barche saranno pochine, e i pesci nuoteranno più profondi, sotto il pelo dell’acqua. Se proprio vuoi studiare, studia la pappatoria e il modo di procurartela! ‘Sta faccenda del volo è bella e buona, ma mica puoi sfamarti con la planata, dico bene? Non scordarti, figliolo, che si vola per mangiare.”
Jonathan assentì, obbediente. Nei giorni successivi cercò quindi di comportarsi come gli altri gabbiani. Ci si mise di buona volontà. E, gettando strida, giostrava, torneava anche lui con lo Stormo intorno ai moli, intorno ai pescherecci, tuffandosi a gara per acchiappare un pezzo di pane, un pesciolino, qualche avanzo. Ma a un certo punto non ne poté più.
Tutto questo non ha senso, si disse: e lasciò cadere, apposta, un’acciuga duramente conquistata, se la pappasse quel vecchio gabbiano affamato che lo seguiva. Qui perdo tempo, quando potrei impiegarlo invece a esercitarmi! Ci sono tante cose da imparare!
Non andò molto, infatti, che Jonathan piantò lo Stormo e tornò solo, sull’alto mare, a esercitarsi, affamato e felice.
Adesso studiava velocità e, in capo a una settimana di allenamenti, ne sapeva di più, su questa materia, del più veloce gabbiano che c’era al mondo.
Eccolo a circa trecento metri d’altezza che, battendo le ali a più non posso, si butta in picchiata: una picchiata vertiginosa verso le onde. A questo punto capisce perché ai gabbiani questa manovra, a tutta velocità, non può riuscire. In appena sei secondi, uno tocca le settanta miglia all’ora: velocità alla quale l’ala d’un uccello non è più stabile, nella fase ascendente.
Ci si era provato più volte, ma sempre con lo stesso risultato. Pur mettendoci il massimo impegno, perdeva sempre il controllo, a una velocità così elevata.
Saliva a quota trecento. Avanti dritto, a tutta birra, prima. Poi scivolata nell’aria. E giù in picchiata. Niente! Ogni santa volta l’ala sinistra andava in stallo nella fase ascendente, lui veniva spostato con violenza a mano manca, stallava con la destra per cercare di riprendersi e, trac, cadeva in vite.
Non riusciva a metterci sufficiente attenzione, al momento in cui dava quel colpo d’ala ascendente. Dieci volte ci aveva provato e ogni volta, appena toccate le settanta miglia orarie, si trasformava in una trottola di penne e, perduto il dominio dell’aria, tonfava nell’acqua.
Il trucco – gli balenò alla fine in mente, quand’era ormai fradicio – consiste nel tener le ali ferme. Sì: remeggiare finché non sei sulle cinquanta miglia, poi tener salde le ali.
Salì a quota seicento e riprovò. Si buttò in picchiata, becco diritto in giù, ali tutte aperte, appena toccate le cinquanta, spiegate e ferme. Occorreva una forza tremenda, ma il trucco riusciva. Nello spazio di dieci secondi, era sfrecciato a novanta miglia l’ora. Jonathan aveva stabilito il record mondiale di velocità dei gabbiani!
Ma il suo trionfo fu di breve durata. Nell’istante in cui s’accinse a risalire, nell’istante in cui mutò l’angolazione delle ali, perse disastrosamente il controllo, frullò e divenne un turbinìo di penne. Come prima: solo che, a novanta, fu un effetto-dinamite. E Jonathan espose in aria. Piombò in mare. In un mare duro come il granito.

giovedì 16 febbraio 2012

Uomini che odiano le donne

AUTOREStieg Larsson
GENERE: Romanzo Thriller

TRAMA:

Sono passati molti anni da quando Harriet, nipote prediletta del potente industriale Henrik Vanger, è scomparsa senza lasciare traccia. Da allora, ogni anno l'invio di un dono anonimo riapre la vicenda, un rito che si ripete puntuale e risveglia l'inquietudine di un enigma mai risolto. Ormai molto vecchio, Henrik Vanger decide di tentare per l'ultima volta di fare luce sul mistero che ha segnato tutta la sua vita. L'incarico di cercare la verità è affidato a Mikael Blomkvist: quarantenne di gran fascino, Blomkvist è il giornalista di successo che guida la rivista Millennium, specializzata in reportage di denuncia sulla corruzione e gli affari loschi del mondo imprenditoriale. Sulle coste del Mar Baltico, con l'aiuto di Lisbeth Salander, giovane e abilissima hacker, indimenticabile protagonista femminile al suo fianco ribelle e inquieta, Blomkvist indaga a fondo la storia della famiglia Vanger. E più scava, più le scoperte sono spaventose.

INCIPIT:
Prologo
Venerdì 1 novembre

Era diventato un rito che si ripeteva ogni anno. Il destinatario del fiore ne compiva stavolta ottantadue. Quando il fiore arrivò, aprì il pacchetto e lo liberò della carta da regalo in cui era avvolto. Quindi sollevò il ricevito- re e compose il numero di un ex commissario di pubblica sicurezza che dopo il pensionamento era andato a stabilirsi sulle rive del lago Siljan. I due uomini non erano solo coetanei, ma erano anche nati nello stesso giorno - fatto che in quel contesto poteva essere considerato come una sorta d'ironia. Il commissario, che sapeva che la telefonata sarebbe arrivata dopo la distribuzione della posta delle undici, nell'attesa stava bevendo un caffè. Quest'anno il telefono squillò già alle dieci e trenta. Lui alzò la cornetta e disse ciao senza nemmeno presentarsi.
«È arrivato.»
«Cos'è, questa volta?»
«Non so che genere di fiore sia. Lo farò identificare. È bianco.» «Nessuna lettera, suppongo?»
«No. Nient'altro che il fiore. La cornice è la stessa dell'anno scorso. Una
di quelle cornici da poco che uno si monta da solo.» «Timbro postale?»
«Stoccolma.»
«Calligrafia?»
«Come al solito, stampatello, tutte maiuscole. Lettere dritte e ordinate.»
Con ciò l'argomento era stato esaurito e i due rimasero seduti qualche minuto in silenzio, ognuno dalla sua parte della linea telefonica. Il com- missario in pensione si lasciò andare contro lo schienale della sedia davan- ti al tavolo della cucina, succhiando la pipa. Sapeva comunque che non ci si aspettava più che ponesse qualche domanda risolutiva oppure iperintel- ligente, in grado di gettare nuova luce sulla faccenda. Quel tempo era passato da un pezzo, e la conversazione fra i due anziani conoscenti aveva piuttosto il carattere di un rituale intorno a un mistero che nessun altro essere umano al mondo aveva il benché minimo interesse a risolvere.
Il suo nome latino era Leptospermum (Myrtaceae) Rubinette. Si trattava di un arbusto piuttosto anonimo dotato di piccole foglie simili a quelle dell'erica, che produceva un fiore di due centimetri con una corolla di cinque petali. Era alto grossomodo dodici centimetri.
La pianta era originaria delle regioni montuose e del bush australiani, dove cresceva in robusti agglomerati. In Australia la chiamavano Desert Snow. Più avanti, un'esperta del giardino botanico di Uppsala avrebbe constatato che si trattava di una pianta insolita, raramente coltivata in Svezia. Nella sua perizia, la studiosa scriveva che l'arbusto era imparentato con il Leptospermum Flavescens, e che sovente era confuso con il ben più comune cugino Leptospermum Scoparium, che cresceva abbondante in Nuova Zelanda. La differenza, a detta dell'esperta, consisteva nel fatto che il Rubinette presentava un piccolo numero di microscopici puntini rosa sulle punte dei petali, che conferivano al fiore una vaga sfumatura rosata.
Il Rubinette era, in definitiva, un fiore sorprendentemente modesto. Era privo di valore commerciale. Non possedeva proprietà medicamentose note né effetti allucinogeni. Non si poteva mangiare, era inutilizzabile come spezia e senza utilità nella fabbricazione di coloranti vegetali. Per contro aveva una certa importanza per gli abitanti originari dell'Australia, gli aborigeni, che tradizionalmente consideravano la zona intorno ad Ayers Rock e la relativa flora come sacre. L'unico scopo della pianta sulla terra sembrava di conseguenza essere quello di fare omaggio della sua capricciosa bellezza all'ambiente circostante.
Nella sua perizia, la botanica di Uppsala constatava che se quel piccolo arbusto era poco comune in Australia, in Scandinavia era addirittura raro. Personalmente non ne aveva mai visto un esemplare, ma dopo un'indagine fra i colleghi era venuta a sapere che erano stati fatti dei tentativi di introdurre la pianta in un giardino di Göteborg, e che si immaginava venisse coltivata privatamente in luoghi diversi, da appassionati di giardinaggio e botanici dilettanti dotati di piccole serre. Era difficile da coltivare in Svezia perché esigeva un clima mite e secco, e doveva essere ricoverata al chiuso durante i mesi invernali. Non tollerava il terreno calcareo ed esigeva annaffiature dal basso, direttamente sulla radice. Era una pianta per coltivatori esperti.

Questo fatto che si trattasse di un fiore raro in Svezia avrebbe dovuto, in teoria, rendere più facile rintracciare l'origine di quello specifico esemplare, ma in pratica era un'impresa impossibile. Non esistevano registri da
consultare o licenze da esaminare. Non c'era nessuno che sapesse quanti coltivatori privati si fossero cimentati in generale nell'impresa di cercare di ottenere un fiore così difficile. Poteva trattarsi di tutto, da qualche singolo entusiasta a diverse centinaia di appassionati di giardinaggio con a disposizione semi oppure piante. Che potevano essere stati acquistati privatamen- te oppure tramite ordine postale da qualche altro coltivatore o giardino botanico di qualsiasi parte d'Europa. La pianta poteva perfino essere stata procurata direttamente durante qualche viaggio in Australia. Cercare di identificare proprio quel coltivatore specifico fra i milioni di svedesi che hanno una piccola serra oppure un vaso alla finestra del soggiorno sarebbe stata, in altre parole, un'impresa disperata.
Il fiore era solamente l'ultimo di una lunga serie di sconcertanti omaggi che arrivavano regolarmente dentro una busta imbottita il primo di novembre. Il genere variava ogni anno, ma si trattava sempre di fiori belli e relativamente rari. Al solito, il fiore era stato essiccato, montato con cura su carta da acquerello e messo sotto vetro in una cornice di tipo semplice nel formato 29 X 16 centimetri.
Il mistero dei fiori non era mai stato reso pubblico, era noto solo a una cerchia ristretta di persone. Tre decenni prima, l'arrivo annuale del fiore era diventato oggetto di analisi presso il laboratorio della scientifica, fra esperti di impronte digitali e grafologi, fra investigatori della polizia, e in un gruppo di parenti e amici del destinatario. Attualmente gli attori del dramma si erano ridotti a tre: l'anziano festeggiato, il poliziotto in pensione e ovviamente la persona sconosciuta che inviava il regalo. Siccome almeno i primi due avevano raggiunto un'età così avanzata che ormai per loro era tempo di prepararsi all'inevitabile, la cerchia degli interessati si sarebbe presto ulteriormente ridotta.
Il poliziotto in pensione era un temprato veterano. Non avrebbe mai dimenticato il suo primissimo intervento, che era consistito nell'arrestare un addetto alla cabina di comando dei segnali delle ferrovie, violento e ubriaco marcio, prima che questi causasse qualche guaio a se stesso o ad altri. Durante la sua carriera aveva messo dentro bracconieri, uomini che maltrattavano le mogli, imbroglioni, ladri d'auto e gente che guidava in stato d'ubriachezza. Aveva incontrato ladri, rapinatori, spacciatori, stupratori e almeno un dinamitardo più o meno pazzo. Aveva partecipato a nove inchieste per omicidio di varia natura. Cinque di queste erano state del genere in cui il colpevole stesso telefona alla polizia e, pieno di rimorsi, confessa di aver ammazzato la moglie o il fratello o qualche altro congiunto. Tre avevano richiesto un'indagine; due dei casi erano stati risolti nell'arco di qualche giorno, e uno dopo due anni con l'aiuto della polizia di stato.
Il nono caso era stato risolto da un punto di vista poliziesco, ossia gli inquirenti sapevano chi era l'assassino, ma le prove erano così deboli che il procuratore aveva deciso di sospendere provvisoriamente le indagini. Col tempo e con grande indignazione del commissario, il reato era caduto in prescrizione. Però in generale poteva dirsi soddisfatto della sua lunga e felice carriera, e di ciò che era riuscito a realizzare.
Invece era tutt'altro che soddisfatto.

martedì 14 febbraio 2012

Siddharta

AUTOREHermann Hesse
GENERE: Romanzo di formazione

TRAMA:

Chi è Siddharta? È uno che cerca, e cerca soprattutto di vivere intera la propria vita. Passa di esperienza in esperienza, dal misticismo alla sensualità, dalla meditazione filosofica alla vita degli affari, e non si ferma presso nessun maestro, non considera definitiva nessuna acquisizione, perché ciò che va cercato è il tutto, il misterioso tutto che si veste di mille volti cangianti. E alla fine quel tutto, la ruota delle apparenze, rifluirà dietro il perfetto sorriso di Siddharta, che ripete il "costante, tranquillo, fine, impenetrabile, forse benigno, forse schernevole, saggio, multirugoso sorriso di Gotama, il Buddha, quale egli stesso l'aveva visto centinaia di volte con venerazione". Siddharta è senz'altro l'opera di Hesse più universalmente nota.

INCIPIT:
IL FIGLIO DEL BRAHMINO
Nell'ombra della casa, sulle rive soleggiate del fiume presso le barche,
nell'ombra del bosco di Sal, all'ombra del fico crebbe Siddharta, il bel figlio del Brahmino, il giovane falco, insieme all'amico suo, Govinda, anch'egli figlio di Brahmino. Sulla riva del fiume, nei bagni, nelle sacre abluzioni, nei sacrifici votivi il sole bruniva le sue spalle lucenti. Ombre attraversavano i suoi occhi neri nel boschetto di mango, durante i giochi infantili, al canto di sua madre, durante i santi sacrifici, alle lezioni di suo padre, così dotto, durante le conversazioni dei saggi. Già da tempo Siddharta prendeva parte alle conversazioni dei saggi, si esercitava con Govinda nell'arte oratoria, nonché nello esercizio delle facoltà di osservazione e nella pratica della concentrazione interiore. Già egli sapeva come si pronuncia impercettibilmente 1'Om, la parola suprema, sapeva assorbirla in se stesso pronunciandola silenziosamente nell'atto di inspirare, sapeva emetterla silenziosamente nell'atto di espirare, con l'anima raccolta, la fronte raggiante dello splendore che emana da uno spirito luminoso. Già egli sapeva, nelle profondità del proprio essere, riconoscere l'Atman, indistruttibile, uno con la totalità del mondo.
Il cuore del padre balzava di gioia per quel figlio così studioso, così avido di sapere; era un grande sapiente, un sommo sacerdote quello ch'egli vedeva svilupparsi in lui: un principe fra i Brahmini.
La gioia gonfiava il petto di sua madre quand'ella lo guardava, quando lo vedeva camminare, quando lo vedeva sedere e alzarsi: Siddharta, così forte, così bello, che procedeva col suo passo snello, che la salutava con garbo così compìto.
L'amore si agitava nel cuore delle giovani figlie dei Brahmini, quando Siddharta passava per le strade della città, con la sua fronte luminosa, con i suoi occhi regali, così slanciato e nobile nella persona.
Ma più di tutti lo amava l'amico suo Govinda, il figlio del Brahmino.
Amava gli occhi di Siddharta e la sua cara voce, amava il suo passo e il garbo perfetto dei movimenti, amava tutto ciò che Siddharta diceva e faceva, ma soprattutto ne amava lo spirito, i suoi alti, generosi pensieri, la sua volontà ardente, la vocazione sublime. Sapeva bene Govinda: questo non diventerà un Brahmino come ce n'è tanti, un pigro ministro di sacrifici, o un avido mercante d'incantesimi, un vano e vacuo retore, un prete astuto e cattivo, e non sarà nemmeno una buona, sciocca pecora nel gregge dei molti. No, e anch'egli, Govinda, non voleva diventare tale, un Brahmino come ce ne son migliaia. Voleva seguire Siddharta, il prediletto, il magnifico. E se un giorno Siddharta fosse diventato un dio, se fosse asceso un giorno nella gloria dei celesti, allora Govinda l'avrebbe seguìto, come suo amico, suo compagno, suo servo, suo scudiere, sua ombra.
Così tutti amavano Siddharta. A tutti egli dava gioia, tutti ne traevano piacere.
Ma egli, Siddharta, a se stesso non procurava piacere, non era di gioia a se stesso.
Passeggiando sui sentieri rosati del frutteto, sedendo nell'ombra azzurrina del boschetto delle contemplazioni, purificando le proprie membra nel quotidiano lavacro di espiazione, celebrando i sacrifici nel bosco di mango dalle ombre profonde, con la sua perfetta compitezza d'atteggiamenti, amato da tutti, di gioia a tutti, pure non portava gioia in cuore. Lo assalivano sogni e pensieri irrequieti, portati fino a lui dalla corrente del fiume, scintillati dalle stelle della notte, dardeggiati dai raggi del sole; sogni lo assalivano, e un'agitazione dell'anima, vaporata dai sacrifici, esalante dai versi del RigVeda, stillata dalle dottrine dei vecchi testi brahminici.
Siddharta aveva cominciato ad alimentare in sé la scontentezza.
Aveva cominciato a sentire che l'amore di suo padre e di sua madre, e anche lo amore dell'amico suo,Govinda, non avrebbero fatto per sempre la sua eterna felicità, non gli avrebbero dato la quiete, non l'avrebbero saziato, non gli sarebbero bastati. Aveva cominciato a sospettare che il suo degnissimo padre e gli altri suoi maestri, cioè i saggi Brahmini, gli avevano già impartito il più e il meglio della loro saggezza, avevano già versato interamente i loro vasi pieni nel suo recipiente in attesa, ma questo recipiente non s'era riempito, lo spirito non era soddisfatto, l'anima non era tranquilla, non placato il cuore. Buona cosa le abluzioni,certo: ma erano acqua, non lavavano via il peccato, non guarivano la sete dello spirito, non scioglievano gli affanni del cuore. Eccellente cosa i sacrifici e la preghiera agli dèi: ma questo era tutto? Davano i sacrifici la felicità? E come stava questa faccenda degli dèi? Era realmente Prajapati che aveva creato il mondo? Non era invece 1'Atman, l'unico, il solo, il tutto? Che gli dèi non fossero poi forme create, come tu e io, soggette al tempo, caduche? Anzi, era poi bene, era giusto, era un atto sensato e sublime sacrificare agli dèi? A chi altri si doveva sacrificare, a chi altri si doveva rendere onore, se non a Lui, allo unico, all'Atman? E dove si poteva trovare 1'Atman, dove abitava, dove batteva il suo eterno cuore, dove altro mai se non nel più profondo del proprio io, in quel che di indistruttibile ógnuno porta in sé? Ma dove, dov'era questo Io, questa interiorità, questo assoluto? Non era carne e ossa, non era pensiero né coscienza: così insegnavano i più saggi. Dove, dove dunque era? Penetrare laggiù, fino all'lo, a me, all'Atman: c'era forse un'altra via che mettesse conto di esplorare? Ahimè! questa via nessuno la insegnava, nessuno la conosceva, non il padre, non i maestri e i saggi, non i pii canti dei sacrifici! Tutto sapevano i Brahmini e i loro libri sacri, tutto, e perfino qualche cosa di più; di tutto s'erano occupati, della creazione del mondo, della natura del linguaggio, dei cibi, dell'inspirare e dell'espirare, della gerarchia dei cinque sensi, dei fatti degli dèi ...cose infinite sapevano ... Ma valeva la pena saper tutto questo, se non si sapeva l'uno e il tutto, la cosa più importante di tutte, la sola cosa importante?
Certo, molti versi dei libri santi, specialmente nelle Upanishad di Samaveda, parlavano di questa interiorità e di quest'assoluto; splendidi versi. « La anima tua è l'intero mondo »: così vi stava scritto. E vi stava scritto che l'uomo nel sonno, nel profondo sonno, penetra nel proprio Io e prende stanza nell'Atman. Meravigliosa saggezza stava in questi versi, tutta la scienza dei più saggi stava qui radunata in magiche parole, pura come miele. No, non si doveva certo far poco conto della prodigiosa conoscenza che qui era stata raccolta e conservata da innumerevoli genera- zioni di Brahmini. Ma dov'erano i saggi, dove i sacerdoti o i penitenti, ai quali fosse riuscito, non soltanto di conoscerla, questa profondissima scienza, ma di viverla? Dove era l'esperto che sapesse magicamente richiamare dal sonno allo stato di veglia l'esperienza dell'Atman, ricondur- la nella vita quotidiana, nella parola e nell'azione? Molti degni Brahmini conosceva Siddharta, suo padre prima di tutti, il puro, il dotto, degno sopra ogni altro. Ammirabile era suo padre, nobile e calmo il suo contegno, pura la sua vita, saggia la sua parola, squisiti e alti pensieri avevan dimora dietro la sua fronte... ma anche lui, che tanto sapeva, viveva forse nella beatitudine, possedeva la pace, non era anche lui soltanto un uomo che cerca, un assetato? Non doveva egli sempre riattingere, come un assetato, alle sacre fonti, sacrifici, libri, conversazioni dei Brahmini? Perché doveva anche lui, l'irreprensibile, purificarsi ogni giorno dal peccato, affannarsi per le abluzioni, sempre da capo, ogni giorno? Dunque non era in lui 1'Atman, non zampillava nel suo cuore la fonte originaria? Eppure era questa che bisognava trovare: scoprire la fonte originaria nel proprio Io, e impadronirsene! Tutto il resto era ricerca, era errore e deviazione.
Tali erano i pensieri di Siddharta, questa era la sua sete, questo il suo tormento.

sabato 11 febbraio 2012

Super Santos

AUTORERoberto Saviano
GENERE: Romanzo di formazione

TRAMA:

Quattro amici, quattro ragazzini che diventeranno uomini in una terrra in cui crescere è un lusso da pagare caro. La passione per il calcio vissuta nelle strade di Gomorra, inseguendo un pallone arancio fuoco. Roberto Saviano, ispirato da un vicenda realmente accaduta, mette in scena un racconto perfetto, preciso come una punizione messa a segno, straziante come un rigore sbagliato.

INCIPIT:
E’ una regola eterna. Immutabile. E bisognerebbe riuscire a tovare una formula matematica. O quantomeno una riduzione numerica, una frase aritmetica, un tentativo di proporzione, un delirio logaritmico. Insomma, qualcosa che ne dimostri l’assoluta scientificità. Si dovrebbe trovare una traccia formale per poter comprendere i meccanismi ineluttabili e perenni che regolano le partite di calcio di strada. Il chiattone in porta, quello smilzo e veloce davanti, il robusto in difesa e quelli che restano a centrocampo. Lì possono andare tutti: quello che non i piedi buoni ma sa lanciare, quello che sa correre veloce ma ha il fiato corto, quello muscoloso ma non abbastanza stabile. Insomma, a centrocampo va messo quello che sa fare tutto a metà. Ora però rispetto a qualche anno fa ci sono delle varianti. Quando ero ragazzo i portieri erano i peggiori. E la porta era una punizione tra le più umilianti. Un posto dove vedere la partita da lontano e ricevere dolorose pallonate in faccia che ti segnavano in viso di rosso per settimane. Un ruolo che ti costringeva a raccogliere la colpa del gol subìto e a essere ignorato dagli abbracci del gol realizzato. Piuttosto che un giocatore, un portiere era un raccattapalle mobile. Un ruolo terribile. Spesso il posto del portiere era sopportato a turno, ma quando non si trovava nessuno da umiliare in porta, da poter soggiogare nelle retrovie, quando insomma tutti i giocatori erano capaci di tener testa, allora si sceglieva di giocare a “porta americana”. Senza portiere. Due squadre si fronteggiavano cercando di segnare in un’unica porta con nessuno a difenderla: a turno, la quadra difende o attacca, alternandosi nei ruoli dopo ogni gol. Non mi è chiao perché questa modalità sia stata definita all’americana.
Una volta ero in macchina con un gruppo di ragazzi ubriachi, tornavamo da una festa e questi aprirono le quattro portiere dell’auto mentre correvano su una strada sterrata urlando “andiamo all’americana”.
A Maddaloni c’è una pizzeria che serve pizze all’americana: su un piccolo treppiedi messo al centro del tavolo arrivano enormi ruote con diversi condimenti. Enormi, esagerate, “all’americana” appunto. Tutto quello che è strano e insensato o forse semplicemente fuori dal comune, come giocare senza portiere, mangiare una pizza enorme con sopra tutto, o rischiare da idioti un incidente mortale, viene definito “americano”.

Oggi invece i portieri sono stati rivalutati. Ora sono campioni, hanno donne bellissime, vincono Palloni D’oro, hanno un ruolo decisivo, la loro non è una condizione obbligata perché non sanno fare altro. Così molti ragazzini scelgono di fare il portiere. I chiattoni della squadra non si sentono più esiliati nelle retrovie, ma prescelti per difendere l’ultimo baluardo.
Nel centro storico di Napoli, tutti i ragazzini neri vanno in porta da quando il Milan ha acquistato un portiere brasiliano di colore, non proprio un campione, Dida.
Un po’ come quei ragazzi che vengono dall’Argentina e godono di assoluta fiducia nelle proprie capacità sportive grazie a Maradona. Dopo la crisi argentina del 2000 che ha prosciugato i risparmi della piccola e media borghesia, sono sbarcati a Napoli molti argentini i cui antenati erano partiti cento anni prima dal Golfo. Ora i loro nipoti, dopo aver implorato nelle ambasciate italiane il passaporto di ritorno che i loro avi avrebbero strappato volentieri, sono tornati a abitare nei quartieri da cui erano fuggiti gli emigranti. Un percorso inverso che mai avrebbero immaginato di dover fare. I ragazzi dai cognomi italiani e nomi latinoamericani sono tornati a giocare per i vicoli dei loro trisavoli, a battere calci d’angolo sui piedi delle statue come i loro bisnonni. A quei ragazzini il solo provenire dalla terra di Maradona, il solo avere una cadenza simile a quella del Pibe de Oro basta a concedere subito un carisma infinito e una certezza di bravura. Anche se sono incapaci e brocchi.
Il tocco – così al sud chiamiamo la conta che avviene tra i due capisquadra per scegliere i giocatori – è un vero laboratorio antropologico. I capisquadra sono i più bulli, non sempre i più bravi. Anzi, quasi mai lo sono. Ma sanno fare scivolate violente rovinando le caviglie, dare testate mirando al naso, sputare con una mira da cecchino e beccare sempre la pupilla ben aperta. Sono quelli che sanno farla pagare a chi buca il pallone o lo fa finire dietro ad una cancellata. Ma nel tocco non c’è abilità o bravura. Il tocco è determinato dall’arbitrio delle dita lanciate davanti alle pance: solo caso e fortuna. In genere il primo ad essere scelto è l’attaccante di talento, se però la squadra inizia a comporsi di brocchi, quella prima scelta diventa una condanna che non lascia alcuna speranza di vittoria. Allora spesso accade che mentre si compone la squadra, che può essere di tre, quattro, cinque o sei persone, il giocatore più forte si accorge chiaramente che il tocco gli è andato storto e il caposquadra sta scegliendo gli scarti. Così non gli rimane che gettarsi a terra e piangere. Sena vergogna alcuna, perché la vergogna di piangere nasce solo quando subisci uno schiaffo, ma piangere contro i destino del tocco è l’unico modo per tentare di rimischiare le dita e ricominciare da capo, e non c’è vergogna a protestare contro la cattiva sorte.
Spesso non cambia nulla, ma a volte può capitare che qualcuno rimescoli tutto e tenti di rifare le squadre, pur di far cessare il pianto.


giovedì 9 febbraio 2012

Altà Fedeltà

AUTORE: Nick Hornby
GENERE: Romanzo di formazione

TRAMA:

Le avventure, gli amori, le disillusioni e i sogni di un giovane londinese, amante della musica e abbandonato da una fidanzata. Una rappresentazione della gioventu di oggi che si rifiuta di diventare grande.

INCIPIT:
Ecco, per stilare una classifica, le cinque più memorabili fregature di tutti i tempi, in ordine cronologico:
1) Alison Ashworth 2) Penny Hardwick 3) Jackie Alien
4) Charlie Nicholson 5) Sarah Kendrew.
Ecco quelle che mi hanno ferito davvero. Ci vedi forse il tuo nome lì in mezzo, Laura? Ammetto che rientreresti fra le prime dieci, ma non c'è spazio per te fra le prime cinque; sono posti destinati a quel genere di umiliazioni e di strazi che tu semplicemente non sei in grado di appioppare. Questo forse suona più cattivo di quanto vorrei, ma il fatto è che noi siamo troppo cresciuti per rovinarci la vita a vicenda, e questo è un bene, non un male, per cui se non sei in classifica, non prenderla sul piano personale. Quei tempi sono passati, e che liberazione, cazzo; l'infelicità significava davvero qualcosa, allora. Adesso è solo una seccatura, un po' come avere il raffreddore o essere al verde. Se volevi veramente incasinarmi, dovevi arrivare prima.
1. Alison Ashworth (1972)
Quasi tutti i pomeriggi, ciondolavamo ai giardinetti che stavano proprio dietro casa mia. Vivevo nello Hertfordshire, ma avrebbe potuto benissimo trattarsi di un qualsiasi sobborgo inglese: il solito genere di sobborgo, col solito genere di giardi-
netti - a tre minuti da casa, giusto dall'altra parte della strada, davanti a una breve fila di negozi (un supermercato VG, un giornalaio, un negozio di liquori). Niente ti aiutava a orientarti; se i negozi erano aperti (e chiudevano alle cinque e mezza, e all'una il giovedì, e per tutto il giorno la domenica), magari potevi andare dal giornalaio e dare un'occhiata al giornale locale, ma anche questo non era detto che ti mettesse sulla pista giusta.
Avevamo dodici o tredici anni, e avevamo scoperto da poco l'ironia - o almeno, quella che poi compresi essere l'ironia: ci sentivamo Uberi di usare l'altalena, la giostra e gli altri giochi per bambini che arrugginivano lì ai giardinetti, solo a condizione di ostentare una specie di distacco voluto e ironico. Il che implicava o affettare distrazione (e in questo caso si poteva fischiettare, o chiacchierare, o giocherellare con un mozzicone di sigaretta o con una scatola di fiammiferi); oppure sfidare il pericolo, e quindi buttarsi dall'altalena quando toccava il punto più alto, saltare dalla giostra quando era lanciata al massimo della velocità, o aggrapparsi al dondolo finché non raggiungeva una posizione quasi verticale. Se in un modo o nell'altro riuscivi a dimostrare che in questi divertimenti infantili potevi rischiarci la pelle, allora giocarci diventava ok.
Non avevamo ironia, però, in fatto di ragazze. Non c'era stato tempo. Un attimo non esistevano, almeno non in un qualche modo per noi interessante, e l'attimo dopo non potevi evitarle: erano
dappertutto, erano ovunque. Un attimo avevi voglia di dargli una botta in testa perché erano tua sorella, o la sorella di qualcun altro, e l'attimo dopo volevi... in realtà, non sapevamo mica cosa volessimo dopo, ma era qualcosa, qualcosa. Quasi all'improvviso, tutte queste sorelle (non esisteva al- tro tipo di ragazze, non ancora) erano diventate interessanti, persino inquietanti.
Vedi, noi non eravamo tanto diversi da prima. C'era venuta la voce stridula, ma la voce stridula non è un grande aiuto - ti rende ridicolo, indesiderabile. E i peli che ci stavano spuntando sul pube erano il nostro segreto, un segreto strettamente conservato fra noi e i nostri slip, e sarebbero passati anni prima che un membro del sesso opposto verificasse che erano
proprio dove dovevano essere. Le ragazze, invece, tutto ad un tratto avevano il seno e, insieme a quello, un nuovo modo di camminare con le braccia incrociate sul petto, un atteggiamento che nascondeva e allo stesso tempo evidenziava quanto era appena accaduto. E poi ecco trucco e profumo, sempre da quattro soldi, e usati in modo inesperto, a volte persino comico, ma comunque un segno piuttosto terrificante di come le cose fossero andate avanti a nostra insaputa, senza di noi, al di là di noi.
Cominciai a uscire con una di queste ragazze... no, non è esatto, perché io non ebbi alcuna parte nella decisione. Ma nemmeno posso dire che lei cominciò a uscire con me. Il problema sta nell'espressione « uscire con », che sottintende una sorta di parità ed eguaglianza. Invece ciò che accadde fu che Alison, la sorella di David Ashworth, si staccò dal capannello femminile che si raccoglieva tutte le sere vicino alla panchina e mi adottò, mi mise sotto la sua ala e mi portò via dal dondolo.
Adesso non riesco più a ricordare come fece. Credo che lipperlì nemmeno mi resi conto di quanto stava succedendo, ricordo infatti che a metà strada verso il nostro primo bacio, il primo bacio della mia vita, provai una sensazione di totale sbigottimento: non mi capacitavo che Alison Ashworth e io fossi- mo diventati tanto intimi. Non sapevo con precisione nemmeno come fossi finito dalla sua parte dei giardinetti, lontano da suo fratello, da Mark Godfrey e dagli altri, né come ci fossimo allontanati dal gruppo delle sue amiche, né come lei avesse avvicinato la sua faccia alla mia facendomi capire che dovevo mettere la mia bocca sulla sua. Tutto l'episodio è al di là di qualsiasi spiegazione razionale. Ma le cose andarono proprio così, e si ripeterono, pressoché uguali, il pomeriggio dopo, e quello dopo ancora.
Cosa credevo di fare? E lei cosa credeva di fare? Adesso, se mi viene voglia di baciare qualcuna in quel modo lì, con la bocca, la lingua e tutto il resto, è perché voglio anche altre cose: sesso, venerdì sera al cinema, compagnia e conversazione, fusione della rete famigliare e amicale, che mi si porti lo sciroppo a letto quando sono malato, un paio di cuffie nuove per ascoltare i miei dischi e i miei ed, e forse un bambino che si chiamerà Jack e una bambina che si chiamerà Holly o Maisie, non ho ancora deciso. Ma non volevo nessuna di queste cose da Alison Ashworth. Non i bambini, perché eravamo noi i bambini, non i venerdì sera al cinema, perché al cine ci andavamo il sabato mattina, non il Lempsis, perché a quello ci pensava mamma, e men che meno il sesso, soprattutto non il sesso, per l'amor di Dio non il sesso, l'invenzione più disgustosa e terrificante dei primi anni settanta.
Allora cosa significava quella lingua in bocca? In realtà, non significava un bel niente; eravamo come persi nel buio. In parte era imitazione (persone che fino allora avevo visto baciarsi: James Bond, Simon Templar, Napoleon Solo, Barbara Windsor e Sid James e forse Jim Dale, Elsie Tanner, Omar Sharif e Julie Christie, Elvis, e un sacco di altra gente in bianco e nero - che però baciandosi non dimenava la testa qui e là -che mamma voleva sempre guardare in tivù); in parte era schiavitù ormonale; in parte era la pressione del gruppo dei coetanei (Kevin Bannister ed Elizabeth Barnes era già un paio di settimane che ci davano dentro); e in parte ancora era cieco panico... Non c'era coscienza, né desiderio, né piacere, se si esclude un calore ignoto e moderatamente gradevole nelle viscere. Eravamo come due animaletti, il che non significa che di lì a qualche giorno ci strappassimo i vestiti di dosso; bensì soltanto che, in senso metaforico, avevamo cominciato ad annusarci i rispettivi posteriori, e non trovavamo l'odore del tutto repellente.
Ma senti, Laura, il quarto pomeriggio, arrivai ai giardinetti e Alison era seduta là, sulla panchina, abbracciata a Kevin Bannister, e di Elizabeth Barnes nemmeno l'ombra. Nessuno disse niente - non Alison, né Kevin, né io, né i maschi ritardati che ancora non erano stati iniziati al sesso e ciondolavano attorno al dondolo. Mi sentii avvampare, arrossii, e tutto a un tratto non seppi più come camminare senza essere consapevole di ogni singola parte del mio corpo. Cosa fare? Dove andare? Non volevo litigare; non volevo sedermi con quei due; non volevo andare a casa. Così, concentrandomi fortemente sui pacchetti vuoti di sigarette N.6 che costituivano il confine fra la zona dei maschi e quella delle femmine, senza guardare né
su né indietro, né da un lato né dall'altro, girai i tacchi e tornai verso il branco maschile raccolto attorno al dondolo. Ero a metà strada quando commisi il mio unico errore: mi fermai e guardai l'orologio, ma che mi pigli un colpo se so cosa volessi dare a intendere, o chi credessi di imbrogliare. Dopo tutto, che genere di ora potrebbe obbligare un ragazzino di tredici anni a scappare via da una ragazzina e a dirigersi verso un campo giochi, le mani che sudano, il cuore che batte a mille, cercando disperatamente di non piangere? Certamente non le quattro di un pomeriggio di un giorno di fine settembre.
Scroccai una cicca a Mark Godfrey e andai a sedermi per conto mio sul dondolo.
« Puttana Eva », disse duro David, il fratello di Alison, e io gli sorrisi grato.
Tutto qui. Dove avevo sbagliato? Primo incontro: giardinetti, sigaretta, pomiciata. Secondo incontro:
idem. Terzo incontro: idem. Quarto incontro: scaricato. Ok, ok. Forse avrei dovuto vedere i segni premonitori. Forse me l'ero voluta. Forse il pomeriggio del secondo idem avrei dovuto capire che ci eravamo fossilizzati, che avevo lasciato che le cose ristagnassero al punto da spingerla a cercare qualcun altro. Ma lei avrebbe anche potuto cercare di parlarmi! Avrebbe potuto darmi almeno un altro paio di giorni per provare a riaggiustare le cose!
Il mio rapporto con Alison Ashworth era durato in tutto sei ore (le due ore che andavano dalla uscita da scuola al primo telegiornale della sera, per tre volte), così non potevo pretendere di essermi abituato ad averla vicina e di non sapere più cosa fare di me. In realtà adesso di lei non ricordo quasi più niente. Capelli lunghi e neri? Può essere. Piccolina? Sicuramente più piccola di me. Occhi a mandorla, quasi da orientale, carnagione scura? Forse è lei, forse è un'altra. Chissà. Comunque, se dovessi rifare la classifica secondo il dolore provato, anziché in ordine cronologico, Alison passerebbe dritta dal primo al secondo posto. Sarebbe bello pensare che poi sono cresciuto e i tempi sono cambiati, e i rapporti sono diventati più profondi, le donne meno crudeli, la suscettibilità meno accesa, le reazioni più veloci, gli istinti più maturi. Eppure tutto quello che mi è accaduto da allora a oggi mi sembra che con- rò, non m'interessavano per niente le qualità, mi interessavano solo i seni, e di conseguenza Penny non faceva per me.
Mi piacerebbe poter dire che fra noi si svolsero lunghe, interessanti conversazioni, e che restammo buoni amici per tutta l'adolescenza - sarebbe stata perfetta come amica - ma mi sa che non parlammo mai. Noi andavamo al cinema, alle feste e in discoteca, e lottavamo. Lottavamo nella sua camera da letto, e nelle camere da letto delle case delle feste, e nei soggiorni delle case delle feste, e quando arrivò l'estate lottammo in diversi prati. Lottavamo sempre per la stessa vecchia questione. Certe volte mi veniva una tale noia a cercare di toccarle il seno, che provavo a toccarla in mezzo alle gambe; era come chiedere in prestito cinque sterline, sentirsi dire di no, e allora chiederne cinquanta.
Queste le domande più frequenti fra i ragazzi della mia scuola (una scuola solo maschile): «Hai combinato niente? »; « Ti lascia fare niente? »; « Cosa ti lascia fare? » e così via. Certe volte le domande erano derisorie, e sottintendevano la risposta « No ». « Non stai combinando niente, eh? »; « Non si è fatta toccare nemmeno un po' le tette, eh? » Le ragazze, dal canto loro, dovevano accontentarsi della voce passiva. Penny usava l'espressione « essere presa ». « Non voglio ancora essere presa », mi spiegava in tono paziente e forse un po' mesto (sembrava che prevedesse di doversi arrendere, un giorno o l'altro, non adesso, e che quando fosse accaduto, non le sarebbe piaciuto affatto), togliendosi la mia mano dal petto per la centomilionesima volta. Attacco e difesa, invasione e resistenza... era come se i seni fossero proprietà che il sesso opposto aveva annesse illegalmente; mentre appartenevano a noi, le rivolevamo indietro.

Il ritratto di Dorian Gray

AUTORE: Oscar Wilde
GENERE: Romanzo

TRAMA:
Apparso nel 1890 e accolto dalla critica vittoriana con scandalo e furiose polemiche, "Il ritratto di Dorian Gray" costituisce una sorta di manifesto del decadentismo inglese. Il romanzo narra la vicenda del bellissimo Dorian che ottiene di conservare intatte gioventù e avvenenza, nonostante le mille dissolutezze cui si abbandona. Sarà infatti un suo ritratto, tenuto opportunamente nascosto, a invecchiare al suo posto. Libro che è quasi un compendio della "filosofia" wildiana nella sua ricerca della sensazione intensa e rara, nella negazione di ogni credo o sentimento che il piacere, "Il ritratto di Dorian Gray" sottolinea con forza la supremazia dell'artista sulle leggi morali e sulle convenzioni sociali. Idee che Wilde praticò e pagò in prima persona, volendo "vivere la propria vita come un'opera d'arte" e difendendo, attraverso la grazia scherzosa e paradossale del suo inimitabile stile, i valori dell'arte, della cultura, dell'uomo.

INCIPIT:
Lo studio era pervaso dall'odore intenso delle rose e, quando tra gli alberi del giardino spirava la leggera brezza estiva, dalla porta spalancata entrava l'intenso odore dei lillà, o il più delicato profumo dei fiori rosa dell'eglantina. Dall'angolo del divano di coperte da sella persiane, sul quale era sdraiato, fumando com'era sua abitudine
innumerevoli sigarette, Lord Henry Wotton coglieva lo splendore dei fiori di liburno del colore e della dolcezza del miele, i cui tremuli rami parevano appena sopportare il peso della loro fiammeggiante bellezza. Ogni tanto, l'ombra fantastica di un uccello in volo saettava, con un fuggevole effetto giapponese, sulle lunghe tende di seta grezza tese dinanzi all'enorme finestra ricordandogli quei pittori di Tokio dal viso di pallida giada che, con i mezzi di un'arte necessariamente immobile, cercano di rendere il senso della velocità e del moto. Il cupo ronzio delle api che vagavano tra le alte erbe non falciate o roteavano con monotona insistenza intorno agli stami coperti di polvere dorata degli sparsi caprifogli sembrava rendere ancora più opprimente la sensazione di immobilità. Il rombo sommesso della città di Londra ricordava le note basse di un organo lontano.
In mezzo alla stanza, fissato a un cavalletto, stava il ritratto a figura intera di un giovane di straordinaria bellezza e di fronte, poco lontano, sedeva l'autore, Basil Hallward, la cui improvvisa scomparsa alcuni anni prima aveva suscitato tanto scalpore e fatto sorgere tante strane congetture.
Mentre il pittore guardava la forma bella e piena di grazia che con tanta abilità artistica aveva raffigurato, un sorriso di compiacimento gli attraversò il volto e parve volervisi fermare. Ma, improvvisamente, si alzò e chiudendo gli
occhi posò le dita sulle palpebre, come se volesse tener prigioniero nella mente uno strano sogno da cui temeva ridestarsi.
«È la tua opera migliore, Basil, la più bella cosa che hai mai fatto,» disse languido Lord Henry. «Devi assolutamente esporla al Grosvenor. L'Accademia è troppo grande e troppo volgare. Ogni volta che ci sono andato c'era tanta di quella gente che non sono riuscito a vedere i quadri, il che è tremendo, oppure tanti di quei quadri che non sono riuscito a vedere la gente, il che è anche peggio. Davvero, il Grosvenor è l'unico posto possibile.»
«Penso che non lo esporrò in nessun posto,» rispose il pittore gettando all'indietro il capo in quello strano modo che provocava le risate dei suoi compagni di Oxford. «No, non lo esporrò in nessun posto.»
Lord Henry inarcò le sopracciglia e lo guardò stupito attraverso le sottili spire di fumo che salivano in fantastici arabeschi dalla sigaretta grevemente oppiata. «Non vuoi esporlo? Perché, mio caro amico? C'è qualche motivo? Che strani tipi siete, voi pittori! Fate qualunque cosa per ottenere una reputazione, poi non appena l'avete raggiunta pare che la vogliate gettare via. È una sciocchezza, perché al mondo c'è una sola cosa peggiore del far parlare di sé ed è il non far parlare di sé. Un ritratto come questo ti porrebbe più in alto di tutti i giovani inglesi e ti farebbe invidiare dai vecchi, posto che i vecchi siano in grado di provare emozioni.»
«So che riderai di me,» rispose il pittore, «ma non posso davvero esporlo. Vi ho messo dentro troppo di me.» Lord Henry si allungò sul divano ridendo.
«Sì, sapevo che avresti riso; comunque è proprio vero.»
«Troppo di te! Parola mia, Basil, non ti credevo così vanitoso; e non riesco proprio a trovare nessuna
rassomiglianza tra te, con quel tuo viso forte e marcato e i capelli neri come il carbone, e questo giovane Adone che pare fatto di avorio e petali di rosa. Infatti, mio caro Basil, lui è un Narciso e tu... ecco, naturalmente hai un'espressione intelligente e tutto il resto, ma la bellezza, la vera bellezza, finisce dove inizia l'espressione intelligente. L'intelletto è di per se stesso una sorta di eccesso e in qualunque volto distrugge l'armonia. Non appena uno comincia a pensare, diventa tutto naso o tutta fronte, oppure qualcosa di orrendo. Guarda quelli che hanno avuto successo nelle professioni intellettuali. Sono assolutamente disgustosi. Eccetto, naturalmente, gli uomini di chiesa. Ma, del resto, gli uomini di chiesa non pensano. A ottant'anni un vescovo continua a ripetere quello che gli è stato insegnato a diciotto e, come naturale conseguenza, ha sempre un aspetto delizioso. Questo tuo misterioso amico di cui non mi hai mai detto il nome, ma il cui ritratto trovo davvero affascinante, non pensa mai. Ne sono assolutamente sicuro. È una creatura bella e priva di cervello, una creatura che si dovrebbe avere sempre vicina d'inverno, quando non ci sono fiori da ammirare e d'estate, quando si sente il bisogno di qualcosa che rinfreschi l'intelligenza. Non illuderti, Basil, non gli assomigli minimamente.»
«Non mi hai capito, Harry,» replicò l'artista. «Naturalmente non gli assomiglio. Lo so perfettamente. In realtà mi dispiacerebbe assomigliargli. Scuoti le spalle? No, dico la verità. In ogni genere di distinzione, sia intellettuale che fisica, c'è una fatalità, quel genere di fatalità che, nella storia, pare in agguato sui passi incerti dei re. È meglio non essere diversi dal nostro prossimo. I brutti e gli stupidi hanno la parte migliore del mondo. Possono mettersi seduti a loro agio e godersi lo spettacolo. Se della vittoria non sanno nulla, gli viene perlomeno risparmiata la consapevolezza della sconfitta. Vivono come tutti dovremmo vivere: senza turbamenti, indifferenti e senza preoccupazioni. Non fanno male agli altri e non ricevono male da mani altrui. La tua nobiltà e la tua ricchezza, Harry, la mia intelligenza, per quel che può essere, la mia arte per quel che può valere, la bellezza di Dorian Gray: tutti soffriremo di ciò che gli dei ci hanno donato, ne soffriremo terribilmente tutti.»
«Dorian Gray? Si chiama così?» domandò Lord Henry, muovendosi verso Basil Hallward.
«Sì, si chiama così. Non volevo dirtelo.»
«Perché no?»
«Oh, non saprei spiegartelo. Quando una persona mi piace moltissimo, non dico mai a nessuno il suo nome. È
come cederne una parte. Sono giunto ad amare la segretezza. Pare essere l'unica cosa che può renderci piena di meraviglia e di mistero la vita moderna. Basta nasconderla, e la più banale delle cose diventa deliziosa. Quando parto da Londra, non dico mai ai miei dove vado. Se lo dicessi, perderei ogni piacere. È una stupida abitudine, certo, ma in un certo qual modo pare che porti una grossa dose di romanticismo nella nostra vita. Immagino che mi riterrai tremendamente stupido.»
«Niente affatto,» rispose Lord Henry, «niente affatto. Forse dimentichi che sono sposato e l'unico elemento di fascino del matrimonio sta nella necessità di una vita di inganni tra i coniugi. Io non so mai dov'è mia moglie e lei non sa mai che cosa sto facendo. Quando ci incontriamo, succede qualche volta, se usciamo insieme a cena o andiamo dal duca, ci raccontiamo con l'espressione più seria le cose più assurde. In questo mia moglie è molto brava, molto più brava di me. Non confonde mai i suoi appuntamenti, mentre a me capita regolarmente. Ma quando mi coglie in fallo, non mi fa scenate. A volte vorrei che me le facesse, ma lei si limita a prendermi in giro.»
«Non sopporto il modo che hai di parlare della tua vita matrimoniale, Harry,» disse Basil Hallward, dirigendosi verso la porta che dava sul giardino. «Ritengo che tu sia un ottimo marito, ma che ti vergogni moltissimo delle tue virtù. Sei un tipo straordinario. Non dici mai una sola parola morale e non fai mai una cosa sbagliata. Il tuo cinismo è semplicemente una posa.»
«La naturalezza è semplicemente una posa, e la più irritante che conosca,» esclamò Lord Henry ridendo. I due uomini uscirono insieme nel giardino e si accomodarono su un lungo sedile di bambù all'ombra di un alto cespuglio di alloro. Il sole scivolava sulle foglie lucide, bianche margherite fremevano nell'erba.
Dopo una pausa, Lord Henry estrasse l'orologio. «Mi dispiace, Basil, ma devo andare,» mormorò, «e prima di andarmene vorrei che tu rispondessi a una domanda che ti ho fatto poco fa.»
«Quale domanda?» domandò il pittore, tenendo gli occhi fissi a terra.
«Lo sai benissimo.»
«Non lo so, Harry.»
«Bene, te la ripeterò. Voglio che tu mi spieghi perché non vuoi esporre il ritratto di Dorian Gray. Voglio sapere
il vero motivo.»
«Te l'ho detto.»
«No. Hai detto che non volevi, perché in esso c'era troppo di te. Ora, questo è infantile.»
«Harry,» disse Basil Hallward, guardandolo negli occhi, «ogni ritratto dipinto con sentimento è un ritratto dell'artista, non del modello. Il modello è solamente un accidente, l'occasione. Non è lui quello che viene rivelato dal pittore; è piuttosto il pittore che sulla tela dipinta rivela se stesso. Il motivo per cui non esporrò questo quadro è che ho il timore di avervi messo in evidenza il segreto della mia anima.»
Lord Henry rise. «E qual è questo segreto?»
«Te lo dirò,» disse Hallward, ma sul viso gli apparve un'espressione perplessa.
«Sono impaziente, Basil,» insistette l'amico lanciandogli un'occhiata.
«Oh, c'è davvero molto poco da dire, Harry,» rispose il pittore, «e temo che ti sarà difficile capirlo. Forse non
lo crederai nemmeno.»
Lord Henry sorrise, si chinò a raccogliere nell'erba una margherita dai petali rosati e la esaminò. «Sono sicuro
che ti capirò,» replicò fissando attentamente il minuscolo disco d'oro piumato di bianco, «e per quanto riguarda il credere, posso credere a qualunque cosa purché sia del tutto incredibile.»
Il vento fece cadere alcuni boccioli dagli alberi e i pesanti lillà con i loro grappoli di stelle oscillarono nell'aria languida. Accanto al muro una cavalletta cominciò a emettere il suo lieve stridio e una lunga e sottile libellula fluttuò nell'aria come un filo azzurro sulle ali di seta bruna. Lord Henry aveva l'impressione di percepire il palpito del cuore di Basil Hallward. Si chiese che cosa stesse avvenendo.
«La storia è semplicemente questa,» disse il pittore dopo qualche attimo. «Due mesi fa andai a un ricevimento da Lady Brandon. Sai che noi poveri artisti di tanto in tanto ci dobbiamo far vedere in società, solo per ricordare al pubblico che non siamo selvaggi. Sei stato tu una volta a dirmi che, con un abito da sera e una cravatta bianca, chiunque, persino un agente di cambio, può guadagnarsi la reputazione di creatura civile. Bene, mi trovavo nella stanza da una decina di minuti e stavo parlando con enormi matrone troppo vestite e con noiosi accademici, quando improvvisamente mi resi conto che qualcuno mi stava guardando. Mi girai a metà e per la prima volta vidi Dorian Gray. Quando i nostri occhi si incontrarono mi sentii impallidire. Fui preso da una strana sensazione di terrore. Mi rendevo conto di trovarmi di fronte a un uomo il cui semplice fascino personale era tale che, se mi fossi lasciato andare, se glielo avessi permesso, avrebbe assorbito in sé la mia vera natura, la mia vera anima, persino la mia arte. Non voglio influenze esterne nella mia vita. Tu stesso, Harry, sai quanto io sia indipendente di natura. Sono sempre stato padrone di me stesso o almeno lo sono stato finché non ho incontrato Dorian Gray. Allora... ma non so come spiegartelo. Qualcosa pareva dirmi che ero sull'orlo di una terribile crisi. Avevo la strana sensazione che il destino avesse in serbo per me gioie squisite e squisite tristezze. Ebbi paura e mi voltai per lasciare la stanza. Non era la coscienza che mi spingeva a farlo, quanto piuttosto una sorta di viltà. Non mi vanto di aver cercato di fuggire.»
«La coscienza e la viltà sono esattamente la stessa cosa, Basil. La coscienza è semplicemente il marchio di fabbrica della ditta: tutto qui.»
«Non credo, Harry, e non credo nemmeno che tu ne sia convinto. In ogni modo, qualunque fosse il motivo, può anche darsi che fosse l'orgoglio, dato che sono molto orgoglioso, è certo che mi diressi decisamente verso la porta. E qui, naturalmente, inciampai in Lady Brandon. "Non intenderà lasciarci così presto, signor Hallward?" gridò. La conosci quella sua voce stranamente stridula.»
«Sì, assomiglia in tutto a un pavone, fuorché nella bellezza,» disse Lord Henry, facendo a pezzi la margherita con le lunghe dita nervose.
«Non riuscii a liberarmi di lei. Mi portò dalle Altezze Reali, da gente con Stelle e Giarrettiere, da vecchie dame con diademi giganteschi e nasi da pappagallo. Parlava di me come se fossi il suo più caro amico. In precedenza l'avevo incontrata solo una volta, ma si era messa in testa di esibirmi. Mi pare che in quel periodo uno dei miei quadri avesse riscosso un grande successo, o perlomeno se ne era parlato sui quotidiani popolari che nel diciannovesimo secolo rappresentano il sigillo dell'immortalità. E, improvvisamente, mi trovai faccia a faccia con il giovane la cui personalità mi aveva così stranamente turbato. Eravamo vicinissimi, quasi ci toccavamo. I nostri occhi si incontrarono una volta ancora. Fu un atto incauto da parte mia, ma chiesi a Lady Brandon di presentarmelo. Forse, dopotutto, non fu un atto così incauto: era semplicemente inevitabile. Ci saremmo parlati anche senza nessuna presentazione, ne sono certo. In seguito Dorian me lo disse. Anche lui aveva avuto la sensazione che fossimo destinati a conoscerci.»
«E che cosa ti disse Lady Brandon di questo meraviglioso giovane?» domandò l'amico. «So che si dedica sempre a esporre un breve précis di tutti i suoi ospiti. Ricordo che una volta mi presentò a un vecchio gentiluomo dall'aria truculenta e dal volto scarlatto tutto coperto di nastri e decorazioni, sussurrandomi all'orecchio in un tragico bisbiglio, che probabilmente fu udito da tutti nella stanza, particolari stupefacenti. Semplicemente, scappai. Mi piace scoprire la gente da solo. Ma Lady Brandon tratta i suoi ospiti esattamente come un banditore tratta la sua merce: o li presenta in forma completamente sbagliata, oppure dice sul loro conto tutto, salvo quello che uno desidera sapere.»
«Povera Lady Brandon! Sei duro con lei!» disse Hallward distrattamente.
«Mio caro, ha cercato di mettere in piedi un salon ed è riuscita solo ad aprire un ristorante. Come potrei ammirarla? Ma, dimmi, che cosa ti ha detto del signor Dorian Gray?»
«Oh, qualcosa come "Un ragazzo affascinante... la sua povera madre e io eravamo davvero inseparabili. Non ricordo assolutamente che cosa faccia... temo che... non faccia nulla... oh, sì, suona il pianoforte... o il violino, signor Gray?" Scoppiammo a ridere tutti e due e diventammo subito amici.»
«Il ridere non è un brutto modo per iniziare un'amicizia, ed è senz'altro il migliore per terminarla,» disse il giovane Lord, cogliendo un'altra margherita.
Hallward scosse il capo. «Tu non sai che cosa sia l'amicizia, Harry,» mormorò, «né che cosa sia l'inimicizia, del resto. A te piace chiunque, il che equivale a dire che tutti ti sono indifferenti.»
«Sei terribilmente ingiusto!» esclamò Lord Henry spingendo all'indietro il cappello e alzando lo sguardo verso le piccole nubi che, come intricate matasse di lucente seta bianca, veleggiavano nel cavo turchese del cielo estivo. «Sì, sei terribilmente ingiusto. Io faccio molta differenza tra le persone. Scelgo gli amici per la bellezza, i conoscenti per il buon carattere e i nemici per l'intelligenza. Non si è mai abbastanza attenti nella scelta dei propri nemici. Io non ne ho nemmeno uno che sia stupido. Sono tutti persone dalle notevoli capacità intellettuali e, di conseguenza, mi apprezzano. È una manifestazione di vanità da parte mia? Io penso di sì.»
«Pare anche a me, Harry. Ma, secondo questa classificazione, io sono soltanto un conoscente.»
«Vecchio mio, tu sei molto più di un conoscente.»
«E molto meno di un amico. Una specie di fratello, immagino.»
«Oh, i fratelli! Non mi interessano i fratelli! Mio fratello maggiore non vuol morire, e i miei fratelli più giovani
pare che non facciano altro.»
«Harry!» esclamò Hallward, aggrottando le sopracciglia.
«Caro amico, non dico sul serio. Ma non posso fare a meno di detestare i miei parenti. Immagino che sia
dovuto al fatto che nessuno può sopportare chi possiede gli stessi suoi difetti. Ho molta simpatia per la rabbia che la democrazia inglese nutre nei confronti di quelli che chiamano i vizi delle classi superiori. Le masse pensano che l'ubriachezza, la stupidità e l'immoralità debbano essere una loro speciale prerogativa e che, se qualcuno di noi si comporta da deficiente, va a caccia nelle loro riserve. Quando il povero Southwark si presentò di fronte al tribunale dei divorzi, la loro indignazione fu spettacolare. E tuttavia non penso che il dieci per cento del proletariato viva nell'onestà.»