martedì 27 marzo 2012

Paradiso Amaro

AUTORE: Kaui Hart Hemmings
GENERE: Romanzo

TRAMA:
Matt King, discendente di una ricca principessa, era considerato uno degli uomini più ricchi e fortunati delle Hawaii ma ora la sua buona stella sembra avergli voltato le spalle... Sua moglie, la modella Joanie, ha un brutto incidente ed entra in coma. Le sue figlie, Alex e Scottie, si dibattono tra i conflitti dell'adolescenza e un disperato bisogno di attenzione. A peggiorare le cose, una scoperta inaspettata: Joanie aveva un amante. Sembra l'inizio della fine. Invece è una rinascita. Perché Matt, finalmente, si rende conto di aver amato davvero Joanie ed è costretto ad affrontare il suo fallimento di uomo, di marito e di padre: un percorso doloroso ma salvifico.

INCIPIT:

Il sole risplende, gli storni tristi cinguettano, le palme ondeggiano. Sono in un ospedale, ma sto bene. Il cuore funziona regolarmente. Il cervello sta sparando messaggi forti e chiari. Mia moglie è su un letto leggermente inclinato, nella posizione in cui la gente dorme sugli aerei, il busto rigido, la testa piegata da un lato. Ha le mani poggiate in grembo.
«Non possiamo metterla stesa?», chiedo.
«Aspetta», dice Scottie, mia figlia. Scatta una polaroid alla madre. Mentre si sventola con la foto, premo il pulsante sul lato del letto per abbassare il busto di mia moglie. Rilascio il pulsante quando la schiena è quasi in linea con il resto del corpo.
Joanie è in coma da ventitré giorni, e nelle prossime ore dovrò prendere una decisione basandomi sulla diagnosi definitiva del medico. A dire il vero, devo solo scoprire quali sono le condizioni di Joanie. Non ho nessuna decisione da prendere, Joanie ha un testamento biologico. È lei a decidere per sé, come ha sempre fatto.
Oggi è lunedì. Il dottor Johnston mi parlerà martedì, e questo appuntamento mi rende nervoso, come se fosse un incontro galante. Non so come comportarmi, cosa dire, cosa indossare. Preparo risposte e reazioni, ma solo per scenari positivi. Non ho preparato il Piano B.
«Tieni», dice Scottie. Scottie è il suo vero nome. Joanie pensava che sarebbe stato fico chiamarla come suo padre, Scott.
Sono di avviso contrario.
Guardo la fotografia. Sembra una di quelle foto spiritose che si scattano alla gente che dorme. Non so perché pensiamo che siano così divertenti. Possiamo farti un sacco di cose mentre dormi, sembra essere questo il messaggio. Guarda quanto sei vulnerabile. Quando dormi non ti rendi conto di nulla. Tuttavia, è evidente che in questa foto Joanie non sta dormendo. Ha una flebo e qualcosa chiamato tubo endotracheale, collegato a un respiratore artificiale, le spunta dalla bocca. Viene nutrita tramite un tubicino e i farmaci che le vengono somministrati potrebbero curare un intero villaggio delle Fiji. Scottie sta documentando la vita della nostra famiglia per il suo corso di studi sociali. Ed ecco Joanie ricoverata al Queen’s Hospital, nella sua quarta settimana di coma, un coma che ha totalizzato un 10 nella scala di Glasgow e un III in quella Rancho Los Amigos. È stata sbalzata fuori da un motoscafo da competizione che andava a centotrenta chilometri orari durante una gara, ma penso che si rimetterà.
«Reagisce involontariamente agli stimoli in modo aspecifico, ma di quando in quando registriamo risposte specifiche anche se discontinue». È quello che mi ha detto la sua neurologa, una giovane donna con un leggero tremore all’occhio sinistro e una parlantina veloce che mi rende difficile porle delle domande. «I riflessi sono limitati e spesso uguali, nonostante la varietà degli stimoli proposti», dice. Le sue parole non mi rassicurano, ma so che Joanie non ha ancora mollato. Dentro di me so che si riprenderà e un giorno il suo corpo tornerà a funzionare regolar- mente. Di solito non mi sbaglio su queste cose.
«Perché stava gareggiando?», mi ha chiesto la neurologa.
La domanda mi ha spiazzato. «Per vincere, immagino. Per arrivare prima al traguardo».
«Chiudi», dico a Scottie. Lei incolla la foto sull’album, prende il telecomando e spegne il televisore.
«No. Parlavo di questo», dico indicandole la finestra – il sole,gli alberi, gli uccelli che saltellano sull’erba per raccogliere le briciole lanciate dai turisti e dalle pazze. «Fa’ sparire questa roba. È terribile». Non è facile essere tristi ai tropici. Scommetto che nelle grandi città puoi andartene in giro per strada con lo sguardo accigliato e nessuno verrà mai a chiederti cos’è che non va o a incoraggiarti a sorridere, ma qui è come se tutti pen- sassero che è una fortuna vivere alle Hawaii; il paradiso regna sovrano. Per quanto mi riguarda, il paradiso può andare a farsi fottere.
«Disgustoso», dice Scottie e abbassa le veneziane.
Spero non si renda conto che la sto osservando e che quanto vedo mi preoccupa terribilmente. Scottie è un’adolescente strana ed emotiva. Ha dieci anni. Cosa si fa durante il giorno quando si hanno dieci anni? Scottie fa scorrere le dita lungo la finestra e borbotta: «Potrei beccarmi l’aviaria», e poi stringe le dita davanti alla bocca e finge di suonare una tromba, emettendo strani suoni. È pazzoide. Chissà cosa le passa per la testa. E a proposito di testa, ha sicuramente bisogno di darsi una spazzolata ai capelli o di tagliarseli. Ha i capelli aggrovigliati in più punti. “Chi è il suo parrucchiere?”, mi chiedo. Ma c’è mai stata da un parrucchiere? Si gratta il cuoio capelluto e poi si guarda le unghie. Indossa una maglietta con su scritto: NON SONO QUEL TIPO DI RAGAZZA. MA POSSO DIVENTARLO!
Sono contento che non sia troppo carina, ma so che le cose potrebbero cambiare.
Do un’occhiata all’orologio che mi ha regalato Joanie.
«Le lancette brillano e il quadrante è di madreperla», mi disse. «Quanto l’hai pagato?», le chiesi.
«Chissà perché ero convinta che sarebbe stata la prima cosa
che avresti detto».
Sapevo che la mia domanda l’aveva ferita, aveva perso un sacco di tempo a scegliere il regalo giusto. Joanie adora fare regali. È il suo modo per dimostrare che ci conosce, che ha perso del tempo a cercare di capire i nostri gusti.
Almeno questo è quello che sembra. Non avrei dovuto domandarle il prezzo. Voleva solo dimostrarmi che mi conosceva.
«Che ora è?», domanda Scottie.
«Le dieci e trenta».
«È ancora presto».
«Lo so», dico. Non so che fare. Siamo venuti in ospedale non
soltanto per visitare Joanie, con la speranza che sia migliorata durante la notte, che abbia reagito alla luce e ai suoni e a dolorose iniezioni, ma anche perché non abbiamo nessun altro posto dove andare. Scottie di solito è a scuola tutto il giorno. Ci pensa Esther ad andarla a prendere alla fine delle lezioni, ma sentivo che questa settimana avrebbe dovuto passare più tempo in ospedale e con me.
«Cosa ti va di fare?», chiedo.
Apre il suo album, un progetto che sembra occupare tutto il suo tempo. «Non lo so. Ho fame».
«Di solito cosa fai a quest’ora?»
«Sono a scuola».
«E se fosse domenica? Dove andresti?»
«In spiaggia».
Penso all’ultima volta che ho badato a lei da solo e a cosa abbiamo fatto. Credo avesse più o meno un anno, un anno e mezzo. Joanie era volata a Maui per un servizio fotografico e non era riuscita a trovare una babysitter. I suoi genitori, per qualche motivo, non potevano tenerla. Io mi trovavo nel bel mezzo di un processo ed ero a casa, ma avevo del lavoro che non potevo assolutamente rimandare. E così misi Scottie nella vasca da bagno con un pezzo di sapone. Prima cominciò a schizzare l’acqua e cercò di berla, poi vide il sapone e provò ad afferrarlo. Le sgusciò via e ci riprovò, con un’espressione meravigliata sul faccino. Scivolai nel corridoio, dove avevo sistemato una scrivania per lavorare e un interfono per bambini. La sentivo ridere, quindi sapevo che non stava annegando.
Mi chiedo se infilarla in una vasca da bagno con un pezzo scivoloso di Irish Spring possa ancora funzionare.
«Possiamo andare in spiaggia», dico. «La mamma ti porterebbe al club?»
«Be’, sì. E dove se no?»
«Allora è deciso. Parli a tua madre, chiamiamo un’infermiera, facciamo un salto a casa e poi andiamo in spiaggia».
Scottie prende una foto dal suo album, la accortoccia e la getta via. Mi chiedo se sia la foto della madre sul letto, probabilmente non il miglior cimelio di famiglia. «Vorrei», dice Scottie. «Cos’è che vorrei?».
È un gioco che facciamo spesso. Di tanto in tanto, nomina un luogo dove vorrebbe essere, oltre al posto e al tempo delle no- stre vite in cui ci troviamo al momento.
«Vorrei che fossimo dal dentista», decide.
«Anch’io. Vorrei che il dentista ci stesse facendo l’ortopanoramica».
«E facesse la pulizia dei denti alla mamma», dice Scottie.
Vorrei davvero che fossimo nello studio del dottor Branch, tutti e tre con le labbra intorpidite a sballarci con il gas esilarante. Una cura canalare sarebbe uno scherzo in confronto a tutto questo. O anche qualsiasi altro intervento medico, sul serio. A dire il vero, vorrei essere a casa a lavorare. Devo decidere a chi vendere il terreno che appartiene alla mia famiglia dal 1840. La vendita cancellerà qualsiasi appezzamento di terra in mano alla mia famiglia, e io ho disperatamente bisogno di studiare le offerte prima di incontrare i miei cugini tra sei giorni. È il nostro termine ultimo. Alle due, tra sei giorni, a casa di Cugino Sei. Ci accorderemo su un compratore. Sono stato un incosciente ad aver rimandato questo problema per così tanto tempo, ma è quello che ha fatto la mia famiglia fino ad ora. Abbiamo voltato le spalle al nostro retaggio, aspettando che qualcuno si facesse avanti e si facesse carico del nostro patrimonio e dei nostri debiti.

venerdì 23 marzo 2012

1984

AUTORE: George Orwell
GENERE: Romanzo

TRAMA:
"L'azione si svolge in un futuro prossimo del mondo (l'anno 1984) in cui il potere si concentra in tre immensi superstati: Oceania, Eurasia ed Estasia. Al vertice del potere politico in Oceania c'è il Grande Fratello, onnisciente e infallibile, che nessuno ha visto di persona ma di cui ovunque sono visibili grandi manifesti. Il Ministero della Verità, nel quale lavora il personaggio principale, Smith, ha il compito di censurare libri e giornali non in linea con la politica ufficiale, di alterare la storia e di ridurre le possibilità espressive della lingua. Per quanto sia tenuto sotto controllo da telecamere, Smith comincia a condurre un'esistenza "sovversiva". Scritto nel 1949, il libro è considerato una delle più lucide rappresentazioni del totalitarismo.

INCIPIT:

PARTE PRIMA I
Era una luminosa e fredda giornata d'aprile, e gli orologi battevano tredici colpi. Winston Smith, tentando di evitare le terribili raffiche di vento col mento affondato nel petto, scivolò in fretta dietro le porte di vetro degli Appartamenti Vittoria: non così in fretta, tuttavia, da impedire che una folata di polvere sabbiosa entrasse con lui.
L'ingresso emanava un lezzo di cavolo bollito e di vecchi e logori stoini. A una delle estremità era attaccato un manifesto a colori, troppo grande per poter essere messo all'interno. Vi era raffigurato solo un volto enorme, grande più di un metro, il volto di un uomo di circa quarantacinque anni, con folti baffi neri e lineamenti severi ma belli. Winston si diresse verso le scale. Tentare con l'ascensore, infatti, era inutile. Perfino nei giorni migliori funzionava raramente e al momento, in ossequio alla campagna economica in preparazione della Settimana dell'Odio, durante le ore diurne l'erogazione della corrente elettrica veniva interrotta. L'appartamento era al settimo piano e Winston, che aveva trentanove anni e un'ulcera varicosa alla caviglia destra, procedeva lentamente, fermandosi di tanto in tanto a riprendere fiato. Su ogni pianerottolo, di fronte al pozzo dell'ascensore, il manifesto con quel volto enorme guardava dalla parete. Era uno di quei ritratti fatti in modo che, quando vi muovete, gli occhi vi seguono. IL GRANDE FRATELLO VI GUARDA, diceva la scritta in basso.
All'interno dell'appartamento una voce pastosa leggeva un elenco di cifre che avevano qualcosa a che fare con la produzione di ghisa grezza. La voce proveniva da una placca di metallo oblunga, simile a uno specchio oscurato, incastrata nella parete di destra. Winston girò un interruttore e la voce si abbassò notevolmente, anche se le parole si potevano ancora distinguere. Il volume dell'apparecchio (si chiamava teleschermo) poteva essere abbassato, ma non vi era modo di spegnerlo. Winston si avvicinò alla finestra: era una figura minuscola, fragile, la magrezza del corpo appena accentuata dalla tuta azzurra che costituiva l'uniforme del Partito. Aveva i capelli biondi, il colorito del volto naturalmente sanguigno, la pelle resa ruvida dal sapone grezzo, dalle lamette smussate e dal freddo dell'inverno appena trascorso.
Fuori il mondo appariva freddo, perfino attraverso i vetri chiusi della finestra. Giù in strada piccoli mulinelli di vento facevano roteare spirali di polvere e di carta straccia e, sebbene splendesse il sole e il cielo fosse di un azzurro vivo, sembrava che non vi fosse colore nelle cose, se si eccettuavano i manifesti incollati per ogni dove. Il volto dai baffi neri guardava fisso da ogni cantone. Ve ne era uno proprio sulla facciata della casa di fronte.
IL GRANDE FRATELLO VI GUARDA, diceva la scritta, mentre gli occhi scuri guardavano in fondo a quelli di Winston. Più giù, a livello di strada, un altro manifesto, strappato a uno degli angoli, sbatteva al vento con ritmo irregolare, coprendo e scoprendo un'unica parola: SOCING. In lontananza un elicottero volava a bassa quota sui, tetti, si librava un istante come un moscone, poi sfrecciava via disegnando una curva. Era la pattuglia della polizia, che spiava nelle finestre della gente. Ma le pattuglie non avevano molta importanza. Solo la Psicopolizia contava.
Alle spalle di Winston, la voce proveniente dal teleschermo continuava a farfugliare qualcosa a proposito della ghisa grezza e della realizzazione più che completa del Nono Piano Triennale. Il teleschermo riceveva e trasmetteva contemporaneamente. Se Winston avesse emesso un suono anche appena appena più forte di un bisbiglio, il teleschermo lo avrebbe captato; inoltre, finché fosse rimasto nel campo visivo controllato dalla placca metallica, avrebbe potuto essere sia visto che sentito. Naturalmente, non era possibile sapere se e quando si era sotto osservazione. Con quale frequenza, o con quali sistemi, la Psicopolizia si inserisse sui cavi dei singoli apparecchi era oggetto di congettura. Si poteva persino presumere che osservasse tutti continuamente. Comunque fosse, si poteva collegare al vostro apparecchio quando voleva. Dovevate vivere (e di fatto vivevate, in virtù di quell'abitudine che diventa istinto) presupponendo che qualsiasi rumore da voi prodotto venisse ascoltato e qualsiasi movimento — che non fosse fatto al buio — attentamente scrutato.
Winston dava le spalle al teleschermo. Era più sicuro, anche se sapeva bene che perfino una schiena può essere rivelatrice. A un chilometro di distanza, immenso e bianco nel sudicio panorama, si ergeva il Ministero della Verità, il luogo dove lui lavorava. E questa, pensò con un senso di vaga ripugnanza, questa era Londra, la principale città di Pista Uno, a sua volta la terza provincia più popolosa dell'Oceania. Si sforzò di cavare dalla memoria qualche ricordo dell'infanzia che gli dicesse se Londra era sempre stata così. C'erano sempre state queste distese di case ottocentesche fatiscenti, con i fianchi sorretti da travi di legno, le finestre rattoppate col cartone, i tetti ricoperti da fogli di lamiera ondulata, i muri dei giardini che pericolavano, inclinandosi da tutte le parti? E le aree colpite dalle bombe, dove la polvere d'intonaco mulinava nell'aria e le erbacce crescevano disordinatamente sui mucchi delle macerie, e i posti dove le bombe avevano creato spazi più ampi, lasciando spuntare colonie di case di legno simili a tanti pollai? Ma era inutile, non riusciva a ricordare. Della sua infanzia non restava che una serie di quadri ben distinti, ma per la gran parte incomprensibili e privi di uno sfondo contro cui stagliarsi.
Il Ministero della Verità (Miniver, in neolingua) differiva in maniera sorprendente da qualsiasi altro oggetto che la vista potesse discernere.
Era un'enorme struttura piramidale di cemento bianco e abbagliante che s'innalzava, terrazza dopo terrazza, fino all'altezza di trecento metri. Da dove si trovava Winston era possibile leggere, ben stampati sulla bianca facciata in eleganti caratteri, i tre slogan del Partito:

LA GUERRA È PACE
LA LIBERTÀ È SCHIAVITÙ
L'IGNORANZA È FORZA

Si diceva che il Ministero della Verità contenesse tremila stanze al di sopra del livello stradale e altrettante ramificazioni al di sotto. Sparsi qua e là per Londra vi erano altri tre edifici di aspetto e dimensioni simili. Facevano apparire talmente minuscoli i fabbricati circostanti, che dal tetto degli Appartamenti Vittoria li si poteva vedere tutti e quattro simultaneamente. Erano le sedi dei quattro Ministeri fra i quali era distribuito l'intero apparato governativo: il Ministero della Verità, che si occupava dell'informazione, dei divertimenti, dell'istruzione e delle belle arti; il Ministero della Pace, che si occupava della guerra; il Ministero dell'Amore, che manteneva la legge e l'ordine pubblico; e il Ministero dell'Abbondanza, responsabile per gli affari economici. In neolingua i loro nomi erano i seguenti: Miniver, Minipax, Miniamor e Miniabb.
Fra tutti, il Ministero dell'Amore incuteva un autentico terrore. Era assolutamente privo di finestre. Winston non vi era mai entrato, anzi non vi si era mai accostato a una distanza inferiore al mezzo chilometro. Accedervi era impossibile, se non per motivi ufficiali, e anche allora solo dopo aver attraversato grovigli di filo spinato, porte d'acciaio e nidi di mitragliatrici ben occultati. Anche le strade che conducevano ai recinti esterni erano pattugliate da guardie con facce da gorilla, in uniforme nera e armate di lunghi manganelli.
Winston si girò di scatto. Il suo volto aveva assunto quell'espressione di sereno ottimismo che era consigliabile mostrare quando ci si trovava davanti al teleschermo. Attraversò la stanza ed entrò nella minuscola cucina. Uscendo a quell'ora dal Ministero, non aveva potuto mangiare alla mensa e sapeva bene che in cucina c'era solo un pezzo di pane nero destinato alla prima colazione del giorno dopo. Tirò giù dalla mensola una bottiglia di liquido incolore con una semplice etichetta bianca: GIN VITTORIA.
Emanava un odore nauseante, oleoso, che ricordava l'alcol di riso cinese. Winston si versò il corrispondente di una mezza tazza da tè, si preparò al colpo, poi l'ingoiò come se si trattasse di una medicina.

lunedì 19 marzo 2012

Fai bei sogni

AUTORE: Massimo Gramellini
GENERE: Romanzo

TRAMA:
"Fai bei sogni" è la storia di un segreto celato in una busta per quarant'anni. La storia di un bambino, e poi di un adulto, che imparerà ad affrontare il dolore più grande, la perdita della mamma, e il mostro più insidioso: il timore di vivere. "Fai bei sogni" è dedicato a quelli che nella vita hanno perso qualcosa. Un amore, un lavoro, un tesoro. E rifiutandosi di accettare la realtà, finiscono per smarrire se stessi. Come il protagonista di questo romanzo. Uno che cammina sulle punte dei piedi e a testa bassa perché il cielo lo spaventa, e anche la terra.

INCIPIT:

Come ogni anno, l’ultimo dell’anno sono passato a prendere Madrina per accompagnarla dalla mamma. Madrina e` un legno antico ben conservato. Vive da sola in una casa piena di luce, dove legge libri gialli e chiacchiera con le fotografie incorniciate di suo marito. Ogni tanto cambia mensola e parla con la foto della mamma, principalmente di me. Suppongo le taccia le informazioni piu` scabrose. Che ho avuto due mogli, sia pure una alla volta. E che non ho poi fatto l’avvocato.
Mentre la aiutavo a infilarsi il cappotto, e` stata lei a portare il discorso sul romanzo che le avevo regalato a Natale.
« L’ho finito stanotte... »
« Ti e` piaciuto, anche se non e` un giallo? »
« Certo, lo hai scritto tu. »
« E le pagine che riguardano la mamma? »
« Appunto di quelle volevo parlarti. »
« Sono le uniche autobiografiche. Ci ho messo un
pezzo della mia storia l`ı dentro. »
« Sei sicuro che sia la tua storia? »
« Perche ́... non lo e`? »
« Non e` andata proprio cos`ı... Caro il mio ragazzo, avrei una cosa da darti. »

L’ho vista armeggiare con chiavi da gnomo intorno ai cassetti del como`. Fra le sue belle mani piene di nodi e` spuntata una busta marrone.
Me l’ha consegnata con un tremolio nella voce.
« Dopo quarant’anni sarebbe ora che qualcuno ti dicesse la verita`. »

QUARANT’ANNI PRIMA

Quarant’anni prima, l’ultimo dell’anno mi ero sve- gliato cos`ı presto che credevo di sognare ancora. Ricordo l’odore della mamma nella mia stanza, la sua vestaglia ai piedi del letto. Che ci faceva lì?
E poi: la neve sul davanzale, le luci accese in tutta la casa, un rumore di passi strascicati e quel guaito di creatura ferita.
« Nooooo! »
Infilo le pantofole nei piedi sbagliati, ma non c’e` tempo per rimediare. La porta sta gia` cigolando sotto la spinta delle mie mani, finche ́ lo vedo in mezzo al corridoio, accanto all’albero di Natale.
Papa`.
La quercia della mia infanzia, piegato come un salice da una forza invisibile e sorretto per le ascelle da due sconosciuti.
Indossava la giacca da camera color porpora che gli aveva regalato la mamma. Quella con un cordone delle tende al posto della cintura. Si muoveva a scatti, scalciando e contorcendosi.
Appena si accorse della mia presenza, lo sentii mormorare: « E` mio figlio... Per favore, portatelo dai vicini ».
Abbandono` la testa all’indietro e urto` l’albero di Natale. Un angelo con le ali di vetro perse l’equilibrio e precipito` al tappeto.
Gli sconosciuti erano muti ma gentili e mi parcheggiarono sul lato opposto del pianerottolo, da una coppia di pensionati.
Tiglio e Palmira.
Tiglio affrontava la vita dietro la corazza immutabile del suo pigiama a righe e con il conforto di una ostinata sordita`. Comunicava soltanto per iscritto, ma quella mattina si rifiutava di rispondere alle domande che gli avevo scarabocchiato in stampatello sul margine bianco del giornale.
DOV’E` LA MAMMA?
HANNO RAPINATO P A P A` ?
Dei banditi dovevano essere entrati in casa durante la notte... E se fossero stati i due che lo tenevano per le ascelle?
Apparve Palmira con le borse della spesa.
« Papa` ha avuto un po’ di mal di testa, bambìn. Ma adesso sta bene. Quei signori erano i medici che lo hanno visitato. »
« Come mai non avevano il camice? »
« Lo mettono solo in ospedale. »
« E come mai erano due? »
«I medici del pronto soccorso sono sempre in due. »
« Ah, giusto. Così se uno si ammala di colpo, l’altro lo puo` guarire. Dov’e` la mamma? »
« Papa` l’ha accompagnata a fare una commissione. »
« E quando torna? »
« Presto, vedrai. La vuoi una cioccolata calda? » In mancanza della mamma mi accontentai della
cioccolata.
Qualche ora dopo venni preso in custodia dai migliori amici dei miei.
Giorgio e Ginetta.
Non credo di averli mai considerati separatamente. Mamma e papa` si erano conosciuti al loro matrimonio, una circostanza che non smetteva di stimolare gli ingranaggi del mio cervellino.
« Mamma, ascolta: se Giorgio e Ginetta si fossero dimenticati di portarti alla festa, saresti stata sempre tu la mia mamma oppure un’altra invitata? »
Avevo una lingua mai esausta, nonostante fosse piena di tagli e di toppe come il grembiule di un artigiano.
« E` un miracolo che con un attrezzo simile suo figlio possa parlare » aveva spiegato il pediatra alla mamma.
« Adesso di miracolo ne servirebbe un altro, dottore: riuscire ogni tanto a farlo stare zitto » aveva risposto lei. « Con la parlantina che si ritrova mi diventera` un avvocato. »
Non ero d’accordo. Io volevo smettere di parlare e incominciare a scrivere. Quando mi convincevo che qualche adulto aveva commesso un’ingiustizia nei miei confronti, gli agitavo una biro sotto il mento: «Da grande raccontero` tutto in un libro che si intitolera` Io bambino ».
Il titolo era migliorabile, ma il libro sarebbe stato una bomba.
La verita` e` che avrei preferito essere un pittore. A sei anni avevo gia` dipinto il mio ultimo capolavoro: La mamma mangia un grappolo d’uva. Il grappolo era alto il doppio della mamma, gli acini sembravano le palle dell’albero di Natale e la faccia della mamma era identica a un acino.
Lei lo aveva appeso in cucina e lo mostrava con orgoglio ai parenti di passaggio. Dalle loro facce perplesse avevo ricevuto il primo responso esistenziale: la pittura non sarebbe mai stata il mio talento. Il mondo che avevo dentro avrei dovuto cercare di disegnarlo con le parole.
A casa di Giorgio e Ginetta ando` in scena il cenone piu` triste della storia. Malgrado i miei tentativi di ravvivare la conversazione, io e il figlio tredicenne venimmo spediti nei letti a castello alle nove di sera, dopo una pastasciutta e una bistecchina, entrambe al burro.

Non ci fu verso di ottenere una fetta di panettone e una spiegazione decente. Mamma e papa` erano andati a fare una commissione, la stessa della mat- tina o forse un’altra, ma altrettanto misteriosa. E noi dovevamo filare subito a nanna.
Ricordo il respiro regolare del mio compagno di clausura sopra di me. E i fuochi di mezzanotte che smacchiavano il buio della stanza attraverso le serrande non perfettamente abbassate.
Rintanato sotto le coperte, gli occhi accesi e la testa vorticante come una giostra incantata, continua- vo a chiedermi cosa avessi combinato di tanto tremendo durante le vacanze di Natale per meritare un castigo simile.
Avevo detto due bugie, risposto male una volta alla mamma e tirato un calcio nel sedere a Riccardo, il bambino della Juve che abitava al secondo piano.
Non mi sembravano peccati gravi, specie l’ultimo.

lunedì 12 marzo 2012

On The Road

AUTORE: Jack Kerouac
GENERE: Romanzo Beatnik

TRAMA:
Sal Paradise, un giovane newyorkese con ambizioni letterarie, incontra Dean Moriarty, un ragazzo dell'Ovest. Uscito dal riformatorio, Dean comincia a girovagare sfidando le regole della vita borghese, sempre alla ricerca di esperienze intense. Dean decide di ripartire per l'Ovest e Sal lo raggiunge; è il primo di una serie di viaggi che imprimono una dimensione nuova alla vita di Sal. La fuga continua di Dean ha in sé una caratteristica eroica, Sal non può fare a meno di ammirarlo, anche quando febbricitante, a Città del Messico, viene abbandonato dall'amico, che torna negli Stati Uniti.

INCIPIT:

Parte prima

1

La prima volta che incontrai Dean fu poco tempo dopo che mia moglie e io ci separammo. Avevo appena superato una seria malattia della quale non mi prenderò la briga di parlare, sennonché ebbe qualcosa a che fare con la triste e penosa rottura e con la sensazione da parte mia che tutto fosse morto. Con l'arrivo di Dean Moriarty ebbe inizio quella parte della mia vita che si potrebbe chiamare la mia vita lungo la strada. Prima di allora avevo spesso sognato di andare nel West per vedere il continente, sempre facendo piani vaghi e senza mai partire. Dean è il tipo perfetto per un viaggio perché nacque letteralmente per la strada, quando i suoi genitori passarono da Salt Lake City, nel 1926, in un vecchio macinino, diretti a Los Angeles. Le prime notizie su di lui mi furono date da Chad King, che mi aveva fatto vedere alcune sue lettere scritte in un riformatorio del New Mexico. M'interessai enormemente a quelle lettere perché chiedevano a Chad in modo così ingenuo e dolce di insegnarli ogni cosa su Nietzsche e tutti i meravigliosi argomenti intellettuali che Chad conosceva. A un certo punto Carlo e io parlammo delle lettere e ci chiedemmo se avremmo mai conosciuto quello strano Dean Moriarty. Tutto ciò accadeva molto tempo fa, quando Dean non era quello che è oggi, ma solo un giovane carcerato avvolto di mistero. Poi arrivò la notizia che Dean era uscito dal riformatorio e stava venendo a New York per la prima volta; si diceva anche che avesse appena sposato una ragazza di nome Marylou.
Un giorno stavo bighellonando per la Città Universitaria e Chad e Tim Gray mi dissero che Dean abitava in un appartamento senza acqua calda corrente nell'East Harlem, la Harlem spagnola. Dean era arrivato a New York la notte precedente per la prima volta, con Marylou, la sua bella e vivace pollastrella; erano scesi dall'autobus della Greyhound nella 50ma Strada, e avevano girato l'angolo in cerca di un posto per mangiare ed erano entrati difilato da Hector, e da allora in poi la rosticceria di Hector era sempre stata per Dean un grande simbolo di New York. Avevano speso parecchi soldi in grossi bellissimi dolci con la ghiaccia e in bombe alla crema.
Tutto questo tempo Dean andava dicendo a Marylou cose del genere: "Dunque, tesoro, eccoci qua a New York e anche se non ti ho detto proprio tutto quello che avevo in mente quando attraversammo il Missouri e specialmente nel momento in cui siamo passati davanti al riformatorio di Booneville che mi ricordava il mio problema carcerario, ora è assolutamente necessario posporre tutte quelle cose sorpassate concernenti i nostri personali affari amorosi e cominciare immediatamente a pensare a specifici progetti di vita lavorativa..." e così via nel modo che gli era solito in quei primi tempi.
Andai con i ragazzi all'appartamento senza acqua calda, e Dean si fece sulla porta in mutande. Marylou stava balzando giù dal divano; Dean aveva spedito in cucina l'altro inquilino dell'appartamento, probabilmente a fare il caffè, mentre lui si dedicava ai suoi problemi amorosi, poiché per lui il sesso era l'unica e sola e sacrosanta e importante cosa nella vita, quantunque gli toccasse sudare e imprecare per sbarcare il lunario e tutto il resto. Lo si poteva capire da come si metteva in piedi dondolando la testa, guardando sempre in basso, approvando col capo, come un giovane pugile che ascolti le istruzioni, per farti capire che stava a sentire ogni tua parola, buttando là un migliaio di "Si" e "Va bene". La prima impressione che mi fece Dean fu quella di un giovane Gene Autry - armonioso, snello di fianchi, con gli occhi azzurri, e uno spiccato accento dell'Oklahoma - un eroe con le basette nel nevoso West. Effettivamente, tempo avanti aveva lavorato in un ranch, quello di Ed Wall nel Colorado, prima di sposare Marylou e di venire nell'Est. Marylou era una graziosa biondina con un'infinità di ricci come un mare di chiome dorate; sedeva là sull'orlo del divano con le mani abbandonate in grembo e i fumosi occhi blu da provinciale sbarrati in uno sguardo fisso, per il fatto che si trovava in una squallida catapecchia grigia di New York della quale aveva sentito parlare giù nel West, e aspettava, come un'emaciata longilinea donna surrealista di Modigliani in una camera rispettabile. Però, oltre ad essere una piccola dolce ragazza, era paurosamente stupida e capace di fare orribili cose. Quella notte bevemmo tutti della birra e ci sfidammo al braccio di ferro e chiacchierammo fino all'alba, e al mattino, mentre sedevamo in cerchio fumando in silenzio le cicche raccolte dai portacenere nella luce grigia di una malinconica giornata, Dean si alzò nervosamente, camminò avanti e indietro, cogitabondo, e decise che l'unica cosa da fare era che Marylou preparasse la colazione e scopasse il pavimento. «In altre parole dobbiamo buttarci nella mischia, tesoro, come dicevo, altrimenti ci saranno fluttuazioni e mancanza di vera conoscenza o cristallizzazione dei nostri progetti.»
Allora me ne andai. Durante la settimana seguente egli confidò a Chad King che era assolutamente necessario che lui gl'insegnasse a scrivere; Chad disse che io ero scrittore e che avrebbe dovuto venire da me per dei consigli. Nel frattempo Dean aveva trovato lavoro in un parcheggio, aveva litigato con Marylou nel loro appartamento a Hoboken - Dio sa perché c'erano andati - e lei era talmente arrabbiata e così profondamente invasa dal desiderio di vendetta che aveva riferito alla polizia certe accuse false inventate isteriche e pazze, e Dean aveva dovuto battersela da Hoboken. Così non sapeva dove abitare. Se ne venne dritto a Paterson, nel New Jersey, dove abitavo con mia zia, e una sera, mentre stavo studiando, sentii bussare alla porta, ed era Dean, che s'inchinava, strisciando ossequiosamente i piedi nel buio dell'ingresso, e diceva: «Salve, ti ricordi di me... Dean Moriarty? Sono venuto a chiederti di farmi vedere come si scrive». «E dov'è Marylou?» chiesi, e Dean disse che a quanto pareva aveva messo insieme qualche dollaro prostituendosi ed era tornata a Denver - la sgualdrina! Così uscimmo per bere qualche birra perché non potevamo parlare come volevamo di fronte a mia zia, che sedeva nel soggiorno leggendo il giornale. Essa diede a Dean una sola occhiata e decise che era un pazzo. Nel bar dissi a Dean: «Diavolo, amico, so benissimo che non sei venuto da me solo per il desiderio di diventare scrittore, e dopo tutto, che ne so io in proposito? So solo che devi darci dentro con l'energia di uno dedito alla benzedrina». E lui disse: «Sì, certo, capisco benissimo quel che vuoi dire e infatti mi si sono affacciati tutti questi problemi, ma ciò che voglio è la realizzazione di quei fattori che, se si dovesse dipendere dalla dicotomia di Schopenhauer per qualsiasi intimamente realizzato...» e così via in questa maniera, cosa che io non capivo neanche un poco e che non capiva nemmeno lui. In quei giorni non sapeva proprio di che stesse parlando; voglio dire, era un giovane avanzo di galera tutto preso dalle meravigliose possibilità di diventare un vero intellettuale, e gli piaceva parlare con quel tono e far uso di quelle parole ma in modo confuso, come le aveva sentite da "veri intellettuali" - quantunque, badate bene, in tutte le altre cose non fosse altrettanto ingenuo, e gli ci vollero solo pochi mesi con Carlo Marx per essere completamente addentro con tutti i termini e il gergo dell'ambiente. Ciò nonostante noi due ci capivamo su altri piani di pazzia, e io acconsentii a farlo stare a casa mia finché non avesse trovato un lavoro e inoltre ci mettemmo d'accordo per andare nel West, una volta o l'altra.

giovedì 8 marzo 2012

Piccole Donne

AUTORE: Louisa May Alcott
GENERE: Romanzo di formazione

TRAMA:
Un libro che con la sua freschezza e la sua vivacità ha commosso generazioni di lettori. Le quattro sorelle March – la giudiziosa Meg, l’impertinente Jo, la dolce Beth, la vanitosa Amy – si preparano alla vita vivendo sogni e speranze dell’adolescenza sullo sfondo dell’America scossa dalla guerra di Secessione. È sufficiente la prima pagina di “Piccole donne” per immettere il lettore nell’atmosfera casalinga di casa March: il chiacchiericcio fitto delle sorelle, gli echi di un mondo che fuori è pieno di gioia, le evasioni nel sogno. Pagina dopo pagina seguiamo con trepidazione i sogni delle quattro giovani adolescenti, i loro capricci, i loro slanci, le loro vittorie, le loro amicizie, le loro difficoltà, che Louisa May Alcott ci presenta con un’analisi psicologica così penetrante che ancora oggi sentiamo attuali. Allora entriamo in casa March, sediamoci accanto al caminetto e viviamo insieme a loro questo anno fantastico ricco di strabilianti sorprese...

INCIPIT:
CAPITOLO PRIMO
Il giuoco dei pellegrini
— Natale non sembrerà più Natale senza regali — brontolò Jo sdraiata sul tappeto dinanzi al caminetto.
— L’essere poveri è una disgrazia — disse Meg, guardando con un sospiro il suo vecchio vestitino.
— Non è giusto che alcune ragazze debbano aver tanto ed altre nulla! — soggiunse la piccola Amy con voce piagnucolosa.
— Abbiamo però la nostra buona mamma ed il nostro papà e tante altre belle cose — disse Beth dal suo cantuccio.
Le quattro faccine, illuminate dai bagliori del fuoco che scoppiettava nel caminetto, si rischiararono un momento a queste parole, ma si oscurarono di nuovo allorché Jo disse con tristezza: — Papà non è con noi e chi sa quando tornerà! — Non disse — forse mai — ma tutte lo aggiunsero silenziosamente, pensando al padre loro tanto lontano, là, sul campo di battaglia.
Tutte tacquero per qualche istante, poi Meg ricominciò: — Sapete bene la ragione per cui la mamma ha proposto di non comprare regali per Natale. Essa crede che non abbiamo diritto di spendere i nostri denari in divertimenti quando i nostri cari nell’esercito soffrono tanto. Non siamo buone a molto noi, ma possiamo pur fare i nostri piccoli sacrifizi e dovremmo compierli con piacere, per quanto io confessi che mi costano qualche fatica — e Meg scosse la testa ripensando alle belle cosine che da tanto tempo desiderava.
— Non lo fare, Jo, son cose da ragazzacci.
— È appunto per questo che lo faccio.
— Io non posso soffrire le ragazze sgarbate.
— Ed io non posso soffrire le ragazze smorfiose che stanno sempre in
ghingheri.
— Gli uccellini dello stesso nido vanno d’accordo — interruppe Beth,
la paciera, con una smorfia così curiosa che le due sorelle scoppiarono in una risata e il battibecco cessò per quella volta.
— A dir il vero avete torto tutt’e due — disse Meg, cominciando, come sorella maggiore, la sua ramanzina! — Tu sei abbastanza grande, ormai, per smettere quei modi da sbarazzino e comportarti meglio, Giuseppina. Ciò non aveva tanta importanza quando eri piccola, ma ora che sei così alta e che ti sei tirata su i capelli, dovresti rammentarti che sei una signorina e non un ragazzo.
— Non è vero nulla! e se il tirarmi su i capelli mi fa diventare una signorina, porterò la treccia giù, fino a venti anni! — gridò Jo, strappandosi via la rete e lasciandosi cadere sulle spalle una bellissima treccia di capelli castagni.
— Penso con raccapriccio che un giorno dovrò pur essere la signorina March, dovrò portare le sottane lunghe e metter su un’aria di modestia e di affettazione come la mia cara sorella! È la cosa più insopportabile del mondo pensare d’essere donna quando darei qualunque cosa per essere nata uomo! Ed ora che muoio dalla voglia di andare al campo con papà, mi tocca star qui a far la calza come una vecchia di cent’anni! — E Jo, in un impeto di rabbia, gettò per terra la calza che stava facendo, tanto che il gomitolo di lana andò a rotolare dall’altra parte della stanza.
— Povera Jo! Non è davvero giusto! Ma non può essere altrimenti, perciò ti devi contentare del tuo nome, che pare quello di un ragazzo e ti puoi divertire a far da fratello a noi altre — disse Beth, accarezzando la testa arruffata che si era posata sulle sue ginocchia con una mano il cui tocco, né lavatura di piatti, né spolveratura, avrebbe potuto rendere meno che dolce.
— Quanto a te, Amy, — continuò Meg; — sei addirittura esagerata! Mi piacciono le tue manierine gentili ed il tuo modo raffinato di parlare, ma quando vuoi usare delle parole lunghe e ricercate che non conosci e cerchi di essere elegante, sei addirittura ridicola ed affettata. —
— Se Jo è un ragazzaccio ed Amy è affettata, che cosa sono, io? — domandò Beth pronta a prendere la sua parte di predica.
— Tu sei un angelo e null’altro.— rispose Meg abbracciandola e nessuno la contraddisse poiché «il topo» era il cocco della famiglia. Benché il tappeto fosse molto logoro ed i mobili molto vecchi pure la stanza dove erano riunite le quattro ragazze era resa gaia e piacevole da uno o due buoni quadri appesi al muro, dalle librerie piene di libri, dai crisantemi e dalle rose di Natale che fiorivano sulle finestre e dall’atmosfera di pace casalinga che pervadeva ogni cosa. Margherita, la maggiore delle sorelle, aveva 16 anni ed era molto carina. Bionda, ben formata, aveva occhi celesti, una quantità di capelli di un castagno chiaro, una bocchina dolce e delle mani fini e bianche a cui teneva molto.
Giuseppina o Jo, come la chiamavano in famiglia, era alta, magra, scura di carnagione ed assomigliava un poco ad un puledro non ancora domato, perché non sapeva mai dove, né come tenere le lunghe membra che sembravano esserle sempre d’impaccio. Aveva una espressione risoluta nella bocca, un naso bizzarro, ed occhi grigi, che sembravano vedere tutto e che potevano essere, a volta a volta, severi, furbi o pensierosi. I suoi lunghi e folti capelli erano la sua unica bellezza; ma ella li portava quasi sempre in una rete, perché non le dessero noia. Jo aveva le spalle un po’ curve, piedi grossi e mani lunghe; i vestiti quasi sempre scuciti che le cascavano di dosso e l’aria di una ragazza che sta trasformandosi rapidamente in donna, ma che vorrebbe rimanere bimba.
Elisabetta o Beth era una rosea fanciulla di 13 anni, tutta pace e timidezza: il padre la chiamava «piccola tranquillità» ed il nome le si confaceva a pennello, perché sembrava vivere beata in un mondo a sé da cui non usciva se non per stare con i pochi che ella amava e stimava.
Amy, la più piccola, era un personaggio importante, secondo la sua opinione, almeno. Era bianca come la neve, con occhi celesti, ed i folti capelli biondi le scendevano inanellati sulle spalle; era pallida e magra, ma faceva il suo possibile per comportarsi sempre come una vera signorina.
Quali fossero i caratteri delle quattro sorelle i lettori vedranno in seguito.
Suonarono le 6 e Beth, dopo avere spazzato la cenere dal camino, prese un paio di pantofole e le avvicinò al fuoco per scaldarle.
La vista delle vecchie pantofole parve avere una buona influenza sulle sorelle; esse sapevano che la mamma doveva arrivare tra poco e tutt’e quattro si prepararono per riceverla. Meg smise di predicare ed accese il lume; Amy si alzò dalla poltrona, senza che alcuno glielo ricordasse e Jo si dimenticò di essere tanto stanca, tolse di mano a Beth le pantofole della mamma e le tenne vicino al fuoco.
— Ma non credo che quel poco che daremmo possa alleggerire le sofferenze dell’esercito; un misero dollaro non potrà far gran cosa. Sono d’accordo anch’io di non aspettarmi nulla né dalla mamma né da voialtre, ma vorrei, con i miei pochi risparmi, comperarmi Undina e Sintram! È
tanto tempo che lo desidero! — disse Jo, che aveva una vera passione per la lettura.
— Io aveva pensato di comprarmi un po’ di musica! — disse Beth, con un sospiro così leggiero che nessuno potè udirlo.
— Io voglio comprarmi una bella scatola di lapis Faber; ne ho proprio bisogno — disse Amy risolutamente.
— Mamma non ha detto nulla riguardo ai nostri risparmi e suppongo che non sarebbe contenta se ci privassimo di tutto quello che ci può far piacere. Comperiamoci quello che desideriamo e divertiamoci un po’; mi pare che lavoriamo abbastanza per meritarcelo! — gridò Jo, guardandosi i tacchi delle scarpe, come avrebbe fatto un «dandy».
— Lo credo io! Io che, da mattina a sera, devo far lezione a quei terribili bimbi, quando darei non so che cosa per restare a casa e passare le giornate a modo mio! — cominciò Meg con voce lamentevole.
— Tu puoi cantare quanto vuoi, ma non meni certo una vita così brutta come la mia! — aggiunse Jo.
— Come ti piacerebbe star sempre rinchiusa con una vecchia nervosa ed antipatica che ti fa trottar tutto il santo giorno su e giù, che non è mai contenta e che ti tormenta tanto da farti venir la voglia di buttarti giù dalla finestra o di darle un buon paio di scappellotti?
— Veramente non bisognerebbe lamentarsi, ma credetelo pure che lavar piatti e tener la casa in ordine è la peggior cosa del mondo! E le mie mani diventano così ruvide che non posso più suonare una nota! — E Beth, dicendo queste parole, si guardò le mani con un sospiro che, questa volta, tutti poterono udire.
— Non credo che nessuna di voi abbia da soffrire quanto me; — disse Amy — voialtre non andate a scuola e non dovete stare con ragazze impertinenti che vi tormentano se non sapete la lezione, vi canzonano perché non avete un bel vestito o perché vostro padre non è ricco, e v’insultano perché non avete un naso greco!
— Ah! se ci fosse ora un po’ di quel denaro che papà perdette quando eravamo piccole! Che bella cosa, eh, Jo? Come saremmo buone ed ubbidienti, se non avessimo alcun pensiero! — disse Meg che si ricordava di tempi migliori.
— Mi pare però che l’altro giorno tu dicessi che ti ritenevi molto più fortunata dei ragazzi King, che nonostante tutti i loro denari, leticavano e brontolavano da mattina a sera.
— È vero, Beth! E credo sul serio che noi siamo assai più fortunate di loro; sì abbiamo da lavorare, ma ci divertiamo fra di noi e siamo «un’allegra masnada», come direbbe Jo.
— Jo si serve sempre di termini così volgari! — osservò Amy, gettando
uno sguardo di rimprovero alla lunga figura sdraiata sul tappeto. Jo, a queste parole, si alzò a sedere, mise le mani nelle tasche del grembiule e cominciò a fischiare.
— Sono tutte sciupate; mammina dovrebbe averne un altro paio. — disse dopo un breve silenzio.
— Avevo pensato di comperargliene un paio col mio dollaro — disse Beth.
— No, le voglio comperar io — strillò Amy.
— Io sono la maggiore... — cominciò Meg, ma fu interrotta da Jo che disse con accento energico:
— Io sono l’uomo, ora che papi non c’è, e spetta a me comperare le pantofole: se vi ricordate, papà raccomandò la mamma in ispecial modo a me, quando andò via.
— Sapete cosa faremo? — disse Beth — Compreremo tutte qualcosa per la mamma e nulla per noi.
— Brava Beth! Quello che volevo proporre io! Ma che cosa prenderemo? — esclamò Jo. Tutte e quattro pensarono un momento poi Meg esclamò, come se l’idea le fosse sorta alla vista delle sue belle manine: — Io le regalerò un bel paio di guanti.
— Io le pantofole: le migliori che ci sono — gridò Jo.
— Io una dozzina di fazzoletti orlati tutti da me — disse Beth.
— Io comprerò una bottiglia di Acqua di Colonia, che piace tanto alla
mamma e che non costa molto; così mi potrà anche rimanere qualche soldo per i miei lapis — aggiunse Amy.
— Facciamole credere che vogliamo comperare qualcosa per noi e prepariamole un’improvvisata! Bisogna andare domani a fare tutte le commissioni Meg, c’è tanto da fare per la rappresentazione della sera di Natale! — disse Jo, camminando su e giù per la stanza con le mani dietro la schiena e il naso per aria.
— Questa è l’ultima volta, però, che prendo parte alla rappresentazione: sono ormai troppo grande — disse Meg, che, tra parentesi, era bimba quanto le altre quando si trattava di mascherate.
— Lo dici, ma non lo farai! Ti piace troppo vestirti colla bella veste bianca a coda, portare i capelli sciolti per le spalle e metterti tutti quei gioielli di carta argentata e dorata! Sei la migliore attrice della compagnia e se tu manchi che cosa faremo? Dovremo smettere anche noi — disse Jo — A proposito: bisognerebbe fare una prova stasera; vieni qua Amy, fa un po’ la scena dello svenimento; hai proprio bisogno di impararla meglio; stai sempre lì impalata come un pezzo di legno.

martedì 6 marzo 2012

La voce invisibile del vento

AUTORE: Clara Sánchez
GENERE: Romanzo

TRAMA:
Spagna, località di Las Marinas. La luce si è ritirata verso qualche luogo nel cielo. Il buio della notte avvolge le viuzze del paese e il mare è nero come la pece. Julia ha perso la strada di casa: è circondata dal silenzio e sente solo la voce del vento che soffia dal mare, e profuma di sale e di fiori. Non ricorda cosa sia successo: era uscita a prendere il latte per suo figlio, ma sulla strada del ritorno all'improvviso si è ritrovata in macchina senza soldi, documenti e cellulare. In pochi minuti quella che doveva essere una vacanza da sogno si è trasformata in un incubo. Per le strade non c'è nessuno, le case sulla spiaggia sembrano tutte uguali e Julia non riesce a ritrovare l'appartamento nel quale l'attendono il marito Felix e il figlio di pochi mesi. Prova a contattarli da un telefono pubblico, ma la linea è sempre occupata. Tutto, intorno a lei, è così familiare eppure così stranamente irreale. Tra le vie oscure e labirintiche c'è solo una luce, quella di un locale notturno. A Julia non resta altra scelta che raggiungerlo, nella speranza di trovare qualcuno che l'aiuti. Qui, quasi ad aspettarla, c'è un uomo, un tipo affascinante, con la barba incolta e l'accento dell'Est Europa, che sembra sapere tante, troppe cose su di lei. Si chiama Marcus: Julia ha la sensazione di averlo già incontrato da qualche parte. Fidarsi di lui è facile. Eppure Marcus non è quello che sembra e nasconde qualcosa.


INCIPIT:
PRIMO GIORNO

JULIA

Uscirono da Madrid alle quattro del pomeriggio prendendo la a3 in direzione est. Julia aveva trascorso la mattinata a fare le valigie, un’operazione che adesso, con Tito, era diventata straordinariamente complicata. Da quando era nato, sei mesi prima, ogni passo fuori di casa implicava portarsi dietro mille cianfrusaglie. E sembrava che il mondo si sbriciolasse se ne mancava una. Pannolini, biberon, gocce per le orecchie, ombrellino, cappellino per il sole. Le cose più necessarie andavano in una grande borsa marrone trapuntata con una fantasia a orsetti blu, che di solito per la strada Julia teneva appesa alla maniglia del passeggino. I vestiti di Félix e i suoi li aveva infilati alla rinfusa nella Samsonite verde aperta sul letto sin dal mattino presto. Quando finalmente l’aveva chiusa, era distrutta a furia di andare su e giù per l’appartamento. Aveva chiuso anche gli armadi. Quanto bisognava faticare per concedersi un bagnetto al mare e stendersi un po’ al sole! Avrebbe cambiato Tito subito prima di mettersi in viaggio e ne avrebbe approfittato per buttare l’ultimo pannolino sporco nei bidoni dell’immondizia del palazzo. Prima di dimenticarsene, aveva controllato la manopola del gas e staccato il computer e il frigorifero. Che altro? Sicuramente c’era ancora qualcosa. Ma non le rimaneva più spazio in testa per nessun altro dettaglio. Se si pensasse a fondo a quello che ci si lascia alle spalle, non si finirebbe mai.
Con le uova rimaste dopo aver pulito il frigorifero aveva preparato due panini con la tortilla, uno per sé e l’altro per Félix. D’estate lui lavorava senza fare la pausa pranzo, perciò finiva alle tre del pomeriggio.
Alle tre e mezzo arrivava a casa e prendeva Tito, in modo che Julia potesse andare a lavorare. Almeno in teoria, visto che un giorno sì e l’altro no alla com- pagnia di assicurazioni si verificava qualche imprevisto, e allora del bimbo si occupava una vicina che aveva due figlie, di otto e dieci anni, che andavano a controllarlo in continuazione.
Julia lavorava come responsabile dei camerieri al bar-caffet- teria dell’hotel Plaza ed era riuscita a ottenere il turno pomeridiano finché Tito non avesse iniziato ad andare all’asilo nido. Dopo essersi buttata sul divano completamente esausta con il panino in mano, si era guardata lentamente attorno finché, senza che potesse farci niente, le si erano chiusi gli occhi.
Dopo tre ore di viaggio si fermarono in un autogrill pieno di passeggeri di autobus di linea. Fu davvero un’impresa riuscire a prendere un caffè tra gli spintoni e la folla che si accalcava, ma almeno Félix si rimise in forze mangiando il panino e ne approfittarono per comprare una bottiglia di acqua minerale e una di vino, oltre che delle empanadas al tonno per cena. E, magicamente, dopo cinque ore di viaggio, a mano a mano che si avvicinavano alla costa, l’odore dell’aria cominciò a cambiare, portato dal mare a ondate sempre più umide e salmastre, e poi iniziarono a spuntare dappertutto oleandri, buganvillee e palme.
Riuscirono a raggiungere Las Marinas prima che facesse buio. Julia aveva chiesto a Félix di guidare per tutto il tragitto in modo da riposare un po’. La verità era che dalla nascita del bambino, e anche prima, durante la gravidanza, si sentiva sempre stanca. Beveva molto caffè e prendeva anche un mucchio di vitamine, nella speranza che prima o poi le facessero effetto. Per controllare meglio Tito, si era seduta dietro accanto a lui e ogni tanto accarezzava lo scialle che lo proteggeva dall’aria condizionata. A doverlo spiegare, avrebbe detto che le dava sicurezza toccare suo figlio, mentre il sonno la vinceva di nuovo.
Il paesino assomigliava agli altri lungo la costa. C’erano un castello, diversi grandi supermercati, un porto con pescherecci e piccole barche da turismo e un grande traghetto che portava a Ibiza. Julia scoprì che nella strada principale c’erano anche una fantastica gelateria con un enorme cono sulla porta e un mercatino dell’usato. Fu proprio l’ingorgo dovuto al mercatino che li costrinse a fare molti giri e ci misero un bel po’ a imboccare la strada del porto, che finalmente li avrebbe condotti alla spiaggia e al loro appartamento.
Lo aveva prenotato Félix su Internet. Si trattava di un grande complesso residenziale con piscina situato in seconda o terza fila rispetto alla spiaggia, con un’incantevole architettura tradizionale mediterranea, secondo la descrizione dell’agenzia immobiliare. In genere quelle case appartenevano a tedeschi o inglesi che le affittavano d’estate tramite agenzia e le tenevano per sé tutto il resto dell’anno, durante la bassa stagione. I proprietari del loro appartamento erano inglesi e si chiamavano Tom e Margaret Sherwood. Quello che attraeva maggiormente Julia era poter andare a piedi in spiaggia senza la complicazione dell’auto.
Più si avvicinavano, più il suo desiderio di giungere a destinazione e sistemarsi aumentava, mentre Madrid e l’appartamento chiuso erano ormai ben più lontani di quanto si sarebbe immaginata solo qualche ora prima. Magari si potesse lasciare tutto alle spalle mettendoci qualche centinaio di chilometri di mezzo, pensò un po’ più sveglia, appoggiando la testa al finestrino.
Passarono davanti al Club Nautico e al commissariato di polizia, al cui ingresso stazionava un gruppo quasi immobile di africani. La luce in cielo si stava ritirando chissà dove. Sul lungomare si succedevano una quantità di negozietti e tavolini all’aperto, e doveva essere per questo che si era creata una coda preoccupante.
Rimasero fermi per una decina di minuti, poi Félix diede un colpo sul volante in segno di protesta. «Hai fame?» chiese guardando i tavolini con l’aria di chi non si sente arrivato a destinazione finché non ha preso possesso dell’appartamento. Se Félix aveva un pregio, era che di solito non si lasciava trasportare dal nervosismo, al punto che a volte Julia dubitava che gli scorresse sangue nelle vene.



venerdì 2 marzo 2012

Il Gattopardo

AUTORE: Giuseppe Tomasi di Lampedusa
GENERE: Romanzo storico

TRAMA:

Don Fabrizio, principe di Salina, all'arrivo dei Garibaldini, sente inevitaile il declino e la rovina della sua classe. Approva il matrimonio del nipote Tancredi, senza più risorse economiche, con la figlia, che porta con sé una ricca dote, di Calogero Sedara, un astuto borghese. Don Fabrizio rifiuta però il seggio al Senato che gli viene offerto, ormai disincantato e pessimista sulla possibile sopravvivenza di una civiltà in decadenza e propone al suo posto proprio il borghese Calogero Sedara.


INCIPIT:
CAPITOLO PRIMO.
Rosario e presentazione del Principe, il giardino e il soldato morto.
Le udienze reali. La cena. In vettura per Palermo. Andando da Mariannina. Il ritorno a San Lorenzo. Conversazione con Tancredi. In Amministrazione: i feudi, e i ragionamenti politici. In osservatorio con padre Pirrone. Distensione al pranzo. Don Fabrizio e i contadini. Don Fabrizio e il figlio Paolo. La notizia dello sbarco e di nuovo il Rosario.

Nunc et in hora mortis nostrae. Amen.

La recita quotidiana del Rosario era finita. Durante mezz'ora la voce pacata del Principe aveva ricordato i Misteri Gloriosi e Dolorosi; durante mezz'ora altrevoci, frammiste, avevano tessuto un brusio ondeggiante sul quale si erano distaccati i fiori d'oro di parole inconsuete: amore, verginità, morte; e durante quel brusio il salone rococò sembrava aver mutato aspetto; financo i pappagalli che spiegavano le ali iridate sulla seta del parato erano apparsi intimiditi; perfino la Maddalena, fra le due finestre, era sembrata una penitente anziché una bella biondona, svagata in chissà quali sogni, come la si vedeva sempre.
Adesso, taciutasi la voce, tutto rientrava nell'ordine, nel disordine, consueto. Dalla porta attraverso la quale erano usciti i servi, l'alano Bendicò, rattristato dalla propria esclusione, entrò e scodinzolò. Le donne si alzavano lentamente, e l'oscillante regredire delle loro sottane lasciava a poco a poco scoperte le nudità mitologiche che si disegnavano sul fondo latteo delle mattonelle. Rimase coperta soltanto
un'Andromeda cui la tonaca di padre Pirrone, attardato in sue orazioni supplementari, impedí per un bel po' di rivedere l'argenteo Perseo che sorvolando i flutti si affrettava al soccorso ed al bacio.
Nell'affresco del soffitto si risvegliavano le divinità. Le ere di Tritoni e di Driadi, che dai monti e dai mari fra nuvole lampone e ciclamino si precipitavano verso una trasfigurata Conca d'Oro per esaltare la gloria di casa Salina, apparvero di subito tanto colme di esultanza da trascurare le piú semplici regole prospettiche; e gli Dei maggiori, i Principi fra gli Dei, Giove folgorante, Marte accigliato, Venere languida, che avevano preceduto le turbe dei minori, sorreggevano di buon grado lo scudo azzurro col Gattopardo.
Essi sapevano che per ventitré ore e mezza, adesso, avrebbero ripreso la signoria della villa. Sulle pareti le bertucce ripresero a far sberleffi ai cacatoés.
Al di sotto di quell'Olimpo palermitano anche i mortali di casa Salina discendevano in fretta giú dalle sfere mistiche. Le ragazze raggiustavano le pieghe delle vesti, scambiavano occhiate azzurrine e parole in gergo di educandato; da piú di un mese, dal giorno dei moti del Quattro Aprile, le avevano per prudenza fatte rientrare dal convento, e rimpiangevano i dormitori a baldacchino e l'intimità collettiva del Salvatore.
I ragazzini si accapigliavano di già per il possesso di una immagine di S. Francesco di Paola; il primogenito, l'erede, il duca Paolo, aveva già voglia di fumare e, timoroso di farlo in presenza dei genitori, andava palpando attraverso la tasca la paglia intrecciata del portasigari. Nel volto emaciato si affacciava una malinconia metafisica: la giornata era stata cattiva, Guiscardo, il sauro irlandese, gli era sembrato giú di vena, e Fanny non aveva trovato il modo (o la voglia di fargli pervenire il solito bigliettino color di mammola. A che fare, allora, si era incarnato il Redentore?
La prepotenza ansiosa della Principessa fece cadere seccamente il rosario nella borsa trapunta di jais, mentre gli occhi belli e maniaci sogguardavano i figli servi e il marito tiranno verso il quale il corpo minuscolo si protendeva in una vana ansia di dominio amoroso.
Lui, il Principe, intanto si alzava: l'urto del suo peso da gigante faceva tremare l'impiantito, e nei suoi occhi chiarissimi si riflesse, un attimo, l'orgoglio di questa effimera conferma del proprio signoreggiare su uomini e fabbricati.
Adesso posava lo smisurato Messale rosso sulla seggiola che gli era stata dinanzi durante la recita del Rosario, poneva il fazzoletto sul quale aveva poggiato il ginocchio, e un po' di malumore intorbidò il suo sguardo, quando rivide la macchiolina di caffé che fin dal mattino aveva ardito interrompere la vasta bianchezza del panciotto.
Non che fosse grasso: era soltanto immenso e fortissimo; la sua testa sfiorava (nelle case abitate dai comuni mortali) il rosone inferiore dei lampadari; le sue dita sapevano accartocciare come carta velina le monete da un ducato; e fra villa Salina e la bottega di un orefice era un frequente andirivieni per la riparazione di forchette e cucchiai che la sua contenuta ira, a tavola, gli faceva spesso piegare in cerchio. Quelle dita, d'altronde, sapevano anche essere di tocco delicatissimo nel carezzare e maneggiare,
di ciò si ricordava a proprio danno Maria Stella, la moglie; e le viti, le ghiere, i bottoni, smerigliati dei telescopi, cannocchiali, e "ricercatori di comete" che lassú, in cima alla villa, affollavano il suo osservatorio privato, si mantenevano intatti sotto lo sfioramento leggero. I raggi del sole calante ma ancora alto di quel pomeriggio di maggio accendevano il colorito roseo, il pelame color di miele del Principe; denunziavano essi l'origine tedesca di sua madre, di quella principessa Carolina la cui alterigia aveva congelato, trent'anni prima, la Corte sciattona delle Due sicilie.
Ma nel sangue di lui fermentavano altre essenze germaniche ben piú incomode per quell'aristocratico siciliano, nell'anno 1860, di quanto potessero essere attraenti la pelle bianchissima ed i capelli biondi nell'ambiente di olivastri e di corvini: un temperamento autoritario, una certa rigidità morale, una propensione alle idee astratte che nell'habitat molliccio della società palermitana si erano mutati rispettivamente in prepotenza capricciosa, perpetui scrupoli morali e disprezzo per i suoi parenti e amici, che gli sembrava andassero alla deriva nei meandri del lento fiume pragmatistico siciliano.
Primo (ed ultimo) di un casato che per secoli non aveva mai saputo fare neppure l'addizione delle proprie spese e la sottrazione dei propri debiti, possedeva forti e reali inclinazioni alle matematiche; aveva applicato queste all'astronomia e ne aveva tratto sufficienti riconoscimenti pubblici e gustosissime gioie private. Basti dire che in lui orgoglio e analisi matematica si erano a tal punto associati da dargli l'illusione che gli astri obbedissero ai suoi calcoli (come, di fatto, sembravano fare) e che i due pianetini che aveva scoperto (Salina e Svelto li aveva chiamati, come il suo feudo e un suo bracco indimenticato) propagassero la fama della sua casa nelle sterili plaghe fra Marte e Giove e che quindi gli affreschi della villa fossero stati piú una profezia che una adulazione.
Sollecitato da una parte dall'orgoglio e dall'intellettualismo materno, dall'altra dalla sensualità e faciloneria del padre, il povero principe Fabrizio viveva in perpetuo scontento pur sotto il cipiglio zeusiano, e stava a contemplare la rovina del proprio ceto e del proprio patrimonio senza avere nessuna attività ed ancora minor voglia di porvi riparo.
Quella mezz'ora fra il Rosario e la cena era uno dei momenti meno irritanti della giornata, ed egli ne pregustava ore prima la pur dubbia calma.