giovedì 26 aprile 2012

La casa degli spiriti

AUTORE: Isabel Allende
GENERE: Romanzo

TRAMA:
L'amore, la magia, il mistero, i sogni si intrecciano alle violenze e agli orrori della guerra cilena che portò alla ascesa di Pinochet in questo splendido romanzo di Isabel Allende. Alle "Tre Marie", splendida tenuta di proprietà di Esteban Trueba, si intrecciano le passioni dei diversi protagonisti: Clara, la moglie del proprietario, trascorre una vita avvolta nei ricordi; Fèrula, sorella di Esteban, dedica la sua vita agli altri; Blanca è innamorata di un servo del padre, Pedro, che avrà parte nella guerriglia della rivoluzione; Alba, la nipote, dovrà invece affrontare la dittatura mentre Esteban scoprirà, proprio a causa dei tragici eventi politici del suo paese, di amare innanzitutto la sua famiglia.

INCIPIT:
Barrabàs arrivò in famiglia per via mare, annotò la piccola Clara con la sua delicata calligrafia. Già allora aveva l’abitudine di scrivere le cose importanti e più tardi, quando rimase muta, scriveva anche le banalità, senza sospettare che, cinquant’anni dopo, i suoi quaderni mi sarebbero serviti per riscattare la memoria del passato,e per sopravvivere al mio stesso terrore. Il giorno in cui arrivò Barrabàs era Giovedì Santo. Stava in una gabbia lercia, coperto dei suoi stessi escrementi e della sua stessa orina, con uno sguardo smarrito di prigioniero miserabile e indifeso, ma già si intuiva dal portamento regale della sua testa e dalla dimensione del suo scheletro il gigante leggendario che sarebbe diventato. Era quello un giorno noioso e autunnale, che in nulla faceva presagire gli eventi che la bimba scrisse perché fossero ricordati e che accaddero durante la messa delle dodici, nella parrocchia di San Sebastiàn, alla quale assistette con tutta la famiglia. In segno di lutto, i santi erano coperti di drappi viola, che le beghine toglievano ogni anno dalla polvere dell’armadio della sacrestia, e, sotto i lenzuoli funebri, la corte celeste sembrava un cumulo di mobili in attesa del trasloco, senza che le candele, l’incenso o i gemiti dell’organo potessero opporsi a questo pietoso effetto. Minacciose masse scure si ergevano al posto dei santi a grandezza naturale, con le loro facce tutte identiche dall’espressione raffreddata, le loro elaborate parrucche di capelli di morto, i loro rubini, le loro perle, i loro smeraldi di vetro colorato e i loro abiti da nobili fiorentini. L’unico favorito dal lutto era il patrono della chiesa, San Sebastiano, perché nella settimana santa veniva risparmiato ai fedeli lo spettacolo del suo corpo contorto in una posizione indecente, trafitto da mezza dozzina di frecce, grondante sangue e lacrime, come un omosessuale sofferente, le cui piaghe, miracolosamente fresche grazie al pennello di padre Restrepo, facevano tremare di ribrezzo Clara. Era quella una lunga settimana di penitenza e di digiuno, non si giocava a carte, non si suonava musica che incitasse alla lussuria o all’oblio, e si osservava, nei limiti del possibile, la maggior tristezza e castità, nonostante proprio in quei giorni il pungolo del demonio tentasse con più insistenza la debole carne cattolica. Il digiuno consisteva in morbide torte di pasta sfoglia, in saporiti fritti di verdura, in soffici frittate e in grandi formaggi portati dalla campagna, con i quali le famiglie ricordavano la Passione del Signore, guardandosi bene dall’assaggiare neppure il più piccolo boccone di carne o di pesce, sotto pena di scomunica, come ripeteva padre Restrepo. Nessuno avrebbe osato disubbidirgli. Il sacerdote era provvisto di un lungo dito accusatore per indicare in pubblico i peccatori, e una lingua allenata a turbare i sentimenti. - Tu, ladro che hai rubato il denaro del culto! - gridava dal pulpito segnalando un gentiluomo che fingeva di affannarsi a causa di un pelo sul suo bavero per non guardarlo in faccia. - Tu, svergognata che ti prostituisci sui moli! - e accusava donna Ester Trueba, invalida per via dell’artrite e devota alla Vergine del Carmine, che apriva gli occhi esterrefatta, senza sapere il significato di quella parola, né dove si trovavano i moli - Pentitevi, peccatori, immonda carogna, indegni del sacrificio di Nostro Signore! Digiunate! Fate penitenza! Travolto dall’entusiasmo dello zelo della sua vocazione, il sacerdote doveva contenersi per non entrare in aperta disobbedienza con le istruzioni dei suoi superiori ecclesiast ici, scossi da ventate di modernismo, che si opponevano al cilicio e alla flagellazione. Lui era dell’idea di vincere le debolezze dell’anima con una buona frustata della carne. Era famoso per la sua oratoria sfrenata. I suoi fedeli lo seguivano di parrocchia in parrocchia, sudavano sentendolo descrivere i tormenti dei peccatori nell’inferno, le carni lacerate da ingegnose macchine di tortura, i fuochi eterni, gli uncini che trafiggevano i membri virili, i rettili ripugnanti che si introducevano negli orifizi femminili e altri molteplici supplizi che infilava in ogni sermone per seminare il terrore di Dio. Lo stesso Satana era descritto fin nelle sue intime anomalie con l’accento galiziano del sacerdote, la cui missione in questo mondo era di scuotere le coscienze degli indolenti creoli. Severo del Valle era ateo e massone, ma aveva ambizioni politiche e non poteva permettersi il lusso di mancare alla messa che ogni domenica o festa comandata attraeva più gente, affinché tutti potessero vederlo. Sua moglie Nivea preferiva intendersi con Dio senza intermediari, aveva una profonda sfiducia nelle sottane e si annoiava alle descrizioni del cielo, del purgatorio e dell’inferno, ma seguiva suo marito nelle sue ambizioni parlamentari, con la speranza che se avesse occupato un posto al Congresso, lei avrebbe potuto ottenere il voto femminile, per il quale lottava da ormai dieci anni, senza che le sue numerose gravidanze riuscissero a scoraggiarla. Quel Giovedì Santo padre Restrepo aveva spinto gli ascoltatori al limite della resistenza con le sue visioni apocalittiche e Nivea cominciò a sentire giramenti di testa. Si chiese se non fosse di nuovo incinta. Nonostante i lavacri con aceto e le spugnature con ghiaccio, aveva dato alla luce quindici figli, dei quali ne restavano vivi solo undici, e aveva motivo di supporre che già stesse entrando nella maturità, dato che sua figlia Clara, la minore, aveva dieci anni. Sembrava che fosse infine venuto meno l’impegno della sua stupefacente fertilità. Cercò di attribuire il suo malessere al momento del sermone di padre Restrepo quando l’aveva additata parlando dei farisei che pretendevano di legalizzare i bastardi e il matrimonio civile, minando la famiglia, la patria, la proprietà e la Chiesa, dando alle donne la stessa posizione degli uomini, in aperta sfida alla legge di Dio, che in merito era molto precisa. Nivea e Severo occupavano, con i loro figli, tutta la terza fila dei banchi. Clara era seduta accanto alla madre e questa le stringeva la mano con impazienza quando il discorso del sacerdote si dilungava troppo sui peccati della carne, perché sapeva che ciò induceva la piccola a visualizzare aberrazioni che andavano oltre la realtà, com’era evidente dalle domande che faceva e alle quali nessuno sapeva rispondere. Clara era molto precoce e aveva la dilagante immaginazione che ereditarono tutte le donne della sua famiglia dal lato materno. La temperatura della chiesa era aumentata e l’odore penetrante dei ceri, dell’incenso e della folla stipata contribuivano a estenuare Nivea. Desiderava che la cerimonia terminasse una volta per tutte, per tornare nella sua casa fresca, per sedersi nel cortile delle felci e assaporare la caraffa di orzata che la Nana preparava nei giorni di festa.

Nessun commento:

Posta un commento