giovedì 29 dicembre 2011

Se Una Notte D’Inverno Un Viaggiatore

AUTORE: Italo Calvino
GENERE: Letteratura Italiana

TRAMA:
Un viaggiatore, una piccola stazione, una valigia da consegnare a una misteriosa persona... Da questa premessa si possono snodare innumerevoli vicende, ma sono dieci quelle che l'autore propone in questo sorprendente e godibilissimo romanzo.
"È un romanzo sul piacere di leggere romanzi: protagonista è il lettore, che per dieci volte comincia a leggere un libro che per vicissitudini estranee alla sua volontà non riesce a finire. Ho dovuto dunque scrivere l'inizio di dieci romanzi d'autori immaginari, tutti in qualche modo diversi da me e diversi tra loro." 
(Italo Calvino)

INCIPIT:
Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d'inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti, Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell'indistinto. La porta è meglio chiuderla; di là c'è sempre la televisione accesa. Dillo subito, agli altri: «No, non voglio vedere la televisione!» Alza la voce, se no non ti sentono: «Sto leggendo! Non voglio essere disturbato!» Forse non ti hanno sentito, con tutto quel chiasso; dillo più forte, grida: «Sto cominciando a leggere il nuovo romanzo di Italo Calvino! » O se non vuoi non dirlo; speriamo che ti lascino in pace.
Prendi la posizione più comoda: seduto, sdraiato, raggomitolato, coricato. Coricato sulla schiena, su un fianco, sulla pancia. In poltrona, sul divano, sulla sedia a dondolo, sulla sedia a sdraio, sul pouf. Sull'amaca, se hai un'amaca. Sul letto, naturalmente, o dentro il letto. Puoi anche metterti a testa in giù, in posizione yoga, Col libro capovolto, si capisce.
Certo, la posizione ideale per leggere non si riesce a trovarla. Una volta si leggeva in piedi, di fronte a un leggio. Si era abituati a stare fermi in piedi. Ci si riposava così quando si era stanchi d'andare a cavallo. A cavallo nessuno ha mai pensato di leggere; eppure ora l'idea di leggere stando in arcioni, il libro posato sulla criniera del cavallo, magari appeso alle orecchie del cavallo con un finimento speciale, ti sembra attraente. Coi piedi nelle staffe si dovrebbe stare molto comodi per leggere; tenere i piedi sollevati è la prima condizione per godere della lettura.
Bene, cosa aspetti? Distendi le gambe, allunga pure i piedi su un cuscino, su due cuscini, sui braccioli del divano, sugli orecchioni della poltrona, sul tavolino da tè, sulla scrivania, sul pianoforte, sul mappamondo. Togliti le scarpe, prima. Se vuoi tenere i piedi sollevati; se no, rimettitele. Adesso non restare lì con le scarpe in una mano e il libro nell'altra.
Regola la luce in modo che non ti stanchi la vista. Fallo adesso, perché appena sarai sprofondato nella lettura non ci sarà più verso di smuoverti. Fa' in modo che la pagina non resti in ombra, un addensarsi di lettere nere su sfondo grigio, uniformi come un branco di topi; ma sta' attento che non le batta addosso una luce troppo forte e non si rifletta sul bianco crudele della carta rosicchiando le ombre dei caratteri come in un mezzogiorno del Sud. Cerca di prevedere ora tutto ciò che può evitarti d'interrompere la lettura. Le sigarette a portata di mano, se fumi, il portacenere. Che c'è ancora? Devi far pipì? Bene, saprai tu.
Non che t'aspetti qualcosa di particolare da questo libro in particolare. Sei uno che per principio non s'aspetta più niente da niente. Ci sono tanti, più giovani di te o meno giovani, che vivono in attesa d'esperienze straordinarie; dai libri, dalle persone, dai viaggi, dagli avvenimenti, da quello che il domani tiene in serbo. Tu no. Tu sai che il meglio che ci si può aspettare è di evitare il peggio. Questa è la conclusione a cui sei arrivato, nella vita personale come nelle questioni generali e addirittura mondiali. E coi libri? Ecco, proprio perché lo hai escluso in ogni altro campo, credi che sia giusto concederti ancora questo piacere giovanile dell'aspettativa in un settore ben circoscritto come quello dei libri, dove può andarti male o andarti bene, ma il rischio della delusione non è grave.
Dunque, hai visto su un giornale che è uscito Se una notte d'inverno un viaggiatore, nuovo libro di Italo Calvino, che non ne pubblicava da vari anni.
Sei passato in librerìa e hai comprato il volume. Hai fatto bene.
Già nella vetrina della libreria hai individuato la copertina col titolo che cercavi. Seguendo questa traccia visiva ti sei fatto largo nel negozio attraverso il fitto sbarramento dei Libri Che Non Hai letto che ti guardavano accigliati dai banchi e dagli scaffali cercando d'intimidirti. Ma tu sai che non devi lasciarti mettere in soggezione, che tra loro s'estendono per ettari ed ettari i Libri Che Puoi Fare A Meno Di Leggere, i Libri Fatti Per Altri Usi Che La Lettura, i Libri Già Letti Senza Nemmeno Bisogno D'Aprirli In Quanto Appartenenti Alla Categoria Del Già Letto Prima Ancora D'Essere Stato Scritto. E così superi la prima cinta dei baluardi e ti piomba addosso la fanteria dei Libri Che Se Tu Avessi Più Vite Da Vivere Certamente Anche Questi Li Leggeresti Volentieri Ma Purtroppo I Giorni Che Hai Da Vìvere Sono Quelli Che Sono. Con rapida mossa li scavalchi e ti porti in mezzo alle falangi dei Libri Che Hai Intenzione Di Leggere Ma Prima Ne Dovresti Leggere Degli Altri, dei Libri Troppo Cari Che Potresti Aspettare A Comprarli Quando Saranno Rivenduti A Metà Prezzo, dei Libri Idem Come Sopra Quando Verranno Ristampati Nei Tascabili, dei Libri Che Potresti Domandare A Qualcuno Se Te Li Presta, dei Libri Che Tutti Hanno Letto Dunque È Quasi Come Se Li Avessi Letti Anche Tu. Sventando questi assalti, ti porti sotto le torri del fortilizio, dove fanno resistenza i Libri Che Da Tanto Tempo Hai in Programma Di Leggere,
i Libri Che Da Anni Cercavi Senza Trovarli,
i Libri Che Riguardano Qualcosa Di Cui Ti Occupi In Questo Momento,
i Libri Che Vuoi Avere Per Tenerli A Portata Di Mano In Ogni Evenienza,
i Libri Che Potresti Mettere Da Parte Per Leggerli Magari Quest'Estate,
i Libri Che Ti Mancano Per Affiancarli Ad Altri Libri Nel Tuo Scaffale,
i Libri Che Ti Ispirano Una Curiosità Improvvisa, Frenetica E Non Chiaramente Giustificabile.
Ecco che ti è stato possibile ridurre il numero illimitato di forze in campo a un insieme certo molto grande ma comunque calcolabile in un numero finito, anche se questo relativo sollievo ti viene insidiato dalle imboscate dei Libri Letti Tanto Tempo Fa Che Sarebbe Ora Di Rileggerli e dei Libri Che Hai Sempre Fatto Finta D'Averli Letti Mentre Sarebbe Ora Ti Decidessi A Leggerli Davvero.
Ti liberi con rapidi zig zag e penetri d'un balzo nella cittadella delle Novità Il Cui Autore O Argomento Ti Attrae, Anche all'interno di questa roccaforte puoi praticare delle brecce tra le schiere dei difensori dividendole in Novità D'Autori O Argomenti Non Nuovi (per te o in assoluto) e Novità D'Autori O Argomenti Completamente Sconosciuti (almeno a te) e definire l'attrattiva che esse esercitano su di te in base ai tuoi desideri e bisogni di nuovo e di non nuovo (del nuovo che cerchi nel non nuovo e del non nuovo che cerchi nel nuovo).
Tutto questo per dire che, percorsi rapidamente con lo sguardo i titoli dei volumi esposti nella libreria, hai diretto i tuoi passi verso una pila di Se una notte d'inverno un viaggiatore freschi di stampa, ne hai afferrato una copia e l'hai portata alla cassa perché venisse stabilito il tuo diritto di proprietà su di essa.
Hai gettato ancora un'occhiata smarrita ai libri intorno (o meglio: erano i libri che ti guardavano con l'aria smarrita dei cani che dalle gabbie del canile municipale vedono un loro ex compagno allontanarsi al guinzaglio del padrone venuto a riscattarlo), e sei uscito.
È uno speciale piacere che ti dà il libro appena pubblicato, non è solo un libro che porti con te ma la sua novità, che potrebbe essere anche solo quella dell'oggetto uscito ora dalla fabbrica, la bellezza dell'asino di cui anche i libri s'adornano, che dura finché la copertina non comincia a ingiallire, un velo di smog a depositarsi sul taglio, il dorso a sdrucirsi agli angoli, nel rapido autunno delle biblioteche. No, tu speri sempre d'imbatterti nella novità vera, che essendo stata novità una volta continui a esserlo per sempre. Avendo letto il libro appena uscito, ti approprierai di questa novità dal primo istante, senza dover poi inseguirla, rincorrerla. Sarà questa la volta buona? Non si sa mai. Vediamo come comincia.
Forse è già in libreria che hai cominciato a sfogliare il libro. O non hai potuto perché era avviluppato nel suo bozzolo di cellophane? Ora sei in autobus, in piedi, tra la gente, appeso per un braccio a una maniglia, e cominci a svolgere il pacchetto con la mano libera, con gesti un po' da scimmia, una scimmia che vuole sbucciare una banana e nello stesso tempo tenersi aggrappata al ramo. Guarda che stai dando gomitate ai vicini; chiedi scusa, almeno.
O forse il libraio non ha impacchettato il volume; te l'ha dato in un sacchetto. Questo semplifica le cose. Sei al volante della tua macchina, fermo a un semaforo, tiri fuori il libro dal sacchetto, strappi l'involucro trasparente, ti metti a leggere le prime righe. Ti piove addosso una tempesta di strombettii; c'è il verde; stai ostruendo il traffico.
Sei al tuo tavolo di lavoro, tieni il libro posato come per caso tra le carte d'ufficio, a un certo momento sposti un dossier e ti trovi il libro sotto gli occhi, lo apri con aria distratta, appoggi i gomiti sul tavolo, appoggi le tempie alle mani piegate a pugno, sembra che tu sia concentrato nell'esame d'una pratica e invece stai esplorando le prime pagine del romanzo, A poco a poco adagi la schiena contro la spalliera, sollevi il libro all'altezza del naso, inclini la sedia in equilibrio sulle gambe posteriori, apri un cassetto laterale della scrivania per posarci i piedi, la posizione dei piedi durante la lettura è della massima importanza, allunghi le gambe sul piano del tavolo, sopra le pratiche inevase.
Ma non ti sembra una mancanza di rispetto? Di rispetto, s'intende, non verso il tuo lavoro (nessuno pretende di giudicare il tuo rendimento professionale; ammettiamo che le tue mansioni siano regolarmente inserite nel sistema delle attività improduttive che occupa tanta parte dell'economia nazionale e mondiale), ma verso il libro. Peggio ancora se invece tu appartieni - per forza o per amore - al numero di quelli per i quali lavorare vuol dire lavorare sul serio, compiere - intenzionalmente o senza farloapposta - qualcosa di necessario o almeno di non inutile per gli altri oltre che per sé: allora il libro che ti sei portato dietro sul luogo di lavoro come una specie d'amuleto o talismano t'espone a tentazioni intermittenti, pochi secondi per volta sottratti all'oggetto principale della tua attenzione, sia esso un perforatore di schede elettroniche, i fornelli d'una cucina, le leve di comando d'un bulldozer, un paziente steso con le budella all'aria sul tavolo operatorio.
Insomma, è preferibile tu tenga a freno l'impazienza e aspetti ad aprire il libro quando sei a casa. Ora sì. Sei nella tua stanza, tranquillo, apri il libro alla prima pagina, no, all'ultima, per prima cosa vuoi vedere quant'è lungo. Non è troppo lungo, per fortuna. I romanzi lunghi scritti oggi forse sono un controsenso: la dimensione del tempo è andata in frantumi, non possiamo vivere o pensare se non spezzoni di tempo che s'allontanano ognuno lungo una sua traiettoria e subito spariscono. La continuità del tempo possiamo ritrovarla solo nei romanzi dì quell'epoca in cui il tempo non appariva più come fermo e non ancora come esploso, un'epoca che è durata su per giù cent'anni, e poi basta.
Rigiri il libro tra le mani, scorri le frasi del retro-copertina, del risvolto, frasi generiche, che non dicono molto. Meglio così, non c'è un discorso che pretenda di sovrapporsi indiscretamente al discorso che il libro dovrà comunicare lui direttamente, a ciò che dovrai tu spremere dal libro, poco o tanto che sia. Certo, anche questo girare intorno al libro, leggerci intorno prima di leggerci dentro, fa parte del piacere del libro nuovo, ma come tutti i piaceri preliminari ha una sua durata ottimale se si vuole che serva a spingere verso il piacere più consistente della consumazione dell'atto, cioè della lettura del libro.
Ecco dunque ora sei pronto ad attaccare le prime righe della prima pagina. Ti prepari a riconoscere l'inconfondibile accento dell'autore. No. Non lo riconosci affatto. Ma, a pensarci bene, chi ha mai detto che questo autore ha un accento inconfondibile? Anzi, si sa che è un autore che cambia molto da libro a libro. E proprio in questi cambiamenti si riconosce che è lui. Qui però sembra che non c'entri proprio niente con tutto il resto che ha scritto, almeno a quanto tu ricordi. È una delusione? Vediamo, Magari in principio provi un po' di disorientamento, come quando ti si presenta una persona che dal nome tu identificavi con una certa faccia, e cerchi di far collimare i lineamenti che vedi con quelli che ricordi, e non va. Ma poi prosegui e t'accorgi che il libro si fa leggere comunque, indipendentemente da quel che t'aspettavi dall'autore, è il libro in sé che t'incuriosisce, anzi a pensarci bene preferisci che sia così, trovarti di fronte a qualcosa che ancora non sai bene cos'è.


mercoledì 28 dicembre 2011

Lo Strano Caso Del Cane Ucciso A Mezzanotte

AUTORE: Mark Haddon
GENERE: Letteratura Internazionale Contemporanea

TRAMA:
Quando scopre il cadavere del cane barbone della vicina, Christopher Boone capisce di trovarsi davanti a uno di quei misteri che il suo eroe, Sherlock Holmes, era cosi bravo a risolvere. Perciò incomincia a scrivere un libro mettendo insieme gli indizi del caso dal suo punto di vista. E il suo punto di vista e davvero speciale. Perché Christopher ha un rapporto molto problematico con il mondo: è un ragazzo autistico. Odia essere toccato, odia il giallo e il marrone, non mangia cibi se cibi diversi vengono a contatto l'uno con l'altro, non riesce a interpretare l'espressione del viso degli altri, non sorride mai. Ma adora la matematica e l'astronomia. Scrivendo il suo libro giallo Christopher inizia a far luce su un mistero ben più importante di quello del cane barbone. Come è morta sua madre? Perchè suo padre non vuole che lui faccia troppe domande ai vicini? Per rispondere a queste domande dovrà intraprendere un viaggio iniziatico in treno e in metropolitana, in luoghi e situazioni per lui difficili, approdando a una sorta di età adulta, orgoglioso di sapersi muovere nel mondo caotico e rumoroso degli altri.

INCIPIT:
Mezzanotte e 7 minuti. Il cane era disteso sull'erba in mezzo al prato di fronte alla casa della signora Shears. Gli occhi erano chiusi. Sembrava stesse correndo su un fianco, come fanno i cani quando sognano di dare la caccia a un gatto. Il cane però non stava correndo, e non dormiva. Il cane era morto. Era stato trafitto con un forcone. Le punte del forcone dovevano averlo passato da parte a parte ed essersi conficcate nel terreno, perché l'attrezzo era ancora in piedi. Decisi che con ogni probabilità il cane era stato ucciso proprio con quello perché non riuscivo a scorgere nessun'altra ferita, e non credo che a qualcuno verrebbe mai in mente di infilzare un cane con un forcone nel caso in cui fosse già morto per qualche altra ragione, di cancro per esempio, o per un incidente stradale. Ma non potevo esserne certo.
Aprii il cancelletto di casa della signora Shears, richiudendolo dietro di me. Attraversai il prato e mi inginocchiai vicino al cane. Gli appoggiai la mano sul muso. Era ancora caldo.
Il cane si chiamava Wellington. Apparteneva alla signora Shears, che era nostra amica. Abitava dall'altro lato della strada, due case piú in là, sulla sinistra.
Wellington era un cane barbone. Non uno di quei barboncini tutti bei pettinati, no, uno di quelli grossi. Aveva il pelo riccio e nero, ma quando lo si guardava da vicino ci si rendeva conto che sotto quella cosa arruffata la pelle era di un colore giallo pallido, come quella di un pollo.
Accarezzai Wellington e mi domandai chi l'avesse ucciso, e perché.

Mi chiamo Christopher John Francis Boone. Conosco a memoria i nomi di tutte le nazioni del mondo e delle loro capitali, e ogni numero primo fino a 7507. 
Otto anni fa, quando incontrai Siobhan per la prima volta, lei mi mostrò questo disegno e io imparai che significava «essere tristi», che era come mi ero sentito quando avevo trovato il cane morto.
Poi mi mostrò anche questo disegno
 e io imparai che significava «essere felici», che è quello che mi succede quando leggo delle missioni nello spazio dell'Apollo, oppure quando sono ancora sveglio alle tre o alle quattro di mattina e passeggio su e giú per la strada, fingendo di essere l'unico superstite sulla Terra.
Poi ne disegnò degli altri ma io non ero stato capace di dire cosa significassero.
Chiesi a Siobhan di disegnare tante di queste facce e di scrivere vicino a ognuna di esse il loro esatto significato. Conservavo quel foglietto in tasca e lo tiravo fuori tutte le volte che non capivo cosa mi diceva la gente. Però era molto difficile decidere a quale di questi diagrammi corrispondesse l'espressione delle loro facce, perché le facce delle persone cambiano molto velocemente.
Quando lo raccontai a Siobhan, lei prese un pezzo di carta e una matita e mi spiegò che il mio modo di fare probabilmente faceva sentire le persone molto a disagio e poi scoppiò a ridere. Cosí strappai il foglio originale e lo gettai via. E Siobhan mi chiese scusa. E adesso ogni volta che non capisco quello che la gente dice chiedo cosa significa, o mi volto e me ne vado.
Estrassi il forcone, sollevai il cane e lo presi tra le braccia. Perdeva sangue dai buchi delle ferite.
I cani mi piacciono. Si sa sempre cosa passa per la testa di un cane. I suoi stati d'animo sono quattro. Un cane può essere felice, triste, arrabbiato o concentrato. E poi i cani sono fedeli e non dicono bugie perché non sanno parlare.
Stringevo il cane ormai da 4 minuti quando sentii l'urlo. Alzai gli occhi e vidi la signora Shears correre verso di me dalla veranda. Indossava un pigiama rosa e una vestaglia. Le unghie dei piedi erano dipinte di un rosa brillante ed era scalza.
- Che cazzo hai fatto al mio cane? - strillava.
Non mi piace quando qualcuno mi urla in faccia. Sono terrorizzato all'idea che possa colpirmi o toccarmi e non capisco cosa sta per succedere.
- Lascia stare quel cane, - continuava a gridare. - Lascia stare quel cane, per l'amor di Dio.
Appoggiai il cane sul prato e mi allontanai di 2 metri.
 Lei si chinò. Pensavo che l'avrebbe preso in braccio, ma non lo fece. Forse si era accorta di tutto quel sangue e non voleva sporcarsi. Invece ricominciò a urlare.
 Mi misi le mani sulle orecchie, chiusi gli occhi e rotolai in avanti finché non mi ritrovai accovacciato per terra con la fronte premuta contro l'erba. Il prato era bagnato e freddo. Si stava bene.
Questo libro è un giallo.
Siobhan una volta mi ha detto che avrei dovuto scrivere qualcosa che mi sarebbe piaciuto leggere. La maggior parte dei libri che leggo parlano di matematica o di scienza. I romanzi non mi piacciono. Nei romanzi le persone dicono frasi del tipo: «In me scorrono venature di ferro e d'argento, striate del piú miserevole fango. Il mio spirito non può essere contenuto nel pugno serrato che coloro le cui azioni non dipendono dalle passioni vorrebbero poter trattenere». Che significa? Io non lo so. E neanche mio padre. E neppure Siobhan o il signor Jeavons. Gliel'ho chiesto.
Siobhan ha lunghi capelli biondi e un paio di occhiali di plastica verde. II signor Jeavons profuma di sapone e porta scarpe marroni, ognuna delle quali ha circa 60 minuscoli fori circolari.
Però i gialli mi piacciono. Cosí ho deciso di scriverne uno.
In un giallo qualcuno deve scoprire chi è l'assassino e poi prenderlo. È come un rompicapo. E se è un rompicapo ben congegnato, qualche volta si può trovare la risposta prima di arrivare alla fine.
Siobhan mi ha detto che un libro dovrebbe cominciare con qualcosa che catturi l'attenzione del lettore. Ecco perché ho iniziato col cane. Ho iniziato col cane anche perchè ho trovato questo libro nella biblioteca locale una volta che mia madre mi ha accompagnato in centro. Perché si tratta di una cosa successa a me, e trovo difficile immaginare cose che non mi siano capitate personalmente.
Siobhan ha letto la prima pagina e ha detto che il mio libro era diverso. Ha messo questa parola tra virgolette indicando le due lineette ricurve con l'indice e il medio. Ha detto che in un giallo di solito sono delle persone a morire. Le ho spiegato che nel Mastino dei Baskerville vengono uccisi due cani, il mastino stesso e lo spaniel di James Mortimer, ma Siobhan ha obiettato che non sono loro le vittime designate, ma Sir Charles Baskerville. È cosí perché il pubblico è piú interessato agli uomini che ai cani, e quindi se nel libro viene assassinata una persona, si è sicuramente più invogliati ad andare avanti.
Ho detto che volevo parlare di una cosa che era successa veramente e che sapevo di qualcuno che era morto, ma nessuno che fosse stato ucciso, a eccezione del padre di Edward, un mio compagno di scuola, il signor Paulson; però quello era stato un incidente - era scivolato accidentalmente - e non un omicidio, e poi lo conoscevo appena. Ho detto anche che a me piacevano di piú i cani perché erano fedeli e onesti, e che alcuni di loro erano piú in gamba e più interessanti di molte persone. Steve, per esempio, che viene al centro il giovedí, ha bisogno che qualcuno lo aiuti a mangiare, e non sarebbe neanche capace di riportare un bastoncino. Siobhan mi ha chiesto di non dirlo alla madre di Steve.
Poi arrivò la polizia. A me piace la polizia. Portano delle uniformi con sopra dei numeri e si sa sempre perché fanno quello che fanno. C'erano una donna poliziotto e un poliziotto. La donna poliziotto aveva un buchino nelle calze dalla parte della caviglia sinistra, da cui si intravedeva un graffio di colore rosso al centro. Una grossa foglia arancione stava incollata alla suola di una delle scarpe del poliziotto e faceva capolino di lato.
La donna poliziotto abbracciò la signora Shears e la condusse verso casa.
 Sollevai la testa dall'erba. 
II poliziotto si inginocchiò vicino a me e disse: - Puoi dirmi cosa sta succedendo, giovanotto?

Mi misi seduto e risposi: - II cane è morto.
- Fin qui c'ero arrivato anch'io.

- Penso che qualcuno abbia ucciso il cane, - continuai.

- Quanti anni hai? - mi chiese.

- 15 anni, 3 mesi e 2 giorni, - risposi.

- E cosa stavi facendo, per l'esattezza, in giardino?

- Tenevo il cane in braccio.
- E perché lo tenevi in braccio?

Quella sì che era una domanda difficile. Avevo voglia di farlo, tutto qui. I cani mi piacciono.
E mi sentivo triste, a vedere quel cane morto.
Anche i poliziotti mi piacciono, e avrei voluto rispondere a quella domanda nel migliore dei modi, ma il poliziotto non mi diede il tempo per elaborare la risposta giusta.

- Allora, perché tenevi quel cane in braccio? - mi chiese per la seconda volta.

- Mi piacciono i cani.
- Sei stato tu a ucciderlo?
- Non l'ho ucciso io, - risposi.

- È tuo questo attrezzo?
- No, - risposi.

- Sembri sconvolto, - disse.

Mi stava facendo troppe domande, e tutte troppo in fretta. Si accatastavano dentro la mia testa come fanno le pagnotte nella fabbrica dove lavora lo zio Terry. In quella fabbrica producono il pane e lui aziona le macchine che lo affettano. E anche se qualche volta l'affettatrice è un po' lenta, il pane continua a uscir fuori e alla fine si blocca tutto. Qualche volta penso al mio cervello come a una macchina, ma non sempre come a un'affettatrice per il pane. In questo modo è più semplice spiegare agli altri come funziona.
Il poliziotto ripeté: - Te lo chiedo ancora una volta...
Mi rannicchiai di nuovo sul prato, premetti la fronte per terra e dalla bocca mi uscí quel suono che mio padre definisce una cosa mista tra un gemito e un lamento. Emetto questo suono quando ci sono troppe informazioni dall'esterno che mi si ammucchiano nel cervello. È come quando sei triste e tieni la radio appiccicata all'orecchio sintonizzata tra una stazione e l'altra, e ti arriva soltanto un rumore indistinto, e allora alzi il volume talmente forte che non riesci a sentire nient'altro e in quel momento sai di essere al sicuro perché non senti nient'altro.
Il poliziotto mi afferrò per un braccio e mi sollevò in aria. 
Il modo in cui mi toccò non mi piacque per niente.
 Fu allora che lo colpii.
Il mio non sarà un libro divertente. Non sono capace di raccontare le barzellette o fare giochi di parole perché non li capisco.
Eccone uno, come esempio. Uno di quelli che racconta mio padre. Aveva la faccia un po' tirata, ma solo perché aveva chiuso le tende.
 So perché dovrebbe far ridere. Gliel'ho chiesto. È perché il verbo tirare in questa frase ha due significati diversi: 1) essere tesi, esausti, 2) tirare le tende, e il significato 1 si riferisce solo all'espressione del viso, il 2 soltanto alle tende.
Se cerco di ri-raccontarmi questo gioco di parole mentalmente, cercando di pensare ai due diversi significati del verbo, per me è come ascoltare due differenti brani musicali allo stesso tempo; mi sento a disagio e fuori posto come quando mi arriva quel rumore indistinto di cui parlavo prima. È come se due persone diverse mi parlassero tutte insieme contemporaneamente di due argomenti diversi.
Ed ecco perché in questo libro non ci saranno giochi di parole.


lunedì 26 dicembre 2011

Un Diamante Da Tiffany

AUTORE: Karen Swan
GENERE: Letteratura Rosa

TRAMA:
Cassie pensava di aver realizzato il suo sogno d'amore, sposando il suo primo fidanzato. Adesso, a distanza di dieci anni, si sente tradita e a pezzi. Il suo matrimonio è in crisi, non ha un lavoro e nemmeno una casa: ha urgente bisogno di capire chi sia realmente e quale direzione prendere. È ora di voltare pagina e abbandonare la vita fin troppo tranquilla della campagna scozzese. Così decide di passare del tempo con ognuna delle sue migliori amiche, nelle tre capitali più glamour del mondo: New York, Parigi e Londra. In un viaggio ricco di sorprese e incontri inaspettati, dalle vetrine luccicanti della Fifth Avenue ai caffè sugli Champs Élysées, fino alle stradine colorate di Notting Hill, Cassie cercherà di scoprire quale sia la città su misura per lei. Sarà la magica scatolina blu di Tiffany a cambiare la sua vita per sempre?

INCIPIT:
Kelly Hartford guardò fuori dal finestrino del taxi, esaminando l’orizzonte in cerca di qualche punto di riferimento – un lago, un palazzo bizzarro o un albero particolarmente alto – che potesse confermarle che stavano andando nella direzione giusta. Erano passati dieci anni esatti dall’ultima volta che era andata a trovare la sua amica, e aveva dimenticato quanto fosse fuori il fuori città in cui viveva. A parte un paio di abitazioni rurali nella brughiera, per più di cinquanta chilometri non aveva visto case o macchine. Kelly non capiva come facesse Cassie a resistere, in quel posto.
Dal finestrino entrò un raggio di sole, che la abbagliò per un attimo, e la indusse a rovistare nella borsa in cerca di un paio di occhiali da sole. Un’altra cosa che aveva dimenticato era quanto fossero più lunghi i giorni lassù durante l’estate. Erano quasi le sette di sera di un giorno di tardo agosto, ma dal blu del cielo sembrava mezzogiorno. Solo verso le undici il sole avrebbe fatto un inchino di commiato e sarebbe sparito dietro le colline.
Arrivarono a un bivio in quella strada che sembrava non avere fine, e il taxi girò a sinistra. Kelly si stirò i pollici come le aveva insegnato il fisioterapista, e poi ricominciò a digitare freneticamente sul telefono. Non a lungo, però: la macchina prese una strada sterrata e dovette aggrapparsi al poggiatesta per mantenersi dritta.
«Gesù», brontolò, mentre le sospensioni imbizzarrite la sballottavano di qua e di là. «Forse un cammello sarebbe stato più comodo».
Il tassista, arcigno, non rispose, ma lei sapeva che quel colabrodo di strada di campagna era il punto di riferimento che stava cercando. Più avanti si intravedevano le aquile in cima alle colonne e la casetta del custode, a segnare il perimetro della tenuta e la fine del suo lungo viaggio. Essendo arrivata a Edimburgo dopo aver fatto scalo a Heathrow, viaggiava da un giorno intero, e aveva disperatamente bisogno di una doccia e di un bel riposino prima di entrare nel vivo dei festeggiamenti. Sapeva benissimo che ce l’avrebbe fatta anche prendendo il volo successivo. Se fosse passata per Newark, sarebbe atterrata tre ore prima e avrebbe avuto tutto il pomeriggio per riposarsi ed essere pronta insieme agli altri, ma chi voleva prendere in giro? Per le ragazze come lei JFK era l’unico aeroporto, e in ogni caso Bebe stava impazzendo per mettere insieme la collezione: le stava per venire un colpo quando Kelly aveva insistito per lasciare il lavoro per presenziare a una festa in Scozia. Erano le ultime due settimane disponibili per terminare le collezioni, e rimanere a disposizione fino alla fine, portare con sé solo il bagaglio a mano e aspettare fino all’ultimo minuto per imbarcarsi era stato il minimo che avesse potuto fare.
Il terreno coperto d’edera della brughiera scomparve improvvisamente al cancello, per fare posto a un viale di altissimi pini scozzesi i cui aghi ricoprivano il suolo come un tappeto. Il taxi procedeva lento sulla strada che si snodava in mezzo a banchi di aceri bordeaux, alti e vibranti, rododendri viola e prati color magenta di trifogli accarezzati dal vento. Quell’improvvisa esplosione di colori curatissimi annunciava la prossimità della grande villa, e mentre l’auto passava in mezzo ai due alberi di tasso giganteschi e bombati che incorniciavano la strada, pensò che sembrava più imponente di come se la ricordava. E più rosa. Era stata costruita con una pietra tipica della zona, e di solito, immersa nella consueta pioggia, appariva marrone. Quella sera invece, scaldata dal sole di fine estate, virava su delle allegre tinte di rosso. Alta, con sei cuspidi affilate come cappelli di streghe, la casa iniziava con una distesa di gradini di pietra fino al portone d’ingresso e proseguiva con delle finestre dai vetri piombati, una delle quali era un’enorme vetrata panoramica che prendeva tutta la facciata centrale, inondando l’ingresso di luce e offrendo una vista straordinaria sulle colline del Lammermuir dalla balconata sopraelevata.
Mentre il taxi rallentava in prossimità della scalinata d’ingresso, Kelly alzò il volume della suoneria del suo iPhone al massimo: una volta dentro l’enorme casa, non voleva perdere nessuna chiamata.
Poi abbassò le spalle di quasi cinque centimetri, cercando di fare una serie di respiri profondi, come se si apprestasse a fare yoga. Bebe se la sarebbe cavata senza di lei. La sera dopo sarebbe risalita sull’aereo e sarebbe tornata in ufficio lunedì, per pranzo. C’era chi si prendeva pause più lunghe di quella anche per andare in bagno.
L’orologio a pendolo dell’ingresso al piano di sotto batté il settimo rintocco proprio mentre il tappo dello champagne schizzava via e Suzy lo versava nei bicchieri.
«Cin cin!», esclamò Cassie, mentre si sedeva sul letto con le gambe raccolte e gli occhi luminosi e scintillanti. «A noi».
Anouk piegò la testa da un lato. «Non farti sentire da tuo marito», la provocò con il suo morbido accento francese. «Teoricamente, questa serata sarebbe per te e lui».
Cassie scrollò le spalle, felice, e sospirò. Naturalmente Anouk aveva ragione. Avevano resistito insieme dieci anni, in un momento storico in cui la maggior parte delle coppie non superava il secondo, e per celebrare avevano organizzato una festa, in grande quanto era stato il matrimonio, o forse anche di più. Ma anche se Cassie andava fiera del traguardo raggiunto, se non altro perché voleva dire che aveva mantenuto la sua parte del loro “accordo”, ciò che la entusiasmava ancora di più era il fatto che quella era un’occasione perfetta per radunare le sue migliori amiche dai quattro angoli del mondo. Sapeva bene che Suzy, Anouk e Kelly si vedevano abbastanza spesso: dopotutto, Londra, Parigi e New York erano città che toccavano abitualmente nei loro viaggi. Ma chi deviava mai fino agli Scottish Borders? Nessuna di loro. Quando fosse arrivata anche Kelly, sarebbe stata la prima volta che si ritrovavano tutte insieme dal giorno del suo matrimonio.
Cassie osservò Susy mentre prendeva con cura una scatola celeste a pois color cioccolato dall’estremità del letto. «Lo champagne potrà anche essere per te e Gil», disse ridacchiando, «ma queste sono per noi». Dentro la scatola c’erano quattro cupcake giganti, ricoperte con una glassa al limone chiarissima e guarnite con una rosa bianca in cima.
«Magnifique», sospirò Anouk, allungandosi per passarne una a Cassie.
«Oddio, sono adorabili», urlò Cassie, alzando la sua alla luce del sole. «Sembrano dei coniglietti». C’era una bella differenza tra la Dundee cake e tutte le prelibatezze sofisticate che ti allettavano dalle vetrine delle pasticcerie a Pimlico, rifletté Cassie.
«Sono al frutto della passione?», chiese, seminando briciole dappertutto.
Suzy annuì. «Ti piacciono? Ho lavorato alla ricetta insieme alla pasticceria, per un matrimonio che sto organizzando. Ci è voluta una vita per farle venir fuori come volevo: una volta erano venute troppo appiccicose, quella dopo troppo insapori. Ma adesso mi pare che ci siamo, no?».
Cassie annuì, estasiata.
«La sposa si sta comportando bene?», chiese Anouk, lasciandosi andare sui cuscini e mangiando la sua cupcake a piccoli morsi. Suzy alzò gli occhi al cielo. «Lo fanno mai? Praticamente l’unica cosa su cui non ha cambiato idea è lo sposo. Ma, visto che
manca ancora un mese, c’è sempre tempo». Anouk scosse la testa, ridacchiando. «Non so come fai a reggere, con tutto lo stress che ti riverseranno addosso». Suzy diede uno sguardo al suo pancino rotondo. «Be’, potrei cavarmela anche in situazioni peggiori. Perché secondo voi le mie spose perdono sempre almeno cinque chili prima del loro matrimonio, e io invece sembra che riesca solo a ingrassare? Voglio dire, sono io quella con le rogne da risolvere! Accordarsi con i fiorai, con i gestori che affittano i locali due volte, e poi gruppi musicali inaffidabili, DJ cocainomani, parroci minacciosi... Qualsiasi problema vi venga in mente, è un problema che ho già affrontato. Dovrei essere io quella che dimagrisce». Cassie sospirò. Da quando la conosceva – cioè da quando erano nate – Suzy era sempre stata ossessionata dal tentativo di rimpicciolire. A dodici anni era già alta un metro e settantacinque, con una costituzione che sarebbe comunque rimasta atletica anche se fosse stata scheletrica. Si era sempre sentita troppo ingombrante, e il desiderio adolescenziale di essere come le altre non l’aveva mai abbandonata, soprattutto ora che lavorava ogni giorno a contatto con spose sempre più magre.
Ma qualunque cosa pensasse Suzy del suo peso, a Cassie sembrava più in forma che mai: dimostrava meno dei suoi trent’anni, con il suo colorito rosa e vellutato, quegli occhioni marroni da Bambi e il taglio scalato che portava da un po’ e valorizzava al massimo i suoi sottilissimi capelli biondo scuro.
Anouk, dall’altra parte, era l’antitesi di Suzy sotto ogni aspetto. Minuta, scura e sicura di sé. La sua chioma folta, color castagna, era acconciata in un caschetto scompigliato di eccellente fattura, tagliato precisamente all’altezza dei suoi zigomi pronunciati. Aveva un naso dritto e sottile, e delle labbra piene piacevolmente accentuate dall’arcata superiore dei denti un po’ sporgente. Paragonata a Suzy, portava male i suoi trent’anni, ma non per via delle rughe o di qualsiasi altro segno borghese dell’età: Cassie sapeva bene che con il contenuto del bagno di Anouk si sarebbe potuta riempire una profumeria e che sulla cura del proprio aspetto aveva una disciplina che avrebbe fatto impallidire Cleopatra. Il fatto era che aveva una sofisticata aria di donna di mondo che era raro vedere poggiata su spalle così delicate, e che si poteva osservare di solito in donne di dieci o venti anni più vecchie.
«Sinceramente, penso che vivere in quelle città vi faccia male alla salute», fece Cassie con aria di rimprovero. «A sentirvi, mi pare che vi faccia diventare tutte fissate con la linea. Quassù, a queste cose, non ci fa caso nessuno».
«Perché no?», chiese Anouk. «Che c’è di male a prendersi cura di sé?»
«Ma è proprio quello il punto. Questo non è prendersi cura di sé, è rifiutare se stesse. Mi sembra che vi costringiate a morire di fame, per raggiungere un ridicolo peso piuma che i vostri corpi non possono tollerare. Dovreste rilassarvi e... godervi le cupcake», sospirò dando un ultimo morso.
«Questa cosa di te è veramente terribile», ringhiò Suzy. «Tu rimani magra senza doverci neanche pensare. L’unica cosa che mi consola è che Anouk e Kelly invece soffrono terribilmente per evitare di ingrassare».
«Non soffro, io», fece Anouk, piccata e un po’ risentita che le fosse stato attribuito un sentimento così poco elegante.
«Ah, no? E allora perché ogni volta che ti vedo sei sempre più magra?»
«Sono una parigina, chérie», disse alzando le spalle, come se quello spiegasse tutto. «È nel mio DNA».
«Mmm, la solita solfa».
«Che ti metti stasera?», chiese Anouk a Cassie, ancora intenta a sbocconcellare la torta. «Spero che tu abbia dilapidato il patrimonio di famiglia per comprarti qualcosa di fantastico».
Cassie scosse la testa, consapevole della delusione che stava causando. «Temo di no. La prossima settimana inizia la stagione della caccia e ultimamente ho passato il tempo rinchiusa nelle cucine, cercando di portarmi avanti con il lavoro. E poi quest’estate abbiamo avuto una produzione eccezionale di susine e sono stata impegnata a cercare di raccoglierle tutte per farci le conserve».
Anouk lasciò cadere la mano, disgustata. «Hai rinunciato a un vestito nuovo per delle susine?»
«Non rimandare a domani la marmellata che potresti fare oggi, eh?», brontolò Suzy, alzando gli occhi al cielo.
Cassie fece spallucce. «È più di un mese che non riesco a uscire dalla tenuta», disse, mentre si alzava e si dirigeva verso il guardaroba. «In ogni caso, a Gil è sempre piaciuto questo vestito di velluto nero che ho comprato qualche anno fa per capodanno. L’avrò messo sì e no tre o quattro volte». Se lo appoggiò sopra: era un abito al ginocchio, senza spalline, con una rosa di velluto in mezzo. «È pur sempre di Laura Ashley».
«Laura...», le fece eco Anouk con le labbra, girandosi inorridita verso Suzy.
«Sì, lo so che a vederlo sulla gruccia non sembra un granché. Ma devo dire che quando lo indosso...». Si accorse dell’espressione scettica di Suzy. «Facciamo così: me lo provo, così vedrete che non è poi così male». Mentre si stava togliendo la vestaglia, la porta si spalancò di colpo.
In una sola occhiata, Kelly inquadrò Cassie col suo reggiseno Playtex che una volta doveva essere stato bianco e la culotte tutta cadente, e rimase a bocca aperta. «Oh mio Dio! È peggio di quanto pensassi».
Cassie cacciò un urletto e corse verso Kelly, raggiante, avvolgendola in un abbraccio caloroso.


venerdì 23 dicembre 2011

La Mia Famiglia Ed Altri Animali

AUTORE: Gerald Durrell
GENERE: Romanzo Contemporaneo

TRAMA:
"Questa è la storia dei cinque anni che ho trascorso da ragazzo, con la mia famiglia, nell'isola greca di Corfù. In origine doveva essere un resoconto blandamente nostalgico della storia naturale dell'isola, ma ho commesso il grave errore di infilare la mia famiglia nel primo capitolo del libro. Non appena si sono trovati sulla pagina non ne hanno più voluto sapere di levarsi di torno, e hanno persino invitato i vari amici a dividere i capitoli con loro". Così Gerald Durrell presenta questo libro, uno dei più universalmente amati che siano apparsi in Inghilterra negli ultimi trent'anni. Ma il lettore avrà il piacere di scoprirvi anche qualcos'altro: la storia di un Paradiso Terrestre, e di un ragazzo che vi scorrazza instancabile, curioso di scoprire la vita (che per lui, futuro illustre zoologo, è soprattutto la natura e gli animali), passando anche attraverso avventure, tensioni, turbamenti, tutto però stemperati in una atmosfera di tale felicità che il lettore ne viene fin dalle prime pagine contagiato.

INCIPIT:
PARTE PRIMA
C'è un piacere sicuro nell'esser matto, che i matti soltanto conoscono.
DRYDEN,
The Spanish Friar, II, 1

LA MIGRAZIONE
Luglio si era spento come una candela sotto il soffio di un vento tagliente che aveva fatto da scorta a un plumbeo cielo d'agosto.
Cadeva una pioggerella pungente e fitta che ogni raffica di vento faceva ondeggiare come opachi lenzuoli grigi. Lungo il litorale di Bournemouth le cabine volgevano le loro vuote facce di legno verso un mare grigio-verdastro e crestato di spuma che balzava impetuoso contro il parapetto di cemento lungo la riva. I gabbiani erano stati rovesciati a valanghe sopra la città, e ora vagavano alti sui tetti, ad ali tese, lamentandosi queruli. Era proprio un tempo fatto apposta per mettere a dura prova la pazienza di tutti.
Considerata in gruppo, la mia famiglia quel pomeriggio non offriva uno spettacolo molto edificante, perché il tempo aveva portato con sé la solita selezione di malattie alle quali andavamo soggetti. A me, che me ne stavo sdraiato sul pavimento a catalogare le conchiglie della mia collezione, aveva portato il catarro, rovesciandomelo nel cranio come una colata di cemento, sicché respiravo rantolando con la bocca aperta. A mio fratello Leslie, rincantucciato cupo e torvo accanto al fuoco, aveva infiammato i canali semicircolari delle orecchie a tal punto che gli sanguinavano, in modo leggero ma persistente. A mia sorella Margo aveva regalato una nuova fioritura di acne su un viso che era già marezzato come un velo rosso. Per mia madre c'era un bel raffreddore gorgogliante, insaporito da un attacco di reumatismi. Era indenne soltanto il mio fratello maggiore, Larry, ma il fatto che fosse irritato dai nostri malanni bastava.
E naturalmente fu Larry a cominciare. Noi ci sentivamo troppo apatici per pensare ad altro che ai nostri mali, ma Larry è stato designato dalla Provvidenza a passare attraverso la vita come un piccolo, biondo fuoco d'artificio, facendo esplodere idee nelle menti altrui e poi raggomitolandosi al modo mellifluo di un gatto e declinando ogni responsabilità per le conseguenze. Man mano che il pomeriggio avanzava era diventato sempre più irritabile. Infine, girando uno sguardo truce per la stanza, decise di attaccare mamma,
come se fosse l'ovvia causa di tutti i guai.
«Perché sopportiamo questo maledetto clima?» domandò all'improvviso, facendo un gesto verso la finestra coi suoi obliqui ruscelli di pioggia. «Guarda lì! E quanto a questo, guarda noi... Margo tutta gonfia come un piatto di porridge rosso... Leslie che se ne va in giro con dieci metri di ovatta nelle orecchie... Gerry che pare che abbia il palato fesso dalla nascita... E guarda te: ogni giorno che passa hai un'aria più decrepita e stravolta».
Mamma gettò un'occhiata al di sopra di un grosso volume intitolato Ricette facili del Rajputana.
«Neanche per sogno!» disse sdegnata.
«E invece sì,» insistette Larry «cominci a somigliare a una lavandaia irlandese... e i tuoi figli sembrano le illustrazioni di un'enciclopedia medica».
A questo mamma non riuscì a trovare nessuna risposta veramente schiacciante, quindi si accontentò di dargli un'occhiata severa prima di tornare a rifugiarsi dietro il suo libro.
«Quello che ci vuole per noi è il sole,» continuò Larry «non sei d'accordo, Les?... Les... Les!».
Leslie si srotolò da un orecchio un bel pezzo d'ovatta.
«Cosa hai detto?» domandò.
«Eccoti servita!» disse Larry, voltandosi trionfante verso mamma.
«Parlare con lui è diventata un'impresa problematica. Dimmi tu che razza di situazione! Un fratello non sente quello che gli dici e l'altro non lo si capisce quando parla. Francamente è ora di fare qualcosa. Non si può pretendere che io crei la mia prosa immortale in un'atmosfera pregna di tetraggine e di eucalipto».
«Sì, caro» disse mamma in tono vago.
«Quello che ci vuole per tutti noi» disse Larry tornando in argomento «è il sole... un paese dove possiamo espanderci».
«Sì, caro, sarebbe bello» convenne mamma senza ascoltare veramente.
«Stamattina mi è arrivata una lettera di George - dice che Corfù è magnifica. Perché non facciamo le valigie e non andiamo in Grecia?».
«D'accordo, caro, se ti fa piacere» disse mamma incautamente.
Quando si trattava di Larry, di solito stava molto attenta a non compromettersi.
«Quando?» domandò Larry, alquanto stupito di questa cooperazione.
Mamma, rendendosi conto di avere commesso un errore tattico, abbassò con circospezione le Ricette facili del Rajputana.
«Be', penso che sarebbe ragionevole che tu andassi avanti e sistemassi tutto. Poi scrivi e mi dici se è un posto carino, e noi possiamo seguirti» disse abilmente.
Larry la incenerì con uno sguardo.
«Questo lo dicesti già quando proposi di andare in Spagna,» le ricordò «e io sono rimasto due mesi interminabili a Siviglia ad aspettare il vostro arrivo, mentre tu non facevi altro che scrivermi lettere chilometriche sulle fognature e sull'acqua potabile come se io fossi il segretario comunale o qualcosa del genere. No, se dobbiamo andare in Grecia ci andiamo tutti insieme».
«Ora stai esagerando, Larry,» disse mamma in tono querulo «in ogni modo, ora come ora non posso partire. Devo prima risolvere il problema di questa casa».
«Risolvere? Risolvere che cosa, per amor del cielo? Vendila».
«Questo non posso farlo, caro» disse mamma, un po' scossa.
«Perché no?».
«Ma l'ho appena comprata!».
«Appunto, vendila finché è ancora in buono stato».
«Non essere ridicolo, caro,» disse mamma con fermezza «non se ne parla nemmeno. Sarebbe una pazzia».
Perciò vendemmo la casa e scappammo dalla tetraggine dell'estate inglese come uno stormo di rondini migratrici.

Viaggiammo leggeri, perché avevamo preso soltanto le cose che ci sembravano essenziali per vivere. Quando aprimmo il bagaglio per l'ispezione doganale, il contenuto delle nostre valigie denotava in modo abbastanza sintomatico il carattere e gli interessi di ciascuno.
Infatti il bagaglio di Margo conteneva un'infinità di indumenti diafani, tre libri di diete dimagranti e uno sterminio di bottigliette piene di vari elisir garantiti per curare l'acne. La cassetta di Leslie custodiva due pullover a collo alto e un paio di calzoni in cui erano avvoltolati due rivoltelle, una pistola ad aria compressa, un libro intitolato L'armaiolo in casa e una grossa bottiglia d'olio che perdeva. Larry era accompagnato da due bauli di libri e da una ventiquattrore coi suoi vestiti. Il bagaglio di mamma era giudiziosamente spartito tra effetti personali e vari libri di cucina e di giardinaggio. Io mi portai dietro soltanto quelle cose che ritenevo necessarie per alleviare la noia di un lungo viaggio: quattro libri di storia naturale, un acchiappafarfalle, un cane e un barattolo per marmellata pieno di bruchi tutti in pericolo imminente di trasformarsi in crisalidi. Così, perfettamente equipaggiati secondo i nostri punti di vista, lasciammo le umide rive dell'Inghilterra.
La Francia malinconica e lavata dalla pioggia, la Svizzera che sembrava un dolce natalizio, l'Italia esuberante, chiassosa e puzzolente rimasero alle nostre spalle, lasciando in noi soltanto ricordi confusi. La minuscola nave si allontanò fremente dal tacco dell'Italia inoltrandosi nel mare crepuscolare, e mentre dormivamo nelle nostre cabine soffocanti, chi sa dove in quel tratto d'acqua brillantato di luna superammo l'invisibile linea divisoria ed entrammo nel vivido, caleidoscopico mondo della Grecia. A poco a poco questa sensazione di un cambiamento filtrò sino a noi e così, all'alba, ci svegliammo pieni di impazienza e salimmo sul ponte.
Il mare gonfiava i suoi azzurri e levigati muscoli ondosi mentre fremeva nella luce dell'alba, e la schiuma della nostra scia si allargava delicatamente dietro di noi come una candida coda di pavone, tutta scintillante di bollicine. Il cielo era pallido, con qualche pennellata gialla a oriente. Davanti a noi si allungava uno sgorbio di terra color cioccolata, una massa confusa nella nebbia, con una gala di spuma alla base. Era Corfù, e noi aguzzammo gli occhi per distinguere la forma delle sue montagne, per scoprirne le valli, le cime, i burroni e le spiagge, ma non ne vedevamo che i contorni.
Poi, tutt'a un tratto, il sole spuntò sull'orizzonte e il cielo prese il colore azzurro smalto dell'occhio della ghiandaia. Le infinite e meticolose curve del mare si incendiarono per un istante, poi si fecero d'un intenso color porpora screziato di verde. La nebbia si alzò in rapidi e flessibili nastri, ed ecco l'isola davanti a noi, le montagne come se dormissero sotto una gualcita coperta scura, macchiata in ogni sua piega dal verde degli ulivi. Lungo la riva le spiagge si arcuavano candide come zanne tra precipiti città di vivide rocce dorate, rosse e bianche. Doppiammo il promontorio settentrionale, un liscio contrafforte di roccia color ruggine bucato da una serie di grotte gigantesche. Le onde cupe sollevavano la nostra scia e la portavano delicatamente verso quelle fauci, dove essa si frantumava sibilando avida tra le rocce. Doppiato il promontorio, le montagne scomparvero e l'isola si trasformò in un declivio dolce, macchiato dall'argentea e verde iridescenza degli ulivi, interrotta qua e là dal dito ammonitore di un nero cipresso stagliato contro il cielo. Il mare poco profondo nelle baie era azzurro farfalla, e nonostante il rombo dei motori potevamo distinguere l'eco soffocata - che ci giungeva dalla riva come un coro di voci sottili - degli stridi acuti e trionfali delle cicale.

giovedì 22 dicembre 2011

Il Piccolo Principe

AUTORE: Antoine de Saint-Exupery
GENERE: Racconto Fantastico (in tutti i sensi)

TRAMA:
Il Piccolo Principe è un adulto-bambino che lascia il suo minuscolo asteroide per mettersi in viaggio nel cosmo. Durante il cammino, visita sei pianeti diversi, abitati da strani personaggi: un re, un vanitoso, un ubriacone, un uomo d'affari, un uomo che accende e spegne un lampione, un geografo. Sono personaggi equivoci, che mettono in risalto il lato ridicolo degli affanni umani. Queste storie hanno lo scopo d'insegnare a vivere: essere coraggiosi tra i vili, buoni tra i malvagi, liberi tra i prepotenti, sinceri tra i bugiardi, saggi in ogni circostanza dell'esistenza. Alla fine il Piccolo Principe giunge sulla Terra, e precisamente nel deserto del Sahara: a parte un serpente, non c'e anima viva, così si mette alla ricerca degli uomini. Nel tragitto, s'imbatte in una volpe, il Principe la invita a giocare, ma l'animale può accettare solo se prima sarà addomesticato. L'incontro con la volpe è il capitolo più lungo di tutto il libro e anche il più importante, perché in queste righe emerge il valore dell'amicizia. Per la volpe significa essere addomesticata, per il Piccolo Principe prendersi cura della sua rosa. Da quest'animale il Piccolo Principe, apprende importanti verità, prima d'incontrare l'io narrante, un aviatore precipitato nel deserto e scomparire poi definitivamente.
Il Piccolo Principe si rivela alla fine, l'amico che ciascuno di noi vorrebbe avere a suo fianco, e ci aiuta, attraverso un meraviglioso viaggio di sincerità e fantasia, a ritrovare il bambino che è nascosto in noi.

INCIPIT:
I
Un tempo lontano, quando avevo sei anni, in un libro sulle foreste primordiali, intitolato “Storie vissute della natura”, vidi un magnifico disegno. 
Rappresentava un serpente boa nell’atto di inghiottire un animale. 
Eccovi la copia del disegno.
C’era scritto: “I boa ingoiano la loro preda tutta intera, senza masticarla. 

Dopo di che non riescono più a muoversi e dormono durante i sei mesi che la digestione richiede”. 
Meditai a lungo sulle avventure della jungla. 
E a mia volta riuscii a tracciare il mio primo disegno. 
Il mio disegno numero uno. Era così:
Mostrai il mio capolavoro alle persone grandi, domandando se il disegno li spaventava. 
Ma mi risposero: “ Spaventare? Perché mai, uno dovrebbe essere spaventato da un cappello?” . 
Il mio disegno non era il disegno di un cappello.
Era il disegno di un boa che digeriva un elefante. 

Affinché vedessero chiaramente che cos’era, disegnai l’interno del boa. 
Bisogna sempre spiegargliele le cose, ai grandi. 
Il mio disegno numero due si presentava così:
Questa volta mi risposero di lasciare da parte i boa, sia di fuori che di dentro, e di applicarmi invece alla geografia, alla storia, all’aritmetica e alla grammatica. 
Fu così che a sei anni io rinunziai a quella che avrebbe potuto essere la mia gloriosa carriera di pittore.
Il fallimento del mio disegno numero uno e del mio disegno numero due mi aveva disarmato. 

I grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano a spiegargli tutto ogni volta. 
Allora scelsi un’altra professione e imparai a pilotare gli aeroplani. Ho volato un pò sopra tutto il mondo: e veramente la geografia mi è stata molto utile. 
A colpo d’occhio posso distinguere la Cina dall’Arizona, e se uno si perde nella notte, questa sapienza è di grande aiuto.
Ho conosciuto molte persone importanti nella mia vita, ho vissuto a lungo in mezzo ai grandi. 
Li ho conosciuti intimamente, li ho osservati proprio da vicino. 
Ma l’opinione che avevo di loro non è molto migliorata.
Quando ne incontravo uno che mi sembrava di mente aperta, tentavo l’esperimento del mio disegno numero uno, che ho sempre conservato. 

Cercavo di capire così se era veramente una persona comprensiva. 
Ma, chiunque fosse, uomo o donna, mi rispondeva: “È un cappello”.
E allora non parlavo di boa, di foreste primitive, di stelle. 

Mi abbassavo al suo livello. Gli parlavo di bridge, di golf, di politica, di cravatte. 
E lui era tutto soddisfatto di avere incontrato un uomo tanto sensibile.


II
Così ho trascorso la mia vita solo, senza nessuno cui poter parlare, fino a sei anni fa quando ebbi un incidente col mio aeroplano, nel deserto del Sahara. Qualche cosa si era rotta nel motore, e siccome non avevo con me nè un meccanico, nè dei passeggeri, mi accinsi da solo a cercare di riparare il guasto.
Era una questione di vita o di morte, perché avevo acqua da bere soltanto per una settimana. 

La prima notte, dormii sulla sabbia, a mille miglia da qualsiasi abitazione umana. Ero più isolato che un marinaio abbandonato in mezzo all’oceano, su una zattera, dopo un naufragio. 
Potete immaginare il mio stupore di essere svegliato all’alba da una strana vocetta: “Mi disegni, per favore, una pecora?” 
“Cosa?” 
“Disegnami una pecora”. 
Balzai in piedi come fossi stato colpito da un fulmine. Mi strofinai gli occhi più volte guardandomi attentamente intorno. 
E vidi una straordinaria personcina che mi stava esaminando con grande serietà.
Qui potete vedere il miglior ritratto che riuscii a fare di lui, più tardi. 
Ma il mio disegno è molto meno affascinante del modello. 
La colpa non è mia, però. Con lo scoraggiamento che hanno dato i grandi, quando avevo sei anni, alla mia carriera di pittore, non ho mai imparato a disegnare altro che serpenti boa dal di fuori o serpenti boa dal di dentro. 
Ora guardavo fisso l’improvvisa apparizione con gli occhi fuori dall’orbita per lo stupore. 
Dovete pensare che mi trovavo a mille miglia da una qualsiasi regione abitata, eppure il mio ometto non sembrava smarrito in mezzo alle sabbie, nè tramortito per la fatica, o per la fame, o per la sete, o per la paura.
Niente di lui mi dava l’impressione di un bambino sperduto nel deserto, a mille miglia da qualsiasi abitazione umana.

Quando finalmente potei parlare gli domandai: “Ma che cosa fai qui?” 
Con tutta risposta, egli ripetè lentamente come si trattasse di cosa di molta importanza: “Per piacere, disegnami una pecora...”
Quando un mistero è così sovraccarico, non si osa disubbidire. 

Per assurdo che mi sembrasse, a mille miglia da ogni abitazione umana, e in pericolo di morte, tirai fuori dalla tasca un foglietto di carta e la penna stilografica. 
Ma poi ricordai che i miei studi si erano concentrati sulla geografia, sulla storia, sull’aritmetica e sulla grammatica e gli dissi, un pò di malumore, che non sapevo disegnare. Mi rispose: “Non importa. Disegnami una pecora...” 
Non avevo mai disegnato una pecora e allora feci per lui uno di quei disegni che avevo fatto tante volte: quello del boa dal di dentro; e fui sorpreso di sentirmi rispondere: 
“No, no, no! Non voglio l’elefante dentro il boa. Il boa è molto pericoloso e l’elefante molto ingombrante. Dove vivo io tutto è molto piccolo. Ho bisogno di una pecora: disegnami una pecora”. 
Feci il disegno.
Lo guardò attentamente, e poi disse: “No! Questa pecora è malaticcia. Fammene un’altra”. 
Feci un altro disegno.
Il mio amico mi sorrise gentilmente, con indulgenza. 
“Lo puoi vedere da te”, disse, “che questa non è una pecora. È un ariete. Ha le corna”. 
Rifeci il disegno una terza volta, ma fu rifiutato come i precedenti.
“Questa è troppo vecchia. Voglio una pecora che possa vivere a lungo”. 
Questa volta la mia pazienza era esaurita, avevo fretta di rimettere a posto il mio motore. 
Buttai giù un quarto disegno. 
E tirai fuori questa spiegazione: “Questa è soltanto la sua cassetta. La pecora che volevi sta dentro”.
Fui molto sorpreso di vedere il viso del mio piccolo giudice illuminarsi. “Questo è proprio quello che volevo. Pensi che questa pecora dovrà avere una gran quantità d’erba?” 
“Perchè?”
“Perché dove vivo io, tutto è molto piccolo...” 

“Ci sarà certamente abbastanza erba per lei, è molto piccola la pecora che ti ho data”. 
Si chinò sul disegno: “Non così piccola che – oh, guarda! – si è messa a dormire...” 
E fu così che feci la conoscenza del piccolo principe.


III
Ci misi molto tempo a capire da dove venisse. 
Il piccolo principe, che mi faceva una domanda dopo l'altra, pareva che non sentisse mai le mie.
Così, quando vide per la prima volta il mio aeroplano (non lo disegnerò perché sarebbe troppo complicato per me), mi domandò: "Che cos'è questa cosa?"
"Non è una cosa - vola. È un aeroplano. È il mio aeroplano". Ero molto fiero di fargli sapere che volavo.
Allora gridò: "Come? Sei caduto dal cielo!"
"Si", risposi modestamente.
"Ah! Questa è buffa..." E il piccolo principe scoppio in una bella risata che mi irritò. Voglio che le mie disgrazie siano prese sul serio.
Poi riprese: "Allora anche tu vieni dal cielo! Di quale pianeta sei?" 

Intravvidi una luce, nel mistero della sua presenza, e lo interrogai bruscamente: "Tu vieni dunque da un altro pianeta?"
Ma non mi rispose. Scrollò gentilmente il capo osservando l'aeroplano. "Certo che su quello non puoi venire da molto lontano..." E si immerse in una lunga meditazione.
Poi, tirando fuori dalla tasca la mia pecora, sprofondò nella contemplazione del suo tesoro. Vi potete bene immaginare come io fossi incuriosito da quella mezza confidenza su "gli altri pianeti".
Cercai dunque di tirargli fuori qualche altra cosa: "Da dove vieni, ometto? Dov'è la tua casa? Dove vuoi portare la mia pecora?"
Mi rispose dopo un silenzio meditativo: "Quello che c'è di buono, è che la cassetta che mi hai dato, le servirà da casa per la notte".
"Certo. E se sei buono ti darò pure una corda per legare la pecora durante il giorno. E un paletto".
La mia proposta scandalizzò il piccolo principe. "Legarla? Che buffa idea!"
"Ma se non la leghi andrà in giro e si perderà..."
Il mio amico scoppiò in una nuova risata: "Ma dove vuoi che vada!"
"Dappertutto. Dritto davanti a sè..."
E il piccolo principe mi rispose gravemente: "Non importa, è talmente piccolo da me!" 

E con un pò di malinconia, forse, aggiunse: "Dritto davanti a sè non si può andare molto lontano..."'

Canto Di Natale

AUTORE: Charles Dickens
GENERE: Favola

TRAMA:
Una grande storia sulla possibilità di cambiare il proprio destino. Una riflessione sull'equilibrio difficile fra il presente, il passato e il futuro. Una denuncia dello sfruttamento minorile e dell'analfabetismo. Ma soprattutto una favola, una delle più commoventi che siano mai state scritte. Protagonista è il vecchio e tirchio finanziere Ebenezer Scrooge - personaggio che servirà da modello per il Paperon de' Paperoni disneyano - che nella notte di Natale viene visitato da tre spettri. Lo indurranno a un cambiamento radicale, a una conversione che ne farà uno dei più grandi personaggi letterari di tutti i tempi. Ma forse parte del segreto, della magia ineludibile di questo romanzo è nella ricomposizione dei ricordi, nella restituzione di senso alla storia, nella ridefinizione del posto dell'uomo nel tempo.
(fonte: sito web de "LaFeltrinelli")

INCIPIT:
Strofa Prima

Lo spettro di Marley

Marley, prima di tutto, era morto. Niente dubbio su questo. Il registro mortuario portava le firme del prete, del chierico, dell'appaltatore delle pompe funebri e della persona che aveva guidato il mortoro. Scrooge vi aveva apposto la sua: e il nome di Scrooge, su qualunque fogliaccio fosse scritto, valeva tant'oro. Il vecchio Marley era proprio morto per quanto è morto, come diciamo noi, un chiodo di porta.
Badiamo! non voglio mica dare ad intendere che io sappia molto bene che cosa ci sia di morto in un chiodo di porta. Per conto mio, sarei stato disposto a pensare che il pezzo più morto di tutta la ferrareccia fosse un chiodo di cataletto. Ma poiché la saggezza dei nostri nonni sfolgora nelle similitudini, non io vi toccherò con sacrilega mano; se no, il paese è bell'e ito. Lasciatemi dunque ripetere, solennemente, che Marley era morto com'è morto un chiodo di porta.
Sapeva Scrooge di questa morte? Beninteso. Come avrebbe fatto a non saperlo? Scrooge e il morto erano stati soci per non so quanti anni. Scrooge era il suo unico esecutore testamentario, unico amministratore, unico procuratore, unico legatario universale, unico amico, unico guidatore del mortoro. Anzi il nostro Scrooge, che per verità il triste evento non aveva fatto terribilmente spasimare, si mostrò sottile uomo d'affari il giorno stesso dei funerali e lo solennizzò con un negozio co' fiocchi.
Il ricordo dei funerali mi fa tornare al punto di partenza. Non c'è dunque dubbio che Marley era morto. Questo mettiamolo bene in sodo, se no niente di maraviglioso potrà scaturire dalla storia che son per narrarvi. Se non fossimo perfettamente convinti che il padre d'Amleto è morto prima che s'alzi il sipario, la sua passeggiatina notturna su pei bastioni al vento di levante non ci farebbe maggiore effetto della bisbetica passeggiata di un qualunque attempato galantuomo il quale se n'andasse di notte in un posto ventoso - il cimitero di San Paolo, poniamo - pel solo gusto di sbalordire la melansaggine del proprio figliuolo.
Scrooge non cancellò dall'insegna il nome del vecchio Marley. Parecchi anni dopo, leggevasi sempre sulla porta del magazzino: "Scrooge e Marley". La ditta era nota per Scrooge e Marley. Seguiva a volte che qualche novizio agli affari desse a Scrooge ora il nome di Scrooge e ora quello di Marley; ma egli rispondeva a tutti e due. Per lui era tutt'una cosa.
Oh! ma che stretta sapevano avere le benedette mani di cotesto Scrooge! come adunghiavano, spremevano, torcevano, scuoiavano, artigliavano le mani del vecchio lesina peccatore! Aspro e tagliente come una pietra focaia, dalla quale nessun acciaio al mondo aveva mai fatto schizzare una generosa scintilla; chiuso, sigillato, solitario come un'ostrica. Il freddo che aveva di dentro gli gelava il viso decrepito, gli cincischiava il naso puntuto, gli accrespava le guance, gli stecchiva il portamento, gli facea rossi gli occhi e turchinucce le labbra sottili, si mostrava fuori in una voce acre che pareva di raspa. Sul capo, nelle sopracciglie, sul mento asciutto gli biancheggiava la brina. La sua bassa temperatura se la portava sempre addosso; gelava il suo studio né giorni canicolari; non lo scaldava di un grado a Natale.
Caldo e freddo non facevano effetto sulla persona di Scrooge. L'estate non gli dava calore, il rigido inverno non lo assiderava. Non c'era vento più aspro di lui, non c'era neve che cadesse più fitta, non c'era pioggia più inesorabile. Il cattivo tempo non sapeva da che parte pigliarlo. L'acquazzone, la neve, la grandine, il nevischio, per un sol verso si potevano vantare di essere da più di lui: più di una volta si spargevano con larghezza: Scrooge no, mai.
Nessuno lo fermava mai per via per dirgli con cera allegra: "Come si va, caro il mio Scrooge? a quando una vostra visita?" Né un poverello gli chiedeva la più piccola carità, né un bambino gli domandava che ore fossero, né uomo o donna, una volta sola in tutta la vita loro, si erano rivolti a lui per informarsi della tale o tal'altra strada. Perfino i cani dei ciechi davano a vedere di conoscerlo; scorgendolo di lontano subito si tiravano dietro il padrone in una corte o in un chiassuolo. Poi scodinzolavano un poco, come per dire: "Povero padrone mio, val meglio non aver occhi che avere un mal occhio!"
Ma che gliene premeva a Scrooge! Meglio anzi, ci provava gusto. Sgusciare lungo i sentieri affollati della vita, ammonendo la buona gente di tirarsi in là, era per Scrooge come per un goloso sgranocchiar pasticcini.
Una volta - il più bel giorno dell'anno, la vigilia di Natale - il vecchio Scrooge se ne stava a sedere tutto affaccendato nel suo banco. Il tempo era freddo, uggioso, tutto nebbia; e si sentiva la gente di fuori andar su e giù, traendo il fiato grosso, fregandosi forte le mani, battendo i piedi per terra per scaldarseli. Gli orologi del vicinato avevano battuto le tre, ma era già quasi notte, se pure il giorno c'era stato. Dalle finestre dei negozi vicini rosseggiavano i lumi come tante macchie sull'aria grigia e spessa. Entrava la nebbia per ogni fessura, per ogni buco di serratura; e così densa era di fuori che, ad onta dell'angustia del vicoletto, le case dirimpetto parevano fantasmi. Davvero, quella nuvola scura che scendeva e scendeva sopra ogni cosa faceva pensare che la Natura, stabilitasi lì accanto, avesse dato l'aire a una sua grande manifattura di birra.
L'uscio del banco era aperto, per dare agio a Scrooge di tenere d'occhio il suo commesso, il quale, inserito in una celletta più in là, una specie di cisterna, attendeva a copiar lettere. Scrooge non aveva per sé che un fuocherello; ma tanto più misero era il fuocherello del commesso, che pareva fatto di un sol pezzo di carbone. Né c'era verso di accrescerlo, perché la cesta del carbone se la teneva Scrooge con sé; e quando per caso il commesso entrava con in mano la paletta, issofatto il principale gli faceva capire che sarebbe stato costretto a dargli il benservito. Epperò lo scrivano si avvolgeva al collo il suo fazzoletto bianco e ingegnavasi di scaldarsi alla fiamma della candela: il che, per non essere egli un uomo di gagliarda immaginazione, non gli riusciva né punto né poco.
- Buon Natale, zio! un allegro Natale! Dio vi benedica! - gridò una voce gioconda. Era la voce del nipote di Scrooge, piombato nel banco così d'improvviso che lo zio non lo aveva sentito venire.
- Eh via! - rispose Scrooge - sciocchezze! -
S'era così ben scaldato, a furia di correre nella nebbia e nel gelo, cotesto nipote di Scrooge, che pareva come affocato: aveva la faccia rubiconda e simpatica; gli lucevano gli occhi e fumava ancora il fiato.
- Come, zio, Natale una sciocchezza! - esclamò il nipote di Scrooge. - Voi non lo pensate di certo.
- Altro se lo penso! - ribatté Scrooge. - Un Natale allegro! o che motivo hai tu di stare allegro? che diritto? Sei povero abbastanza, mi pare.
- Via, via - riprese il nipote ridendo. - Che diritto avete voi di essere triste? che ragione avete di essere uggioso? Siete ricco abbastanza, mi pare. -
Scrooge, che non avea pel momento una risposta migliore, tornò al suo "Eh via! sciocchezze."
- Non siate così di malumore, zio - disse il nipote.
- Sfido io a non esserlo - ribatté lo zio - quando s'ha da vivere in un mondaccio di matti com'è questo. Un Natale allegro! Al diavolo il Natale con tutta l'allegria! O che altro è il Natale se non un giorno di scadenze quando non s'hanno danari; un giorno in cui ci si trova più vecchi di un anno e nemmeno di un'ora più ricchi; un giorno di chiusura di bilancio che ci dà, dopo dodici mesi, la bella soddisfazione di non trovare una sola partita all'attivo? Se potessi fare a modo mio, ogni idiota che se ne va attorno con cotesto "allegro Natale" in bocca, avrebbe a esser bollito nella propria pentola e sotterrato con uno stecco di agrifoglio nel cuore. Sì, proprio!
- Zio! - pregò il nipote.
- Nipote! - rimbeccò accigliato lo zio, - tieniti il tuo Natale tu, e lasciami il mio.
- Il vostro Natale! ma che Natale è il vostro, se voi non ne fate?
- Vuol dire che così mi piace, e tu non mi rompere il capo. Buon pro ti faccia il tuo Natale! E davvero che te n'ha fatto del bene fino adesso!
- Di molte cose buone sono stato io a non voler profittare, quest'è certo - rispose il nipote; - e il Natale fra l'altre. - Ma il fatto è che io ho tenuto sempre il giorno di Natale, quando è tornato - lasciando stare il rispetto dovuto al suo sacro nome, se si può lasciarlo stare - come un bel giorno, un giorno in cui ci si vuol bene, si fa la carità, si perdona e ci si spassa: il solo giorno del calendario, in cui uomini e donne per mutuo accordo pare che aprano il cuore e pensino alla povera gente come a compagni di viaggio verso la tomba e non già come ad un'altra razza di creature avviata per altri sentieri. Epperò, zio, benché non mi abbia mai cacciato in tasca la croce di un soldo, io credo che il Natale m'abbia fatto del bene e me ne farà. Evviva dunque il Natale! -
Il commesso non si seppe tenere dall'applaudire dal fondo della sua cisterna; ma, subito accortosi del marrone, si diè ad attizzare il fuoco e riuscì ad estinguere l'ultima scintilla.
- Un altro di cotesti rumori dalla vostra parte - disse Scrooge - e ve lo darò io il Natale con un bravo benservito. Sei davvero un parlatore coi fiocchi - sopraggiunse volgendosi al nipote. - Mi sorprende che non ti ficchino in Parlamento.
- Non andate in collera, zio. Orsù, vi aspettiamo domani sera a pranzo. -
Scrooge rispose che piuttosto lo volea vedere all'inf... Sì davvero, la disse tutta la parola. Allora, forse, avrebbe accettato l'invito.
- Ma perché? - esclamò il nipote. - Perché?
- Perché diamine ti sei accasato? - domandò Scrooge.
- Perché ero innamorato.
- Perché eri innamorato! - grugnì Scrooge, come se cotesta fosse l'unica cosa al mondo più ridicola di un allegro Natale. - Buona sera!
- Ma voi, zio, non siete mai venuto a trovarmi prima. Perché mo' vi appigliate a cotesto pretesto?
- Buona sera, - disse Scrooge.
- Niente voglio da voi; niente vi chiedo: perché non dobbiamo essere amici?
- Buona sera, - disse Scrooge.
- Mi fa pena, proprio, di trovarvi così ostinato. Tra noi non ci sono mai stati dissapori, ch'io ci abbia avuto colpa. Ho voluto fare questa prova in onore di Natale, e il mio buonumore di Natale lo serberò fino in fondo. Buon Natale dunque zio mio!
- Buona sera, - disse Scrooge.
- E buon principio d'anno per giunta!
- Buona sera, - disse Scrooge.