sabato 7 aprile 2012

Inseparabili

AUTORE: Alessandro Piperno
GENERE: Romanzo

TRAMA:
Inseparabili, come i pappagallini che non sanno vivere se non insieme: questo sono sempre stati i fratelli Pontecorvo, Filippo e Samuel, diversissimi e complementari. Ma ecco che i loro destini sembrano invertirsi e qualcosa si incrina. L'indolente Filippo diventa un cartoonist dal successo planetario, il brillante Samuel si avvita nella spirale di un vertiginoso fallimento lavorativo e sentimentale... Una famiglia intera alla resa dei conti: quando la fama, la ricchezza, il sesso, l'amore non contano più nulla, che cosa ancora dà senso alla vita?

INCIPIT:

Prima parte

E' SUCCESSO!
Basta frequentare se stessi con assiduità per capire che, se gli altri ti somigliano, be’, allora degli altri non c’è da fidarsi.
Da una vita Filippo Pontecorvo non faceva che ripeterselo. Per questo non era così sorpreso che Anna, sua moglie, da quando aveva saputo che il cartone animato del marito – prodotto con pochi spiccioli e senza grandi pretese – era stato selezionato alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes, per ritorsione gli avesse inflitto il più drastico sciopero sessuale che il loro strambo matrimonio avesse mai conosciuto. Peccato che tanta consapevolezza non alle- viasse in lui lo sconforto: semmai lo incrementava subdolamente.
Da un mese e mezzo ormai, Anna fomentava bellicosi picchetti davanti alla prospera fabbrica della loro intimità. E sebbene per un tizio come Filippo, con un debole per il bistrattato sesso coniugale, si trattasse di un vero castigo, tale sabotaggio non lo aveva mai fatto arrabbiare come quel giorno di maggio. Se ne stava lì, nella penombra pomeridiana della stanza da letto, a riempire la sacca militare coi suoi stracci in vista della partenza per Cannes dell’indomani. Chissà perché, avvertiva un senso di nausea, neanche si stesse preparando per una missione in Afghanistan.
Fuori pioveva a dirotto. Dentro Filippo si sentiva affogare. Da qualche minuto stava cercando di consolarsi con una tecnica da lui stesso messa a punto, tanto collaudata quanto inefficace. Consisteva nel fare un benevolo bilancio di vita: un consuntivo che, almeno nelle intenzioni di chi lo stilava, avrebbe dovuto sprizzare ettolitri di irragionevole ottimismo.
Dunque, vediamo un po’: aveva quasi trentanove anni, un’età pericolosa ma niente male. Stava per partecipare a un’importante kermesse. Disponeva di un numero invidiabile di pantaloni mimetici, in ricordo della sola esperienza luminosa della sua esistenza: sottotenente nei fucilieri assaltatori alla caserma di Cesano.
Malgrado, secondo gli antiquati canoni della madre, non avesse combinato quasi niente nella vita, Filippo non si sentiva scontento di sé. Anzi, gli pareva di aver saputo imprimere una certa classe a tutta quell’inerzia.
Sposare la figlia di un milionario era stato un colpo da maestro. Anna si occupava della sua sussistenza con la stessa irrefutabile solerzia con cui, per un sacco di tempo, se n’era occupata la madre. Eppure, anche se indossare i panni del mantenuto non lo umiliava più di tanto, cionondimeno gli dispiaceva che la maggior parte dei loro conoscenti liquidasse l’unione tra lui e Anna come un matrimonio di interesse. La verità è che Filippo aveva iniziato ad amare Anna Cavalieri molto prima di incontrarla. E questa era la cosa più romantica che fosse capitata a entrambi.
Le donne: altro capitolo da cui trarre consolazione. Filippo non era un tipino come suo fratello Samuel, tutto frigido e schifiltoso. Di quelli che, per rendere a letto, hanno bisogno d’un bungalow a cinque stelle vista oceano. Intendiamoci: non che avessero mai discusso certi argomenti, ma qualcosa gli diceva che il fratellino avesse divorato troppi film con Fred Astaire e Gene Kelly per essere un grande scopatore. Lui, invece, almeno in quel ramo, se la cavava egregiamente: anche nelle circostanze più squallide e con le partner meno appetitose.
Filippo evitò di conteggiare – nella lista delle cose-di-cui-essere- fiero – la laurea in Medicina, conseguita con fatica indicibile grazie allo sprone di una specie di vocazione dinastica: il padre era stato un oncologo pediatrico di fama internazionale, da anni la madre era la geriatra più in voga nei circoli bocciofili orbitanti intorno all’Oliata.
Si guardò bene inoltre dall’includere il periodo trascorso in Bangladesh nelle file di Medici Senza Frontiere, un’avventura pe- nosa in tutti i sensi, anche se gli aveva fornito la maggior parte del materiale per il suo cartone animato.
In compenso rivalutò in extremis la stupefacente capacità di imitare, con mano felice, i disegni dei grandi venerati maestri dei comics. Dopotutto, il primo vero riconoscimento della sua vita si doveva proprio a quel velleitario talento. Se stava preparando la sacca per Cannes era perché a Gilles Jacob, il leggendario patron del festival più leggendario del pianeta, non era dispiaciuto il suo cartone animato.
Uscì dalla camera. Percorse il corridoio che divideva – stando al gergo di Raffaele, l’architetto di grido che aveva curato la ristrutturazione della casa – la zona notte dalla zona giorno. Il passo imperioso con cui marciava verso la cucina la diceva lunga sulla bellicosità delle sue intenzioni alimentari. Uno spuntino dei suoi, qualcosa che placasse l’inquietudine e rimettesse in moto i neuroni.
La cucina era il solo spazio domestico su cui Filippo aveva messo becco. Una cosa che condivideva con la moglie era il disinteres- se per i beni materiali: non c’era niente che meno rappresentasse quella coppia di eccentrici sbandati della casa in cui vivevano. Tanto è vero che il suo acquisto, nonché la dispendiosa ristrutturazione, erano stati uno degli imprevisti e non così graditi regali del dottor Cavalieri, il padre di Anna. Mentre Filippo aveva accolto il dono con il solito fatalismo, Anna era stata lì lì per rifiutarlo: il quartiere (ogni anno un po’ più esclusivo e un po’ meno intellettuale) era infestato da attrici per cui provava un odio omicida, e che aveva il terrore di incontrare al supermarket.
Il villino sorgeva in una delle vie più appartate di Monteverde. Una palazzina liberty di un color zabaione vagamente lezioso, ma del tutto appropriato al boschetto di magnolie in cui era immersa. Il caro Raffaele, benché frustrato dal disinteresse dei committenti per l’interior design, ce l’aveva messa tutta per conferire ai trecento metri quadrati la squisitezza giapponese che forse sarebbe stata più adeguata a single professionalmente soddisfatti e sessualmente carismatici. Niente tende, pareti chiare, pavimenti coperti di tatami, arredo rado fin quasi all’ascetismo monastico, uno schermo Sony di settanta pollici che svaniva in una parete attrezzata piena dei dvd della moglie e dei fumetti del marito.
Nessuna di quelle scelte stilistiche era stata dettata né avallata da Filippo. Perché, per l’appunto, l’unica stanza che gli premeva era la cucina. Dalle sue proposte, si capiva che Raffaele era molto più interessato alla tinta acida del frigorifero Smeg che alla sua capienza. E questo Filippo non poteva tollerarlo. Per lui ciò che rendeva una cucina degna di questo nome era un grande – ma che dico grande? –, un enorme tavolo da lavoro piazzato in mezzo alla stanza, che invogliasse a cucinare per un reggimento.
E l’aveva ottenuto.
Era proprio all’adorato tavolo da lavoro, delle dimensioni di una piazza d’armi, che Filippo stava ora chiedendo di aiutarlo a scacciare l’insoddisfazione. Era intento a preparare una dozzina di crostini. Aveva acceso il forno. Tagliato in due una manciata di panini al latte. Li aveva poggiati sopra a una teglia, cospargendoli di pomodoro, mozzarella, pasta d’acciughe, olio, pepe e basilico. Ogni tanto si attaccava al collo di una Heineken. Aveva acceso la radio per ascoltare una di quelle trasmissioni in cui si parla di calcio per tutto il pomeriggio.
Mentre, con gesto consumato, infilava la teglia nel forno a colonna, Filippo capì che se lui stava così male, la colpa era di Cannes. E dire che aveva fatto ogni sforzo affinché questa opportunità non modificasse di un millimetro l’idea di sé che aveva impiegato una vita intera a formarsi. E perché mai avrebbe dovuto modificargliela? Erode e i suoi pargoli – questo il titolo del film –, da brava opera d’esordio, non era che la cronaca disorganica, goffamente camuffata, della sua esperienza di cooperante umanitario e medi- co di frontiera, condita con una serie di grandiose balle autopro- mozionali. Il protagonista era un tizio con barba incolta e panta- loni mimetici, straordinariamente simile alla versione palestrata dell’autore in persona. Più che un medico sembrava un supereroe che combatteva valorosamente, tentando di riportare l’ordine in Le mille avventure di questo supereroe sui generis erano inter- vallate dai suoi sogni apocalittici, a mio parere un po’ troppo didascalici, nei quali venivano affastellati celebri infanticidi: dal ten- tato omicidio di Isacco fino ai martiri di Beslan. Inoltre Filippo aveva usato quel film per raccontare se stesso in forma autoironica e dissacrante: persino il fratello e la madre comparivano in un tenero cammeo.
Tutto ciò per dire che avrebbe dovuto attendere qualche altro decennio prima di avere di nuovo qualcosa d’interessante su cui pontificare. E visto che il divertimento che lo aveva assistito durante il concepimento di quell’opera prima si era, per così dire, in essa esaurito, Filippo non aveva alcuna intenzione di produrne una seconda, né una terza e così via... L’idea di intraprendere una carriera i cui primi passi gli erano costati, almeno per i suoi gusti, tutta quella fatica, non lo allettava per niente.
Aveva senso infettare il benessere conquistato grazie a una lun- ga indolenza con il germe dell’ambizione? Aveva senso, raggiun- to un grado di saggezza che nel corso dei millenni uomini molto più in gamba di lui avevano soltanto saputo invocare, mandare a puttane tanta sapienza?
No che non ne aveva.

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