giovedì 12 aprile 2012

Il barone rampante

AUTORE: Italo Calvino
GENERE: Romanzo

TRAMA:
l narratore ripercorre la lunga vicenda del fratello, Cosimo di Rondò, vissuto nella seconda metà del XVIII secolo a Ombrosa, in Liguria. Cosimo, per sfuggire a una punizione inflittagli dai suoi educatori, decide di salire su un albero per non ridiscendere mai più. Cosimo si costruisce un mondo aereo dove diversi personaggi della cultura e della politica (Napoleone compreso) lo vanno a trovare, testimoniandogli la loro ammirazione. Vive anche una tormentata storia d'amore con la volubile Viola. Cosimo muore vecchio, senza mai discendere in terra: ammalato, in punto di morte, si aggrappa alla fune di una mongolfiera e scompare mentre attraversa, così appeso, il mare.

INCIPIT:

Fu il 15 di giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per l’ultima volta in mezzo a noi. Ricordo come fosse oggi. Eravamo nella sala da pranzo della nostra villa d’Ombrosa, le finestre inquadravano i folti rami del grande elce del parco. Era mezzogiorno, e la nostra famiglia per vecchia tradizione sedeva a tavola a quell’ora, nonostante fosse già invalsa tra i nobili la moda, venuta dalla poco mattiniera Corte di Francia, d’andare a desinare a metà del pomeriggio. Tirava vento dal mare, ricordo, e si muovevano le foglie. Cosimo disse: - Ho detto che non voglio e non voglio! - e respinse il piatto di lumache. Mai s’era vista disubbidienza più grave. A capotavola era il Barone Arminio Piovasco di Rondò, nostro padre, con la parrucca lunga sulle orecchie alla Luigi XIV, fuori tempo come tante cose sue. Tra me e mio fratello sedeva l’Abate Fauchelafleur, elemosiniere della nostra famiglia ed aio di noi ragazzi. Di fronte avevamo la Generalessa Corradina di Rondò, nostra madre, e nostra sorella Battista, monaca di casa. All’altro capo della tavola, rimpetto a nostro padre, sedeva, vestito alla turca, il Cavalier Avvocato Enea Silvio Carrega, amministratore e idraulico dei nostri poderi, e nostro zio naturale, in quanto fratello illegittimo di nostro padre. Da pochi mesi, Cosimo avendo compiuto i dodici anni ed io gli otto, eravamo stati ammessi allo stesso desco dei nostri genitori; ossia, io avevo beneficiato della stessa promozione di mio fratello prima del tempo, perché non vollero lasciarmi di là a mangiare da solo. Dico beneficiato così per dire: in realtà sia per Cosimo che per me era finita la cuccagna, e rimpiangevamo i desinari nella nostra stanzetta, noi due soli con l’Abate Fauchelafleur. L’Abate era un vecchietto secco e grinzoso, che aveva fama di giansenista, ed era difatti fuggito dal Delfìnato, sua terra natale, per scampare a un processo dell’Inquisizione. Ma il carattere rigoroso che di lui solitamente tutti lodavano, la severità interiore che imponeva a sé e agli altri, cedevano continuamente a una sua fondamentale vocazione per l’indifferenza e il lasciar correre, come se le sue lunghe meditazioni a occhi fìssi nel vuoto non avessero approdato che a una gran noia e svogliatezza, e in ogni difficoltà anche minima vedesse il segno d’una fatalità cui non valeva opporsi. I nostri pasti in compagnia dell’Abate cominciavano dopo lunghe orazioni, con movimenti di cucchiai composti, rituali, silenziosi, e guai a chi alzava gli occhi dal piatto o faceva anche il più lieve risucchio sorbendo il brodo; ma alla fine della minestra l’Abate era già stanco, annoiato, guardava nel vuoto, schioccava la lingua a ogni sorso di vino, come se soltanto le sensazioni più superficiali e caduche riuscissero a raggiungerlo; alla pietanza noi già ci potevamo mette-, re a mangiare con le mani, e finivamo il pasto tirandoci torsoli di pera, mentre l’Abate faceva cadere ogni tanto uno dei suoi pigri: - ... Ooo bien!... Ooo alors! Adesso, invece, stando a tavola con la famiglia, prendevano corpo i rancori familiari, capitolo triste dell’infanzia. Nostro padre, nostra madre sempre lì davanti, l’uso delle posate per il pollo, e sta’ dritto, e via i gomiti dalla tavola, un continuo! e per di più quell’antipatica di nostra sorella Battista. Cominciò una serie di sgridate, di ripicchi, di castighi, d’im- puntature, fino al giorno in cui Cosimo rifiutò le lumache e decise di separare la sua sorte dalla nostra. Di quest’accumularsi di risentimenti familiari mi resi conto solo in seguito: allora avevo otto anni, tutto mi pareva un gioco, la guerra di noi ragazzi contro i grandi era la solita di tutti i ragazzi, non capivo che l’ostinazione che ci metteva mio fratello celava qualcosa di più fondo. Il Barone nostro padre era un uomo noioso, questo è certo, anche se non cattivo: noioso perché la sua vita era dominata da pensieri stonati, come spesso succede nelle epoche di trapasso. L’agitazione dei tempi a molti comunica un bisogno d’agitarsi anche loro, ma tutto all’incontrario, fuori strada: così nostro padre, con quello che bolliva allora in pentola, vantava pretese al titolo di Duca d’Ombrosa, e non pensava ad altro che a genealogie e successioni e rivalità e alleanze con i potentati vicini e lontani. Perciò a casa nostra si viveva sempre come si fosse alle prove generali d’un invito a Corte, non so se quella dell’Imperatrice d’Austria, di Re Luigi, o magari di quei montanari di Torino. Veniva servito un tacchino, e nostro padre a guatarci se lo scalcavamo e spolpavamo secondo tutte le regole reali, e l’Abate quasi non ne assaggiava per non farsi cogliere in fallo, lui che doveva tener bordone a nostro padre nei suoi rimbrotti. Del Cavalier Avvocato Carrega, poi, avevamo scoperto il fondo d’animo falso: faceva sparire cosciotti interi sotto le falde della sua zimarra turca, per poi mangiarseli a morsi come piaceva a lui, nascosto nella vigna; e noi avremmo giurato (sebbene mai fossimo riusciti a coglierlo sul fatto, tanto leste erano le sue mosse) che venisse a tavola con una tasca piena d’ossicini già spolpati, da lasciare nel suo piatto al posto dei quarti di tacchino fatti sparire sani sani. Nostra madre Generalessa non contava, perché usava bruschi modi militari anche nel servirsi a tavola, - So, Noch ein wenig! Gut! - e nessuno ci trovava da ridire; ma con noi teneva, se non all’etichetta, alla disciplina, e dava man forte al Barone coi suoi ordini da piazza d’armi, - Sitz’ ruhig! E pulisciti il muso! - L’unica che si trovasse a suo agio era Battista, la monaca di casa, che scarnificava pollastri con un accanimento minuzioso, fibra per fibra, con certi coltellini appuntiti che aveva solo lei, specie di lancette da chirurgo. Il Barone, che pure avrebbe dovuto portarcela ad esempio, non osava guardarla, perché, con quegli occhi stralunati sotto le ali della cuffia inamidata, i denti stretti in quella sua gialla faccina da topo, faceva paura anche a lui. Si capisce quindi come fosse la tavola il luogo dove venivano alla luce tutti gli antagonismi, le incompatibilità tra noi, e anche tutte le nostre follie e ipocrisie; e come proprio a tavola si determinasse la ribellione di Cosimo. Per questo mi dilungo a raccontare, tanto di tavole imbandite nella vita di mio fratello non ne troveremo più, si può esser certi. Era anche l’unico posto in cui ci incontravamo coi grandi. Per il resto della giornata nostra madre stava ritirata nelle sue stanze a fare pizzi e ricami e fìlé, perché la Generalessa in verità solo a questi lavori tradizionalmente donneschi sapeva accudire e solo in essi sfogava la sua passione guerriera. Erano pizzi e ricami che rappresentavano di solito mappe geografìche; e stesi su cuscini o drappi d’arazzo, nostra madre li punteggiava di spilli e bandierine, segnando i piani di battaglia delle Guerre di Successione, che conosceva a menadito.

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