GENERE: Romanzo
TRAMA:
Ci sono bar e bar e poi c’è il Bar Sport che tutti li accomuna e li fonde in un solo paradigmatico universo, in una sola grande scena di umanità raccolta sotto la fraterna insegna come intorno a un fuoco, intorno al calore di un’identità minacciata. Stefano Benni, con il suo Bar Sport, ha aperto la porta su un mondo che per tutti è diventato un luogo, anzi il luogo familiare per eccellenza. Il Bar Sport è quello dove non può mancare un flipper, un telefono a gettoni e soprattutto la "Luisona", la brioche paleolitica condannata a un’esposizione perenne in perenne attesa del suo consumatore. Il Bar Sport è quello in cui passa il carabiniere, lo sparaballe, il professore, il tecnnico (proprio così, con due n) che declina la formazione della nazionale, il ragioniere innamorato della cassiera, il ragazzo tuttofare. Nel Bar Sport fioriscono le leggende, quella del Piva (calciatore dal tiro portentoso), del Cenerutolo (il lavapiatti che sogna di fare il cameriere) e delle allucinazioni estive. Vagando e divagando Benni ha scritto la sua piccola commedia umana, a cui presto aggiungerà un nuovo capitolo. Ebbene sì, Bar Sport è vivo, è ancora vivo.
INCIPIT:
INTRODUZIONE STORICA
L'uomo primitivo non conosceva il bar. Quando la mattina si alzava, nella sua caverna, egli avvertiva subito un forte desiderio di caffè. Ma il caffè non era ancora stato inventato e l'uomo primitivo aggrottava la fronte, assumendo la caratteristica espressione scimmiesca. Non c'erano neanche bar. Gli scapoli, la sera, si trovavano in qualche grotta, si mettevano in semicerchio e si scambiavano botte di clava in testa secondo un preciso rituale. Era un divertimento molto rozzo, e presto passò di moda. Allora gli uomini primitivi cominciarono a riunirsi in caverne e a farsi sui muri delle caricature, che tra di loro chiamavano scherzosamente graffiti paleolitici. Ma questo primo tentativo di bar fu un fallimento. Non esistevano la moviola, il vistoso sgambetto, il secco rasoterra, il dribbling ubriacante e l'arbitraggio scandaloso, e la conversazione languiva in rutti e grugniti. Gli antichi romani, invece, inventarono subito la taverna osservando il volo degli uccelli, e la suburra era un vero pullulare di bar. Gli osti facevano affari d'oro, tanto che divennero presto la classe dominante. Cesare cominciò la sua carriera come cameriere, e conservò per tutta la vita la pessima abitudine di farsi dare mance dai barbari sconfitti. Nei bar romani si beveva molta menta, vini dei colli e assenzio. Le leggi erano molto severe: a chi veniva pescato ubriaco veniva mozzata la lingua. Questo provvedimento fu revocato allorché in Senato le sedute cominciarono a svolgersi in perfetto silenzio. I camerieri erano per la maggior parte schiavi cartaginesi. Ma c'erano anche molti filosofi greci, che servivano in tavola per mantenersi agli studi. Aristotele fece il cameriere per due anni al «Porcus rotitus», ed ebbe l'intuizione della sua Logica osservando un cliente che cercava di infilzare con la forchettina una grossa cipolla. Platone fece lo sguattero al «Pomplius», uno dei ristoranti più à la page di Roma dove il carrello del bollito era una biga a due cavalli. Anche in Grecia i bar ebbero grande diffusione. I filosofi Peripatetici insegnavano nei tavolini all'aperto e finivano le lezioni completamente ubriachi. Pitagora inventò la sua famosa tavola perché era stanco di essere imbrogliato sui conti della birra, e Zenone divenne Stoico perché non aveva mai la pazienza di far raffreddare la sua cioccolata in coppa.
Il medioevo fu uno dei periodi d'oro dei bar. Fu inventato il posto di ristoro, o stazione per cavalli, in cui i cavalli potevano riposare e i cavalieri rifocillarsi. In realtà la cosa andava così: il cavaliere chiedeva al cavallo «Sei stanco, sì», si fermava e beveva. Questo avveniva anche trenta, quaranta volte in un chilometro. Nelle taverne ci si fermava a duellare e a schiaffeggiarsi con i guanti. D'Artagnan sfidava e uccideva tutti quelli che sorprendeva a giocare a flipper, perché il rumore lo mandava in bestia. In queste taverne, che avevano nomi come «Il Gallo d'oro», «L'oca irsuta», «Il Buco del diavolo», si beveva in coppe pesantissime alte fino a mezzo metro, intarsiate di rubini e zaffiri, con olive gigantesche come cocomeri. Una variante celebre di queste taverne erano quelle dei pirati, dove si beveva quasi esclusivamente rhum. In verità i pirati andavano pazzi per il frappé: ma rozzi e adusi alla vita di mare, finivano sempre per piantarsi i cucchiaini negli occhi. Per questo il novanta per cento portava la famosa benda nera. Molti finirono così distrutti dall'«acqua di fuoco», finché il famoso Morgan l'orbo non scoprì che il frappé si poteva bere anche con la cannuccia. Per questa intuizione la regina d'Inghilterra lo nominò baronetto e gli regalò un timone in similpelle leopardo. Alcune di queste taverne erano leggendarie, come il «Cannone delle Antille», il cui proprietario era il famoso O'Shamrok. O'Shamrok aveva un pappagallo straordinario, Bozambo, che egli aveva addestrato a tenerlo sulla spalla. Cioè era il pappagallo che teneva sulla spalla O'Shamrok, il quale si teneva aggrappato con i piedi. Il pappagallo serviva i clienti in tre lingue e O'Shamrok fumava la pipa e si limitava a dire delle cretinate come «Shamrok vuole il brustolino» oppure «Shamrok dice buonasera. Eeeerk», e così via. In quella taverna si poteva entrare solo con una gamba di legno, o con un occhio di vetro, o con un uncino al posto della mano, tanto che c'era sempre un fabbro pronto a separare gli avventori che si salutavano. Il cliente più gradito era l'Olonese, che era in realtà un comodino con un braccio e un cappello in testa. L'Olonese beveva ogni sera quattro pinte di rhum, che gli venivano versate nei cassetti. Quando era in vena di scherzi, spalancava lo sportello in fondo e mostrava l'orinale, provocando l'ilarità degli astanti. Morì a Maracaibo: i suoi si ammutinarono e di notte gli riempirono il letto di chiodi. Un altro cliente abituale era il Corsaro Nero. Aveva una gamba di legno saldata male, e quando cambiava il tempo la giuntura gli dava delle fitte atroci. Quando ciò avveniva, il Nero perdeva la testa, cominciava a urlare e con la scimitarra si tagliava la gamba. Per questo uno dei suoi uomini lo seguiva sempre con una sacca da golf piena di gambe di ricambio. Il Corsaro Nero era molto vanitoso e ne aveva più di trecento, tutte di legno pregiato, da combattimento, da passeggio e da sera. Ne aveva anche una da affondamento, terminante in una pinna di tek. Una sera che era molto ubriaco e aveva molto male, il Corsaro Nero prese la scimitarra e si tagliò la gamba buona. Sulle prime non volle ammettere l'errore e continuò a giocare stoicamente a chemin de fer. Verso mezzanotte, però, cominciò a dondolare sulla sedia e disse di non sentirsi bene. Per fortuna c'era lì un chirurgo, Almond l'assassino, che cosparse di whisky la ferita e disse: «Nero, tieni duro, adesso ti farò un po' di male». Il Corsaro disse: «Non ho paura del male. Ma cosa dirà mia madre?». Almond gli montò due gambe, ma una era più lunga, così il Corsaro stava in piedi un momento, poi precipitava a destra. Allora ne montò due uguali, ma una era scura e l'altra chiara e il Corsaro quando si vide allo specchio si mise a piangere. Finalmente riuscì a montarne due che andavano bene, ma proprio in quel momento entrarono gli sgherri dell'esercito inglese, capitanati da Nelson.Tutti i pirati riuscirono a fuggire scivolando con l'uncino lungo i fili del bucato. Solo il Corsaro restò fermo in mezzo alla sala con le gambe di legno, senza riuscire a muoversi. Nelson lo vide e disse: «Nero, cos'è, un altro dei tuoi sporchi trucchi?». Il Corsaro Nero replicò sardonico: «Bau», e cercò di scappare a quattro gambe. Fu preso e buttato nelle carceri, per essere impiccato l'indomani. La Filibusta, quella sera, si riunì sulla nave dell'Olonese per studiare una maniera per liberare il Corsaro Nero. Ma dalla costa facevano i fuochi artificiali, e tutti si precipitarono in coperta a vederli, così nessuno si ricordò più dello sventurato. La mattina il Corsaro Nero si presentò sul palco dei condannati con un sorriso beffardo. Continuò a sorridere anche mentre gli mettevano il cappio attorno al collo. Infatti s'era fatto fare, durante la notte, due gambe di legno alte sei metri, e quando la botola si aprì lui restò in piedi sui trampoli. Il boia dovette scendere sotto il palco con una sega. Ma intanto dalla nave dell'Olonese partì una bordata di cannonate che centrò in pieno il palco, e il Nero fuggì con la forca in spalla, arrivò fino al mare, rubò un gommone e tornò tra i suoi, che però si ammutinarono e lo fecero imbalsamare. Ma stiamo uscendo dall'argomento. Passiamo quindi alla Rivoluzione francese: in questo periodo il bar ebbe veri momenti di fulgore. I nobili vi passavano quasi tutta la giornata. Cristoforo Colombo era stato da poco in America, e appena sbarcato aveva visto gli indigeni che portavano al collo degli strani oggetti di ferro, a forma di cilindro con un piccolo becco. Gli indios, nel loro dialetto, li chiamavano «napoletana», o «moka», che voleva dire «macchina-di-ferro-dal-nero-succo-che ti sveglia». Essi tenevano in questi cilindri un liquore denso e scuro, di cui bevevano quantità incredibili. Cristoforo Colombo volle assaggiarlo e subito disse: «Manca lo zucchero», poi propose una permuta, e si fece dare tre di queste macchine per trecento sveglie. Gli indigeni, soddisfatti, lo chiamarono «Bazuk» (uomo-bianco-che-fa-gli-affari-da-bestia), e fecero un balletto in suo onore. Colombo tornò in Spagna, e appena giunto alla corte della regina Isabella, si chinò ai suoi piedi con la cuccuma in mano e le fece una grossa macchia sul vestito intarsiato di diamanti. La regina adirata disse: «Que fais?» (cosa fai?) anzi non disse proprio così, comunque da quel giorno la bevanda si chiamò Quefé e poi Caffè, anche se il popolo irriverente insisteva nel chiamarlo Cazzofè. Alla corte spagnola il caffè divenne subito di gran moda: ma potevano berlo solo gli uomini, poiché per le donne era considerato scandaloso farsi vedere con una tazzina in mano. In realtà, le dame della corrotta corte di Isabella tutte le notti, di nascosto scivolavano fuori del palazzo reale travestite da palafrenieri, e andavano a bere il caffè nella suburra. Un giorno il cuoco di palazzo, Olivares, sorprese la regina che di nascosto frugava nel bidone del rusco per raccattare una manciata di fondi. Per far tacere lo scandalo il re dovette nominarlo marchese e impiccarlo. Dalla Spagna il caffè volò in Francia, dove divenne la bevanda preferita della nobiltà. Qui l'abate Sieyes, nota figura di taccagno,inventò il cappuccino, che originariamente al posto del latte aveva l'acqua. I nobili francesi, come detto, davano triste spettacolo di sé passando tutto il tempo al bar e divertendosi a sputare i semi delle olive in testa al Terzo Stato. Il popolo fremeva, e Parigi era ormai una polveriera. La scintilla fu data da un episodio avvenuto al bar "Le Canard muscleton»; il marchese di Poissac, noto libertino, buttò una palla di gelato nella scollatura di una cameriera, e il marito di questa lo inseguì tra i tavolini e lo uccise. Subito il popolo, armato di forconi, scese in strada e si mise a fare scempio di artstocratici. Il re, dato che la CIA non era ancora stata costituita, fu costretto a fuggire. Ma mentre stava già con una gamba sul davanzale della finestra, gli giunse la notizia che i rivoluzionari si erano riuniti nella sala della pallacorda. Allora si precipitò trafelato, e infatti li trovò che giocavano, e stavano litigando perché Robespierre aveva sbagliato una schiacciata. «Voglio giocare anch'io» disse il re, e tutti gli piombarono addosso e lo portarono alla ghigliottina. Intanto, in Italia, Girolamo Savonarola bollava la corruzione della nobiltà e lanciava il caffè Hag. Il resto è storia dei giorni nostri.
Nessun commento:
Posta un commento