AUTORE: Daniele Grillo, Valeria Valentini
GENERE: Romanzo
TRAMA:
Anna Rouvery ha poco più di trent'anni e la sua vita è tutta un tango. Un contratto con l'Accademia e una scuola di ballo tutta sua, una mansarda sui tetti attorno a piazza della Posta Vecchia, le lunghe lettere alla madre scritte sempre sotto la luce di una candela. In un'anonima alba settembrina il suo cadavere viene trovato sulla piattaforma galleggiante ancorata al centro dell'antico porto di Genova. Per il commissario Elia Marcenaro il delitto dell'Isola delle Chiatte è l'occasione per un'insperata rivincita dopo l'esilio, durato anni, all'ufficio passaporti. Un riscatto dal passato di errori e travolgenti amori, dal presente di una figlia lontana e di nevrosi mal curate. Ma venire a capo dell.enigma di passione e fede nascosto tra le pagine di cinque grandi classici della letteratura non sarà affatto semplice. I vicoli della città vecchia e l.incantevole bellezza di capo Santa Chiara, l'antico convento di Santa Maria di Castello dove le indagini lo condurranno, lo strano e luccicante abbracciarsi di moli non più porto e non ancora luogo, faranno da sfondo a esistenze e storie di mondi all'apparenza lontani e impermeabili. Solo grazie alla sensibilità e all'amore per la conoscenza della bella agente Beatrice Palazzesi, Marcenaro riuscirà a comprendere il vero significato delle parole che fino ad allora aveva letto senza capire.
INCIPIT:
Legno, anima. E acqua. Se ti capitasse di morire sull’isola di legno dedicata a Luciano Berio e conservassi la coscienza di ciò che accade attorno al tuo corpo, avresti l’impressione di trovarti al centro di un’ampia piroga. Membra e anima che avanzano galleggiando sull’acqua, come in uno di quei riti orientali che affidano al dio fiume l’ultimo viaggio. Vuoi per quella musica delle giunture che collegano le chiatte al pontile, vuoi per l’insieme di armonia e poesia che evoca il nome del compositore, vuoi ancora per quella posizione di prominenza nel centro dell’antico porto della città, qui sembra quasi che le braccia della Superba protese sul mare ti accompagnino. Verso un luogo, però, che non volevi ancora raggiungere.
Il cadavere di Anna Rouvery fu trovato schiena contro un parapetto della piccola piazza sul mare del porto antico. Lo strano luogo, né mare né terra, che si affaccia al centro del golfo, ricavato su un paio di vecchie chiatte agganciate al molo dell’Acquario. Il corpo giaceva sulla sinistra della seconda piattaforma, nell’angolo che guarda verso i magazzini del cotone. Anzi, per la precisione Anna si trovava quasi seduta con le braccia alzate e le mani ancora aggrappate alle ringhiere, insanguinate in più punti. A tradire una posizione che avresti detto normale, quasi l’istantanea di un momento di relax, le gambe scomposte, innaturali, piegate in una posizione che nessuna donna assumerebbe mai. E il viso, il viso tradiva ancora di più. Gli occhi sbarrati avevano attorno alle orbite macchie scure al posto del trucco. Sulla fronte, parte destra, un largo ematoma. Rosso intenso, in netto contrasto con lo spettrale pallore di morte della pelle.
Ad attraversare quel volto senza più vita un rivolo di capelli intrisi di sangue.
– Chi l’ha trovata? – chiese il commissario con un’espressione di malcelata partecipazione.
– Si chiama Rudy Mac Lyell ed è il fotografo di una rivista inglese. È a Genova da cinque giorni, ama venire qui all’alba per trovare la luce che serve per scattare le sue immagini. Difficile che sia stato lui, commissario. Il portiere del suo albergo sostiene che è rimasto in stanza fino alle cinque di questa mattina. E secondo il medico che ha constatato il decesso, la donna è morta prima. Aveva con sé i documenti. È italiana, ma probabilmente ha origini francesi. Si chiamava Anna Rouvery.
– Sentite quelli della vigilanza, fatemi parlare con qualunque stronzo sia passato di qui nelle ultime dodici ore. Voglio sapere tutto di questa ragazza.
Due battelli indugiavano attorno a quel francobollo di legno ondeggiante, mentre un poliziotto si sbracciava per intimare ai curiosi di allontanarsi. La bella cartolina del golfo guadagnava una magica profondità grazie alla linea dei magazzini, dopo la rivoluzione delle Colombiane, passati da depositi di comuni batuffoli a contenitori per ricchi congressi. Il mare correva in mezzo ai moli increspandosi lievemente in corrispondenza delle correnti. L’intuizione di Renzo Piano di dare a quello spazio anche un’altezza, disegnando la piovra rovesciata del Bigo, da molti genovesi venne considerata folle, aliena, brutta. Ma ormai i grassi e metallici bracci bianchi svettavano da diversi anni nello scenario del porto antico. Erano entrati nelle immagini dei turisti, nei loro ricordi. Per gli autoctoni continuavano a non significare molto. Poco importa. Questo distretto sul mare era, e sarebbe rimasto, qualcosa di profondamente diverso dalla città, dalla sua storia. Dalla sua anima.
Elia Marcenaro era arrivato tardi come sempre, sul luogo del delitto. D’altra parte voleva essere sempre sicuro che gli uomini della Scientifica avessero compiuto i loro rilievi, per lo meno quelli iniziali, e sapeva che prima di un paio d’ore il pigro pm di turno non avrebbe fatto capolino. Ripeteva sempre ai suoi più stretti collaboratori che troppa scienza aveva rovinato il sapore antico dell’indagare e, assieme al sapore, i risultati. Le giunture dell’isola delle chiatte, mai oliate come impose l’archistar genovese che la disegnò, urlavano e gracchiavano mentre le due grandi piattaforme di legno che la sostenevano continuavano a ballare, corteggiate dal movimento delle onde.
Il commissario aveva visto diversi morti nella sua vita. Ma una donna così bella, così piena di vita, così elegante, per fortuna, non l’aveva mai incontrata a trapasso avvenuto. Anna, esile e leggera come solo le ballerine sanno essere, portava un vestito nero, semplice e raffinato allo stesso tempo. L’abito raggiungeva l’altezza delle ginocchia, l’ideale per un caldo inizio settembre come quello in cui trovò la morte. Un coprispalle di cotone completava il tutto. Ma di esso era rimasto poco: mezzo strappato pendeva tra il collo della donna e il parapetto, lasciando le braccia del cadavere nude. Doveva essersi truccata e non solo attorno agli occhi, per quell’ultimo appuntamento. Il risultato non era volgare, piuttosto manteneva una certa sobrietà. Il suo volto era per metà insanguinato, tuttavia Marcenaro si accorse che oltre all’ematoma, un taglio di media profondità spuntava da sotto i capelli. Rimanevano alcuni brillantini a far risaltare gli splendidi occhi. I capelli lisci e scuri erano disordinati e in parte le coprivano l’occhio sinistro. Chissà quanti sguardi di uomini dovevano aver attirato quelle gambe. Ora il loro chiarore e lo smalto rosso sulle unghie dei piedi spiccavano come in una fotografia d’autore sul pavimento scuro dell’isola. Le scarpe si trovavano a qualche metro di distanza.
Ma la donna con ogni probabilità non le aveva perse durante una colluttazione con l’assassino, ed era anche assai improbabile che in quella posizione perfetta fossero rimaste dopo un tuffo spontaneo dal parapetto. I due sandali di vernice nera erano, composti e paralleli, ai piedi di una delle panchine sulle quali gli innamorati, la sera, sono soliti scambiarsi effusioni. Lucentezza intatta, le scarpe puntavano in direzione della legittima proprietaria che non le avrebbe più indossate. Sulla panchina, semiaperta, una borsetta da sera di paillettes nere. Dentro un paio di chiavi, probabilmente di casa, un pacchetto di fazzoletti, un porta- documenti rosa e nient’altro.
AUTORE: Isabel Allende
GENERE: Romanzo
TRAMA:
L'amore, la magia, il mistero, i sogni si intrecciano alle violenze e agli orrori della guerra cilena che portò alla ascesa di Pinochet in questo splendido romanzo di Isabel Allende. Alle "Tre Marie", splendida tenuta di proprietà di Esteban Trueba, si intrecciano le passioni dei diversi protagonisti: Clara, la moglie del proprietario, trascorre una vita avvolta nei ricordi; Fèrula, sorella di Esteban, dedica la sua vita agli altri; Blanca è innamorata di un servo del padre, Pedro, che avrà parte nella guerriglia della rivoluzione; Alba, la nipote, dovrà invece affrontare la dittatura mentre Esteban scoprirà, proprio a causa dei tragici eventi politici del suo paese, di amare innanzitutto la sua famiglia.
INCIPIT:
Barrabàs arrivò in famiglia per via mare, annotò la piccola Clara con la sua delicata calligrafia. Già allora aveva l’abitudine di scrivere le cose importanti e più tardi, quando rimase muta, scriveva anche le banalità, senza sospettare che, cinquant’anni dopo, i suoi quaderni mi sarebbero serviti per riscattare la memoria del passato,e per sopravvivere al mio stesso terrore. Il giorno in cui arrivò Barrabàs era Giovedì Santo. Stava in una gabbia lercia, coperto dei suoi stessi escrementi e della sua stessa orina, con uno sguardo smarrito di prigioniero miserabile e indifeso, ma già si intuiva dal portamento regale della sua testa e dalla dimensione del suo scheletro il gigante leggendario che sarebbe diventato. Era quello un giorno noioso e autunnale, che in nulla faceva presagire gli eventi che la bimba scrisse perché fossero ricordati e che accaddero durante la messa delle dodici, nella parrocchia di San Sebastiàn, alla quale assistette con tutta la famiglia. In segno di lutto, i santi erano coperti di drappi viola, che le beghine toglievano ogni anno dalla polvere dell’armadio della sacrestia, e, sotto i lenzuoli funebri, la corte celeste sembrava un cumulo di mobili in attesa del trasloco, senza che le candele, l’incenso o i gemiti dell’organo potessero opporsi a questo pietoso effetto. Minacciose masse scure si ergevano al posto dei santi a grandezza naturale, con le loro facce tutte identiche dall’espressione raffreddata, le loro elaborate parrucche di capelli di morto, i loro rubini, le loro perle, i loro smeraldi di vetro colorato e i loro abiti da nobili fiorentini. L’unico favorito dal lutto era il patrono della chiesa, San Sebastiano, perché nella settimana santa veniva risparmiato ai fedeli lo spettacolo del suo corpo contorto in una posizione indecente, trafitto da mezza dozzina di frecce, grondante sangue e lacrime, come un omosessuale sofferente, le cui piaghe, miracolosamente fresche grazie al pennello di padre Restrepo, facevano tremare di ribrezzo Clara.
Era quella una lunga settimana di penitenza e di digiuno, non si giocava a carte, non si suonava musica che incitasse alla lussuria o all’oblio, e si osservava, nei limiti del possibile, la maggior tristezza e castità, nonostante proprio in quei giorni il pungolo del demonio tentasse con più insistenza la debole carne cattolica. Il digiuno consisteva in morbide torte di pasta sfoglia, in saporiti fritti di verdura, in soffici frittate e in grandi formaggi portati dalla campagna, con i quali le famiglie ricordavano la Passione del Signore, guardandosi bene dall’assaggiare neppure il più piccolo boccone di carne o di pesce, sotto pena di scomunica, come ripeteva padre Restrepo. Nessuno avrebbe osato disubbidirgli. Il sacerdote era provvisto di un lungo dito accusatore per indicare in pubblico i peccatori, e una lingua allenata a turbare i sentimenti.
- Tu, ladro che hai rubato il denaro del culto! - gridava dal pulpito segnalando un gentiluomo che fingeva di affannarsi a causa di un pelo sul suo bavero per non guardarlo in faccia. - Tu, svergognata che ti prostituisci sui moli! - e accusava donna Ester Trueba, invalida per via dell’artrite e devota alla Vergine del Carmine, che apriva gli occhi esterrefatta, senza sapere il significato di quella parola, né dove si trovavano i moli - Pentitevi, peccatori, immonda carogna, indegni del sacrificio di Nostro Signore! Digiunate! Fate penitenza!
Travolto dall’entusiasmo dello zelo della sua vocazione, il sacerdote doveva contenersi per non entrare in aperta disobbedienza con le istruzioni dei suoi superiori ecclesiast ici, scossi da ventate di modernismo, che si opponevano al cilicio e alla flagellazione. Lui era dell’idea di vincere le debolezze dell’anima con una buona frustata della carne. Era famoso per la sua oratoria sfrenata. I suoi fedeli lo seguivano di parrocchia in parrocchia, sudavano sentendolo descrivere i tormenti dei peccatori nell’inferno, le carni lacerate da ingegnose macchine di tortura, i fuochi eterni, gli uncini che trafiggevano i membri virili, i rettili ripugnanti che si introducevano negli orifizi femminili e altri molteplici supplizi che infilava in ogni sermone per seminare il terrore di Dio. Lo stesso Satana era descritto fin nelle sue intime anomalie con l’accento galiziano del sacerdote, la cui missione in questo mondo era di scuotere le coscienze degli indolenti creoli.
Severo del Valle era ateo e massone, ma aveva ambizioni politiche e non poteva permettersi il lusso di mancare alla messa che ogni domenica o festa comandata attraeva più gente, affinché tutti potessero vederlo. Sua moglie Nivea preferiva intendersi con Dio senza intermediari, aveva una profonda sfiducia nelle sottane e si annoiava alle descrizioni del cielo, del purgatorio e dell’inferno, ma seguiva suo marito nelle sue ambizioni parlamentari, con la speranza che se avesse occupato un posto al Congresso, lei avrebbe potuto ottenere il voto femminile, per il quale lottava da ormai dieci anni, senza che le sue numerose gravidanze riuscissero a scoraggiarla.
Quel Giovedì Santo padre Restrepo aveva spinto gli ascoltatori al limite della resistenza con le sue visioni apocalittiche e Nivea cominciò a sentire giramenti di testa. Si chiese se non fosse di nuovo incinta. Nonostante i lavacri con aceto e le spugnature con ghiaccio, aveva dato alla luce quindici figli, dei quali ne restavano vivi solo undici, e aveva motivo di supporre che già stesse entrando nella maturità, dato che sua figlia Clara, la minore, aveva dieci anni. Sembrava che fosse infine venuto meno l’impegno della sua stupefacente fertilità. Cercò di attribuire il suo malessere al momento del sermone di padre Restrepo quando l’aveva additata parlando dei farisei che pretendevano di legalizzare i bastardi e il matrimonio civile, minando la famiglia, la patria, la proprietà e la Chiesa, dando alle donne la stessa posizione degli uomini, in aperta sfida alla legge di Dio, che in merito era molto precisa. Nivea e Severo occupavano, con i loro figli, tutta la terza fila dei banchi. Clara era seduta accanto alla madre e questa le stringeva la mano con impazienza quando il discorso del sacerdote si dilungava troppo sui peccati della carne, perché sapeva che ciò induceva la piccola a visualizzare aberrazioni che andavano oltre la realtà, com’era evidente dalle domande che faceva e alle quali nessuno sapeva rispondere. Clara era molto precoce e aveva la dilagante immaginazione che ereditarono tutte le donne della sua famiglia dal lato materno. La temperatura della chiesa era aumentata e l’odore penetrante dei ceri, dell’incenso e della folla stipata contribuivano a estenuare Nivea. Desiderava che la cerimonia terminasse una volta per tutte, per tornare nella sua casa fresca, per sedersi nel cortile delle felci e assaporare la caraffa di orzata che la Nana preparava nei giorni di festa.
AUTORE: Alessandro Baricco
GENERE: Romanzo
TRAMA:
Si incontreranno per tre volte, ma ogni volta sarà l’unica, e la prima, e l’ultima. Tre storie. Tre incontri. Tre episodi in cui scivolano personaggi che si incrociano, per sfasature temporali, in età diverse, sullo sfondo della hall di un hotel. L’albeggiare che annuncia, per tre volte, l’insistenza di un sentimento.
INCIPIT:
C’era quell’albergo, di un’eleganza un po’ appannata. Probabilmente era stato in grado, in passato, di mantenere certe promesse di lusso e garbo. Aveva ad esempio una bella porta giravole in legno, un particolare che sempre inclina alle fantasticherie.
Fu da lì che una donna entrò, a quell’ora strana della notte, apparentemente pensando ad altro, appena scesa dal taxi. Indossava solo un abito da sera giallo, piuttosto scollato, e neppure una sciarpa leggere sulle spalle: la cosa le dava un’aria intrigante di coloro a cui è successo qualcosa.
Aveva una sua eleganza nel muoversi, ma anche sembrava un’attrice appena rientrata dietro le quinte, sollevata dall’obbligo di recitare e tornata in un qualche se stessa, più sincero.
Così aveva un mdo di mettere i passi, di poco più stanco, e di reggere la minuscola borsetta, quasi un lasciarla. Non era più tanto giovane, ma questo le donava, come succede talvolta alle donne che non hanno mai avuto dubbi sulla propria bellezza.
Fuori era il buio prima dell’alba, né notte né mattino. La hall dell’albergo dimorava immobile, elegante nei dettagli, pulita, morbida: calda nei colori, silenziosa, ben disposta nello spazio, illuminata di riflesso, le pareti alte, il soffitto chiaro, libri sui tavoli, cuscini gonfi sui divani, quadri incorniciati con devozione, un pianoforte nell’angolo, poche scritte necessarie, il font mai lasciato al caso, una pendola, un barometro, un busto di marmo, tende alle finestre, tappeti al pavimento – l’ombra di un profumo.
Poiché il portiere di notte, postata la giacca sullo schienale di una sedia povera, stava dormendo in una vicina stanzetta il sonno leggerissimo di cui era maestro, non ci sarebbe stato nessuno a veder la donna che entrava nell’albergo se non fosse che un uomo seduto in poltrona, in un angolo della hall – irragionevole, a quell’ora della notte – la vide, e allora accavallò la gamba sinistra sulla destra, quando prima era la destra che poggiava sulla sinistra- senza ragione. Si videro.
Aveva l’aria di piovere, ma poi non l’ha fatto, disse la donna.
Si, non si decide, disse l’uomo.
Aspetta qualcuno?
Io? No.
Che stanchezza. Le spiace se mi siedo un attimo?
Prego.
Niente da bere, vedo.
Non credo che diano la colazione prima delle sette.
Alcol, dicevo.
Ah, quello. Non so. Non credo, a quest’ora.
Che ora è?
Quattro e dodici.
Sul serio?
Sì.
Non passa più ‘sta notte. Mi sembra iniziata tre anni fa. Lei che ci fa qui?
Stavo per andarmene. Devo andare a lavorare.
A quest’ora?
Già.
Come fa?
Niente, mi piace.
Le piace.
Sì.
incredibile.
Trova?
Lei ha l’aria di essere la prima persona interessante che incontro stasera. Stanotte. Insomma quello che è.
Non oso pensare agli altri.
Tremendi.
Era a una festa?
Non sono sicura di sentirmi molto bene.
Chiamo il portiere.
No, per carità.
Forse sarebbe meglio a stendersi.
Mi tolgo le scarpe, le spiace?
Ma si immagini…
Mi dica qualcosa, qualsiasi cosa. Se mi distraggo, passa.
Non saprei cosa…
Mi parli del suo lavoro.
Non è molto avvincente come argomento…
Provi.
Vendo bilance.
Continui.
Si pesano un sacco di cose, ed è importante pesarle con esattezza, così io ho una fabbrica che produce bilance, di qualsiasi tipo. Ho undici brevetti, e...
Vado a chiamare il portiere.
No, la prego, quello mi odia.
Resti giù.
Se resto giù vomito.
Si tiri su, allora.
Cioè, voglio dire...
Si fanno soldi a vendere bilance?
Secondo me lei dovrebbe...
Si fanno soldi a vendere bilance?
Non molti.
Vada avanti, non pensi a me.
Io veramente dovrei proprio andare.
Mi faccia questa cortesia, continui a parlare per un pò . Poi se ne va.
Si guadagnava abbastanza, fino a qualche anno fa.
Adesso non so, devo avere sbagliato da qualche parte, ma non riesco più a vendere niente. Ho pensato che fossero i miei venditori, così mi son messo a girare io, a vendere, ma in effetti i miei prodotti non vanno più, forse sono invecchiati, non so, forse costano troppo, in genere costano molto cari, perché è tutta roba a mano, lei non ha idea di cosa voglia dire ottenere l’esattezza assoluta, quando si tratta di pesare qualcosa.
Pesare cosa? Mele, persone, cosa?
Tutto. Dalle bilance per orafi a quelle per i container, facciamo di tutto.
Sul serio?
È per questo che devo andare, oggi ho da chiudere un contratto importante, non posso davvero arrivare in ritardo, ne va della mia azienda, se non mi va dritta questa... Porca vacca!
Merda.
La accompagno in bagno.
Aspetti, aspetti.
Eh no!...
Merda.
Vado a prendere un po' d’acqua.
Mi scusi, davvero, mi scusi.
Vado a prendere un po' d'acqua.
No, resti qui, per favore.
Tenga, si pulisca con questo.
Che vergogna.
Non si preoccupi, ho dei bambini.
Cosa c'entra?
I bambini vomitano spesso. I miei, almeno.
Ah, scusi.
Per cui non mi fa impressione.
Però adesso sarebbe meglio salisse nella sua stanza.
Non posso lasciare qui questo casino...
Chiamo poi io il portiere, lei salga in camera.
Ha una camera, vero?
Sì.
Allora vada. Ci penso io.
Non sono sicura di ricordarmi il numero.
Il portiere glielo dirà.
NON VOGLIO VEDERE IL PORTIERE, quello mi odia, gliel’ho detto. Lei non ce l’ha una stanza?
AUTORE: Francesco Guccini
GENERE: Romanzo
TRAMA:
Dalle osterie fuori porta alle braghe corte che oggi nessun ragazzino è più costretto a portare, dal fumo libero nei cinema ai telefoni in duplex, dalla macchina da scrivere ai taxi verdi e neri che quasi nessuno ricorda più, dalle linguette per aprire le lattine agli odori - non ancora coperti dallo smog globale - che animavano ogni angolo delle città: con un poco di nostalgia, ma soprattutto con tutta l'energia e la poesia della sua prosa, Francesco Guccini rivolge il suo sguardo sornione su oggetti, situazioni, emozioni di un passato che è di tutti, ma che rischia di andare perduto. Un viaggio nella vita di ieri che si legge come un romanzo: per scoprire che l'archeologia "vicina" di noi stessi commuove, diverte e parla di come siamo diventati.
INCIPIT:
BANANA
Noi siamo quelli della banana.
Abbiamo, miracolosamente, e di poco, evitato le fasce, quel sistema ignobile di costrizione che voleva tutti gli infanti trasformati in mummie egizie, ma l’infame banana no, non siamo riusciti a evitarla. Appena nati, innocenti, incolpevoli, hanno preso i nostri primi e scarsi capelli e li hanno foggiati in modo che, sulla fronte, emergesse un ricciolone enorme e cavo, un vezzo al quale in nessun modo potevamo ribellarci, una specie di grottesco cannolo che sovrastava i nostri occhi, da poco spalancati sul mondo. Non solo ai maschi è stata imposta tale umiliazione, alla quale evidentemente era impossibile opporsi, ma anche alle femmine toccò questa triste sorte - in più, per loro, con l’aggravante di un lezioso fìocchetto, una piccola farfalletta di stoffa a coronamento del tutto.
Poi, non paghi, ci hanno fotografato. Ma non in casa, perché allora quasi nessuno aveva una macchinetta casalinga, non come ora che, con l’ausilio di ignobili telefonini, è tutto un ticchettare continuo che nemmeno i più convinti giapponesi. No, ci facevano uscire, ci esponevano ai pericoli delle città o delle campagne, ai terribili rigori metereologici, i geli d’inverno, i caldi tropicali dell’estate, e ci portavano in uno studio fotografico. Là ci immortalavano, sordi ai nostri giusti lamenti. Nudi, distesi in varie pose oscene su pelli di svariati felini, lo sguardo vuoto di infantile e innocente perplessità, se non di autentico e consapevole terrore, là tutti a mostrare dubbie rotondità di glutei e tettine grassocce di cui le femmine, raggiunta la pubertà, si sarebbero poi vergognate per i secoli a venire; ma anche i maschi, con eventuali pisellini in aria, non siamo stati da meno, da sempre timorosi che un qualunque discendente, un figlio, un peggio, un nipote, le scoprisse, quelle foto, e ne facesse materia di ignobile e vile ricatto.
Noi siamo quelli lì. Oh, certo, siamo cresciuti, e abbiamo affrontato, chi più, chi meno, le varie avversità o le gioie (le poche, in verità, gioie) che la vita di volta in volta ci ha presentato. Così oggi, non tanto più sereni ma, diciamo, distaccati, vogliamo voltarci indietro e riguardare con affettuosa rimembranza a tante piccole cose che abbiamo incontrato e che, come tante altre cose andate, più che andarsene ci sono volate via.
IL CHEWING –GUM
Quando gli americani arrivarono in Italia, in tempo di guerra, oltre alle profumate sigarette, portarono un mucchio di altre cose da noi allora sconosciute, o quasi. La Coca-Cola, per fare un esempio, il burro di arachidi, i pancakes (le frittelle di Paperino) e il chewing-gum. Insieme alle cioccolate (le Hershey) e le multicolori caramelle col buco foggiate a ciambella di salvataggio (le Life Savers), i G.I. statunitensi gettavano ai ragazzini misteriosi pacchettini oblunghi; una volta scartati, questi rivelavano delle tavolettine anch'esse oblunghe e odorose. Caramelle americane? Forse. Ma che fare di quelle strane caramelle? Via lesti in bocca. Però, mastica mastica, quella caramella perdeva sapore e non si scioglieva, e fu quindi rapidamente inghiottita.
Avevamo fatto conoscenza con la gomma da masticare.
Pare che l’uso di masticare qualcosa sìa antico come il mondo, anche se non parlerò dei Neanderthal, (sembra masticassero pure loro curiose resine. Ecco perché poi sono stati sopraffatti dai Cro-Magnon).
Gli antichi greci masticavano non so quale altra resina (gli antichi romani, per fortuna, non masticavano niente), ma si dice che i primi a ruminare gomma seria (grazie, ce l'avevano!) fossero i Maya, che masticavano abitualmente palline di gomma ricavate da una pianta, la Manilkara chilcle, e via andavano felici.
I nordamericani avevano provato a masticare qualcosa, tipo la resina dell’abete rosso, e ci furono diversi tentativi con altri strani ingredienti, ma fu solo un certo William Semple a ottenere un brevetto, il 28 dicembre 1869, per palline ottenute con la gomma chicle.
Erano però senza alcun sapore (un po’ come fumare le sigarette senza nicotina o bere la birra senza alcol), e la geniale invenzione dovette essere perfezionata, fino a giungere alla varia gamma di gusti e offerte dei nostri giorni, anche se certe gomme da masticare non usano più la gomma chicle ma una sostanza chiamata poli-isobutilene, credo un derivato di idrocarburi: praticamente si mastica petrolio e il solo pensiero dovrebbe spingere a legittima ripugnanza.
Ma bando alle ciance: finita la guerra finita la guerra finito il chewing-gum? No, ovviamente, perché l’ondata masticatoria non accennava a diminuire (soprattutto fra i ragazzi) e uscirono italianissimi prodotti, chiamati ben presto "cingomma", o "cicca", o in altre cento regionali varianti.
Per esempio, ci fu un malluccone rosa, all’inizio di caramelloso gusto e di incerta masticazione, che presto esauriva gli effluvi saporosi. L’astuto ragazzo allora lo tuffava nello zucchero e rimasticava, perchè si guardava bene dal gettare via il bolo, ma, al primo (anche al secondo) accenno di male alle ganasce, lo riponeva saggiamente in tasca per ritirarlo fuori a una nuova bisogna e indi ricacciarlo in bocca dopo averlo sommariamente ripulito da briciole e peluzzi vari.
Ma il vero divertimento non era tanto masticare quanto infìlarsi pollice e indice in bocca ed estrarne un lungo filo rosato, badando bene che non si spezzasse, rimettere il tutto in bocca e ripetere l’operazione ad libitum, in special modo alla presenza di adulti che gridavano naturalmente allo schifo. Dopodichè veniva ficcato di nuovo in tasca e lì, a volte dimenticato, si trasformava presto in reperto archeologico.
Uscirono però quasi subito forme più umane di gomme, alcune delle quali contenenti la figurina di un famoso ciclista o di un noto calciatore, il che aumentava la preziosità dell'acquisto.
Ma il vero colpo fu l’invenzione della bubble-gum (credo, questa, americana), la gomma che faceva i palloni. Tu masticavi masticavi e poi, saggiata fra lingua e denti la giusta consistenza, soffiavi tenue fino ad ottenere la fuoriuscita, fra le labbra, di un palloncino che i più abili riuscivano a a foggiare di notevoli dimensioni. Scoppiava anche con un caratteristico sonoro ciac, che, ripetuto più volte, era utilissimo a far girare le scatole a un vicino adulto (e a far partite pure uno schiaffo). Unico svantaggio, il palloncino poteva esplodere sulla faccia rendendo oltremodo difficile il nettarla dai filamenti gommosi. Ma da bambini non sono cose che preoccupano.
Questi giochi sono misteriosamente scomparsi da adolescenti. Solo, a volte, vicino alla ragazzina che ti piaceva, potevi estrarre un pacchettino rettangolare colmo di pasticchette bianche e dire, nonscialante: “Vuoi un chiclets?”.
AUTORE: Stefano Benni
GENERE: Romanzo
TRAMA:
Ci sono bar e bar e poi c’è il Bar Sport che tutti li accomuna e li fonde in un solo paradigmatico universo, in una sola grande scena di umanità raccolta sotto la fraterna insegna come intorno a un fuoco, intorno al calore di un’identità minacciata. Stefano Benni, con il suo Bar Sport, ha aperto la porta su un mondo che per tutti è diventato un luogo, anzi il luogo familiare per eccellenza. Il Bar Sport è quello dove non può mancare un flipper, un telefono a gettoni e soprattutto la "Luisona", la brioche paleolitica condannata a un’esposizione perenne in perenne attesa del suo consumatore. Il Bar Sport è quello in cui passa il carabiniere, lo sparaballe, il professore, il tecnnico (proprio così, con due n) che declina la formazione della nazionale, il ragioniere innamorato della cassiera, il ragazzo tuttofare. Nel Bar Sport fioriscono le leggende, quella del Piva (calciatore dal tiro portentoso), del Cenerutolo (il lavapiatti che sogna di fare il cameriere) e delle allucinazioni estive. Vagando e divagando Benni ha scritto la sua piccola commedia umana, a cui presto aggiungerà un nuovo capitolo. Ebbene sì, Bar Sport è vivo, è ancora vivo.
INCIPIT:
INTRODUZIONE STORICA
L'uomo primitivo non conosceva il bar. Quando la mattina si alzava, nella sua caverna, egli avvertiva subito un forte desiderio di caffè. Ma il caffè non era ancora stato inventato e l'uomo primitivo aggrottava la fronte, assumendo la caratteristica espressione scimmiesca. Non c'erano neanche bar. Gli scapoli, la sera, si trovavano in qualche grotta, si mettevano in semicerchio e si scambiavano botte di clava in testa secondo un preciso rituale. Era un divertimento molto rozzo, e presto passò di moda. Allora gli uomini primitivi cominciarono a riunirsi in caverne e a farsi sui muri delle caricature, che tra di loro chiamavano scherzosamente graffiti paleolitici. Ma questo primo tentativo di bar fu un fallimento. Non esistevano la moviola, il vistoso sgambetto, il secco rasoterra, il dribbling ubriacante e l'arbitraggio scandaloso, e la conversazione languiva in rutti e grugniti.
Gli antichi romani, invece, inventarono subito la taverna osservando il volo degli uccelli, e la suburra era un vero pullulare di bar. Gli osti facevano affari d'oro, tanto che divennero presto la classe dominante. Cesare cominciò la sua carriera come cameriere, e conservò per tutta la vita la pessima abitudine di farsi dare mance dai barbari sconfitti.
Nei bar romani si beveva molta menta, vini dei colli e assenzio. Le leggi erano molto severe: a chi veniva pescato ubriaco veniva mozzata la lingua. Questo provvedimento fu revocato allorché in Senato le sedute cominciarono a svolgersi in perfetto silenzio. I camerieri erano per la maggior parte schiavi cartaginesi. Ma c'erano anche molti filosofi greci, che servivano in tavola per mantenersi agli studi. Aristotele fece il cameriere per due anni al «Porcus rotitus», ed ebbe l'intuizione della sua Logica osservando un cliente che cercava di infilzare con la forchettina una grossa cipolla. Platone fece lo sguattero al «Pomplius», uno dei ristoranti più à la page di Roma dove il carrello del bollito era una biga a due cavalli.
Anche in Grecia i bar ebbero grande diffusione. I filosofi Peripatetici insegnavano nei tavolini all'aperto e finivano le lezioni completamente ubriachi. Pitagora inventò la sua famosa tavola perché era stanco di essere imbrogliato sui conti della birra, e Zenone divenne Stoico perché non aveva mai la pazienza di far raffreddare la sua cioccolata in coppa.
Il medioevo fu uno dei periodi d'oro dei bar. Fu inventato il posto di ristoro, o stazione per cavalli, in cui i cavalli potevano riposare e i cavalieri rifocillarsi. In realtà la cosa andava così: il cavaliere chiedeva al cavallo «Sei stanco, sì», si fermava e beveva. Questo avveniva anche trenta, quaranta volte in un chilometro.
Nelle taverne ci si fermava a duellare e a schiaffeggiarsi con i guanti. D'Artagnan sfidava e uccideva tutti quelli che sorprendeva a giocare a flipper, perché il rumore lo mandava in bestia.
In queste taverne, che avevano nomi come «Il Gallo d'oro», «L'oca irsuta», «Il Buco del diavolo», si beveva in coppe pesantissime alte fino a mezzo metro, intarsiate di rubini e zaffiri, con olive gigantesche come cocomeri.
Una variante celebre di queste taverne erano quelle dei pirati, dove si beveva quasi esclusivamente rhum. In verità i pirati andavano pazzi per il frappé: ma rozzi e adusi alla vita di mare, finivano sempre per piantarsi i cucchiaini negli occhi. Per questo il novanta per cento portava la famosa benda nera.
Molti finirono così distrutti dall'«acqua di fuoco», finché il famoso Morgan l'orbo non scoprì che il frappé si poteva bere anche con la cannuccia. Per questa intuizione la regina d'Inghilterra lo nominò baronetto e gli regalò un timone in similpelle leopardo.
Alcune di queste taverne erano leggendarie, come il «Cannone delle Antille», il cui proprietario era il famoso O'Shamrok. O'Shamrok aveva un pappagallo straordinario, Bozambo, che egli aveva addestrato a tenerlo sulla spalla. Cioè era il pappagallo che teneva sulla spalla O'Shamrok, il quale si teneva aggrappato con i piedi. Il pappagallo serviva i clienti in tre lingue e O'Shamrok fumava la pipa e si limitava a dire delle cretinate come «Shamrok vuole il brustolino» oppure «Shamrok dice buonasera. Eeeerk», e così via. In quella taverna si poteva entrare solo con una gamba di legno, o con un occhio di vetro, o con un uncino al posto della mano, tanto che c'era sempre un fabbro pronto a separare gli avventori che si salutavano. Il cliente
più gradito era l'Olonese, che era in realtà un comodino con un braccio e un cappello in testa. L'Olonese beveva ogni sera quattro pinte di rhum, che gli venivano versate nei cassetti. Quando era in vena di scherzi, spalancava lo sportello in fondo e mostrava l'orinale, provocando l'ilarità degli astanti. Morì a Maracaibo: i suoi si ammutinarono e di notte gli riempirono il letto di chiodi.
Un altro cliente abituale era il Corsaro Nero. Aveva una gamba di legno saldata male, e quando cambiava il tempo la giuntura gli dava delle fitte atroci. Quando ciò avveniva, il Nero perdeva la testa, cominciava a urlare e con la scimitarra si tagliava la gamba. Per questo uno dei suoi uomini lo seguiva sempre con una sacca da golf piena di gambe di ricambio. Il Corsaro Nero era molto vanitoso e ne aveva più di trecento, tutte di legno pregiato, da combattimento, da passeggio e da sera. Ne aveva anche una da affondamento, terminante in una pinna di tek.
Una sera che era molto ubriaco e aveva molto male, il Corsaro Nero prese la scimitarra e si tagliò la gamba buona. Sulle prime non volle ammettere l'errore e continuò a giocare stoicamente a chemin de fer. Verso mezzanotte, però, cominciò a dondolare sulla sedia e disse di non sentirsi bene. Per fortuna c'era lì un chirurgo, Almond l'assassino, che cosparse di whisky la ferita e disse: «Nero, tieni duro, adesso ti farò un po' di male». Il Corsaro disse: «Non ho paura del male. Ma cosa dirà mia madre?». Almond gli montò due gambe, ma una era più lunga, così il Corsaro stava in piedi un momento, poi precipitava a destra. Allora ne montò due uguali, ma una era scura e l'altra chiara e il Corsaro quando si vide allo specchio si mise a piangere. Finalmente riuscì a montarne due che andavano bene, ma proprio in quel momento entrarono gli sgherri dell'esercito inglese, capitanati da Nelson.Tutti i pirati riuscirono a fuggire scivolando con l'uncino lungo i fili del bucato. Solo il Corsaro restò fermo in mezzo alla sala con le gambe di legno, senza riuscire a muoversi. Nelson lo vide e disse: «Nero, cos'è, un altro dei tuoi sporchi trucchi?». Il Corsaro Nero replicò sardonico: «Bau», e cercò di scappare a quattro gambe. Fu preso e buttato nelle carceri, per essere impiccato l'indomani.
La Filibusta, quella sera, si riunì sulla nave dell'Olonese per studiare una maniera per liberare il Corsaro Nero. Ma dalla costa facevano i fuochi artificiali, e tutti si precipitarono in coperta a vederli, così nessuno si ricordò più dello sventurato. La mattina il Corsaro Nero si presentò sul palco dei condannati con un sorriso beffardo. Continuò a sorridere anche mentre gli mettevano il cappio attorno al collo. Infatti s'era fatto fare, durante la notte, due gambe di legno alte sei metri, e quando la botola si aprì lui restò in
piedi sui trampoli. Il boia dovette scendere sotto il palco con una sega. Ma intanto dalla nave dell'Olonese partì una bordata di cannonate che centrò in pieno il palco, e il Nero fuggì con la forca in spalla, arrivò fino al mare, rubò un gommone e tornò tra i suoi, che però si ammutinarono e lo fecero imbalsamare. Ma stiamo uscendo dall'argomento.
Passiamo quindi alla Rivoluzione francese: in questo periodo il bar ebbe veri momenti di fulgore. I nobili vi passavano quasi tutta la giornata.
Cristoforo Colombo era stato da poco in America, e appena sbarcato aveva visto gli indigeni che portavano al collo degli strani oggetti di ferro, a forma di cilindro con un piccolo becco. Gli indios, nel
loro dialetto, li chiamavano «napoletana», o «moka», che voleva dire «macchina-di-ferro-dal-nero-succo-che ti sveglia». Essi tenevano in questi cilindri un liquore denso e scuro, di cui bevevano quantità incredibili. Cristoforo Colombo volle assaggiarlo e subito disse: «Manca lo zucchero», poi propose una permuta, e si fece dare tre di queste macchine per trecento sveglie. Gli indigeni, soddisfatti, lo chiamarono «Bazuk» (uomo-bianco-che-fa-gli-affari-da-bestia), e fecero un balletto in suo onore.
Colombo tornò in Spagna, e appena giunto alla corte della regina Isabella, si chinò ai suoi piedi con la cuccuma in mano e le fece una grossa macchia sul vestito intarsiato di diamanti. La regina adirata disse: «Que fais?» (cosa fai?) anzi non disse proprio così, comunque da quel giorno la bevanda si chiamò Quefé e poi Caffè, anche se il popolo irriverente insisteva nel chiamarlo Cazzofè. Alla corte spagnola il caffè divenne subito di gran moda: ma potevano berlo solo gli uomini, poiché per le donne era considerato scandaloso farsi vedere con una tazzina in mano. In realtà, le dame della corrotta corte di Isabella tutte le notti, di nascosto scivolavano fuori del palazzo reale travestite da palafrenieri, e andavano a bere il caffè nella suburra. Un giorno il cuoco di palazzo, Olivares, sorprese la regina che di nascosto frugava nel bidone del rusco per raccattare una manciata di fondi. Per far tacere lo scandalo il re dovette nominarlo marchese e impiccarlo.
Dalla Spagna il caffè volò in Francia, dove divenne la bevanda preferita della nobiltà. Qui l'abate Sieyes, nota figura di taccagno,inventò il cappuccino, che originariamente al posto del latte aveva l'acqua.
I nobili francesi, come detto, davano triste spettacolo di sé passando tutto il tempo al bar e divertendosi a sputare i semi delle olive in testa al Terzo Stato. Il popolo fremeva, e Parigi era ormai una polveriera. La scintilla fu data da un episodio avvenuto al bar "Le Canard muscleton»; il marchese di Poissac, noto libertino, buttò una palla di gelato nella scollatura di una cameriera, e il marito di questa lo inseguì tra i tavolini e lo uccise. Subito il popolo, armato di forconi, scese in strada e si mise a fare scempio di artstocratici.
Il re, dato che la CIA non era ancora stata costituita, fu costretto a fuggire. Ma mentre stava già con una gamba sul davanzale della finestra, gli giunse la notizia che i rivoluzionari si erano riuniti
nella sala della pallacorda. Allora si precipitò trafelato, e infatti li trovò che giocavano, e stavano litigando perché Robespierre aveva sbagliato una schiacciata.
«Voglio giocare anch'io» disse il re, e tutti gli piombarono addosso e lo portarono alla ghigliottina.
Intanto, in Italia, Girolamo Savonarola bollava la corruzione della nobiltà e lanciava il caffè Hag. Il resto è storia dei giorni nostri.
AUTORE: Anna Frank
GENERE: Diario
TRAMA:
Il "Diario" della ragazzina ebrea che a tredici anni racconta gli orrori del Nazismo torna in una nuova edizione integrale, curata da Otto Frank e Mirjam Pressler, e nella versione italiana da Frediano Sessi, con la traduzione di Laura Pignatti e la prefazione dell'edizione del 1964 di Natalia Ginzburg. Frediano Sessi ricostruisce in appendice gli ultimi mesi della vita di Anna e della sorella Margot, sulla base delle testimonianze e documenti raccolti in questi anni.
INCIPIT:
Domenica, 14 giugno 1942.
Venerdì 12 giugno ero già sveglia alle sei: si capisce, era il mio compleanno! Ma alle sei non mi era consentito d'alzarmi, e così dovetti frenare la mia curiosità fino alle sei e tre quarti. Allora non potei più tenermi e andai in camera da pranzo, dove Moortje, il gatto, mi diede il benvenuto strusciandomi addosso la testolina.
Subito dopo le sette andai da papà e mamma e poi nel salotto per spacchettare i miei regalucci. Il primo che mi apparve fosti tu, forse uno dei più belli fra i miei doni. Poi un mazzo di rose, una piantina, due rami di peonie: ecco i figli di Flora che stavano sulla mia tavola quella mattina; altri ancora ne giunsero durante il giorno.
Da papà e mamma ebbi ina quantità di cose, e anche i nostri numerosi conoscenti mi hanno veramente viziata. Fra l'altro ricevetti un gioco di società, molte ghiottonerie, cioccolata, un "puzzle", una spilla, la "Camera Obscura" di Hildebrand, le Leggende Olandesi" di Joseph Cohen, le "Vacanze di Montagna di Daisy", un libro straordinario, e un po' di denaro, così che mi potrò comperare i "Miti di Grecia e di Roma". Che bellezza!
Poi Lies venne a prendermi e andammo a scuola. Nell'intervallo offrii dei biscottini ai professori e ai compagni e poi ci rimettemmo al lavoro.
Ora devo smettere di scrivere. Diario mio, ti trovo tanto bello!
Lunedì, 15 giugno 1942.
Nel pomeriggio di domenica ho festeggiato il mio compleanno. Fu proiettato un film, "Il guardiano del faro", con Rin-tin-tin, che è piaciuto molto ai miei compagni di scuola. Ci divertimmo molto e ci trovammo perfettamente affiatati. C'era una quantità di ragazzi e ragazze. Mamma vuol sempre sapere chi sposerò. Non sospetta nemmeno che sia Peter Wessel, perché una volta con una gran faccia tosta sono riuscita a furia di chiacchiere a toglierle quell'idea dalla testa. Lies Goosens e Sanne Houtman sono state per anni le mie migliori amiche. Poi ho conosciuto Jopie de Waal al Liceo ebraico. Ora è lei la mia migliore amica, e stiamo molto insieme. Lies è più legata con un'altra ragazza e Sanne è passata in un'altra scuola, dove ha fatto nuove amicizie.
Sabato, 20 giugno 1942.
Per alcuni giorni non ho scritto nulla, perché prima ho voluto riflettere un poco su questa idea del diario. Per una come me, scrivere un diario fa un curioso effetto. Non soltanto perché non ho mai scritto, ma perché mi sembra che più tardi né io né altri potremo trovare interessanti gli sfoghi di una scolaretta di tredici anni. Però, a dire il vero, non è di questo che si tratta; a me piace scrivere e soprattutto aprire il mio cuore su ogni sorta di cose, a fondo e completamente.
"La carta è più paziente degli uomini"; rimuginavo entro di me questa massima in una delle mie giornate un po' melanconiche mentre sedevo annoiata colla testa fra le mani, incerta se uscire o restare in casa, e finivo col rimanermene nello stesso posto a fantasticare. Proprio così, la carta è paziente, e siccome non ho affatto intenzione di far poi leggere ad altri questo quaderno rilegato di cartone che porta il pomposo nome di "diario", salvo il caso che mi capiti un giorno di trovare un amico o un'amica che siano veramente "l'amico" o "l'amica", così la faccenda non riguarda che me. Eccomi al punto da cui ha preso origine quest'idea del diario: io non ho un'amica.
Per essere più chiara debbo aggiungere una spiegazione, giacché nessuno potrebbe credere che una ragazza di tredici anni sia sola al mondo. Neppur questo è vero: ho dei cari genitori e una sorella di sedici anni; conosco, tutto sommato, una trentina di ragazze di alcune delle quali potreste dire che sono mie amiche, ho un corteo di adoratori che mi guardano negli occhi e, se non possono fare altrimenti, in classe cercano di afferrare la mia immagine servendosi di uno specchietto tascabile. Ho dei parenti, care zie e cari zii, un buon ambiente familiare; no, apparentemente non mi manca nulla, salvo "l'amica". Con nessuno dei miei conoscenti posso far altro che chiacchiere, né parlar d'altro che dei piccoli fatti quotidiani. Non c'è modo di diventare più intimi, ecco il punto. Forse questa mancanza di confidenza è colpa mia; comunque è una realtà, ed è un peccato non poterci far nulla.
Perciò questo diario. Allo scopo di dar maggior rilievo nella mia fantasia all'idea di un'amica lungamente attesa, non mi limiterò a scrivere i fatti nel diario, come farebbe qualunque altro, ma farò del diario l'amica, e l'amica si chiamerà Kitty. Perché la finzione del mio racconto a Kitty non sembri troppo spinta e grossolana, bisogna che prima racconti brevemente la storia della mia vita, sebbene a malincuore.
Mio padre aveva trentasei anni quando sposò mia madre che ne aveva venticinque. Mia sorella Margot nacque nel 1926 a Francoforte sul Meno; venni poi io il 12 giugno 1929, e siccome siamo ebrei puri, nel 1933 emigrammo in Olanda, dove mio padre fu assunto come direttore della Travies N. V. Questa è in stretta relazione con la ditta Kolen E C., che ha sede nello stesso edificio, e di cui papà è socio.
La nostra vita trascorse in un'inevitabile ansia, perché la parte della famiglia rimasta in Germania non fu risparmiata dalle leggi antisemitiche di Hitler. Nel 1938, dopo i "pogrom", fuggirono i miei due zii, fratelli di mia madre, che si posero in salvo negli Stati Uniti. La mia vecchia nonna venne da noi: aveva allora settantatré anni. I bei tempi finirono nel maggio 1940; prima la guerra, la capitolazione, l'invasione tedesca, poi cominciarono le sventure per noi ebrei. Le leggi antisemitiche si susseguivano l'una all'altra. Gli ebrei debbono portare la stella giudaica. Gli ebrei debbono consegnare le biciclette. Gli ebrei non possono salire in tram, gli ebrei non possono più andare in auto. Gli ebrei non possono fare acquisti che fra le tre e le cinque, e soltanto dove sta scritto "bottega ebraica". Gli ebrei dopo le otto di sera non possono essere per strada, né trattenersi nel loro giardino o in quello di conoscenti. Gli ebrei non possono andare a teatro, al cinema o in altri luoghi di divertimento, gli ebrei non possono praticare sport all'aperto, ossia non possono frequentare piscine, campi di tennis o di hockey eccetera. Gli ebrei non possono nemmeno andare a casa di cristiani. Gli ebrei debbono studiare soltanto nelle scuole ebraiche. E una quantità ancora di limitazioni del genere. Così trascorreva la nostra piccola vita, e questo non si poteva e quello non si poteva. Jopie è sempre contro di me: «Non posso far niente con te, perché ho paura che non sia permesso». La nostra libertà è dunque assai ridotta, ma si può ancora resistere.
La nonna morì nel gennaio 1942: nessuno sa quanto io pensi a lei e quanto ancora le voglia bene.
Fin dal 1934 ero entrata nel giardino d'infanzia della scuola Montessori, e ho poi continuato nello stesso istituto. Nella Sesta B ebbi come insegnante la direttrice, la signora K.: alla fine dell'anno, nel separarci, eravamo molto commosse e piangevamo tutt'e due. Nel 1941 mia sorella Margot e io fummo trasferite al Liceo ebraico, lei in quarta e io in prima. Finora a noi quattro è andata discretamente bene. Ed eccomi giunta alla data d'oggi.
AUTORE: Italo Calvino
GENERE: Romanzo
TRAMA:
l narratore ripercorre la lunga vicenda del fratello, Cosimo di Rondò, vissuto nella seconda metà del XVIII secolo a Ombrosa, in Liguria. Cosimo, per sfuggire a una punizione inflittagli dai suoi educatori, decide di salire su un albero per non ridiscendere mai più. Cosimo si costruisce un mondo aereo dove diversi personaggi della cultura e della politica (Napoleone compreso) lo vanno a trovare, testimoniandogli la loro ammirazione. Vive anche una tormentata storia d'amore con la volubile Viola. Cosimo muore vecchio, senza mai discendere in terra: ammalato, in punto di morte, si aggrappa alla fune di una mongolfiera e scompare mentre attraversa, così appeso, il mare.
INCIPIT:
Fu il 15 di giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per l’ultima volta in mezzo a noi. Ricordo come fosse oggi. Eravamo nella sala da pranzo della nostra villa d’Ombrosa, le finestre inquadravano i folti rami del grande elce del parco. Era mezzogiorno, e la nostra famiglia per vecchia tradizione sedeva a tavola a quell’ora, nonostante fosse già invalsa tra i nobili la moda, venuta dalla poco mattiniera Corte di Francia, d’andare a desinare a metà del pomeriggio. Tirava vento dal mare, ricordo, e si muovevano le foglie. Cosimo disse: - Ho detto che non voglio e non voglio! - e respinse il piatto di lumache. Mai s’era vista disubbidienza più grave.
A capotavola era il Barone Arminio Piovasco di Rondò, nostro padre, con la parrucca lunga sulle orecchie alla Luigi XIV, fuori tempo come tante cose sue. Tra me e mio fratello sedeva l’Abate Fauchelafleur, elemosiniere della nostra famiglia ed aio di noi ragazzi. Di fronte avevamo la Generalessa Corradina di Rondò, nostra madre, e nostra sorella Battista, monaca di casa. All’altro capo della tavola, rimpetto a nostro padre, sedeva, vestito alla turca, il Cavalier Avvocato Enea Silvio Carrega, amministratore e idraulico dei nostri poderi, e nostro zio naturale, in quanto fratello illegittimo di nostro padre.
Da pochi mesi, Cosimo avendo compiuto i dodici anni ed io gli otto, eravamo stati ammessi allo stesso desco dei nostri genitori; ossia, io avevo beneficiato della stessa promozione di mio fratello prima del tempo, perché non vollero lasciarmi di là a mangiare da solo. Dico beneficiato così per dire: in realtà sia per Cosimo che per me era finita la cuccagna, e rimpiangevamo i desinari nella nostra stanzetta, noi due soli con l’Abate Fauchelafleur. L’Abate era un vecchietto secco e grinzoso, che aveva fama di giansenista, ed era difatti fuggito dal Delfìnato, sua terra natale, per scampare a un processo dell’Inquisizione.
Ma il carattere rigoroso che di lui solitamente tutti lodavano, la severità interiore che imponeva a sé e agli altri, cedevano continuamente a una sua fondamentale vocazione per l’indifferenza e il lasciar correre, come se le sue lunghe meditazioni a occhi fìssi nel vuoto non avessero approdato che a una gran noia e svogliatezza, e in ogni difficoltà anche minima vedesse il segno d’una fatalità cui non valeva opporsi. I nostri pasti in compagnia dell’Abate cominciavano dopo lunghe orazioni, con movimenti di cucchiai composti, rituali, silenziosi, e guai a chi alzava gli occhi dal piatto o faceva anche il più lieve risucchio sorbendo il brodo; ma alla fine della minestra l’Abate era già stanco, annoiato, guardava nel vuoto, schioccava la lingua a ogni sorso di vino, come se soltanto le sensazioni più superficiali e caduche riuscissero a raggiungerlo; alla pietanza noi già ci potevamo mette-, re a mangiare con le mani, e finivamo il pasto tirandoci torsoli di pera, mentre l’Abate faceva cadere ogni tanto uno dei suoi pigri: - ... Ooo bien!... Ooo alors!
Adesso, invece, stando a tavola con la famiglia, prendevano corpo i rancori familiari, capitolo triste dell’infanzia. Nostro padre, nostra madre sempre lì davanti, l’uso delle posate per il pollo, e sta’ dritto, e via i gomiti dalla tavola, un continuo! e per di più quell’antipatica di nostra sorella Battista. Cominciò una serie di sgridate, di ripicchi, di castighi, d’im- puntature, fino al giorno in cui Cosimo rifiutò le lumache e decise di separare la sua sorte dalla nostra.
Di quest’accumularsi di risentimenti familiari mi resi conto solo in seguito: allora avevo otto anni, tutto mi pareva un gioco, la guerra di noi ragazzi contro i grandi era la solita di tutti i ragazzi, non capivo che l’ostinazione che ci metteva mio fratello celava qualcosa di più fondo.
Il Barone nostro padre era un uomo noioso, questo è certo, anche se non cattivo: noioso perché la sua vita era dominata da pensieri stonati, come spesso succede nelle epoche di trapasso. L’agitazione dei tempi a molti comunica un bisogno d’agitarsi anche loro, ma tutto all’incontrario, fuori strada: così nostro padre, con quello che bolliva allora in pentola, vantava pretese al titolo di Duca d’Ombrosa, e non pensava ad altro che a genealogie e successioni e rivalità e alleanze con i potentati vicini e lontani.
Perciò a casa nostra si viveva sempre come si fosse alle prove generali d’un invito a Corte, non so se quella dell’Imperatrice d’Austria, di Re Luigi, o magari di quei montanari di Torino. Veniva servito un tacchino, e nostro padre a guatarci se lo scalcavamo e spolpavamo secondo tutte le regole reali, e l’Abate quasi non ne assaggiava per non farsi cogliere in fallo, lui che doveva tener bordone a nostro padre nei suoi rimbrotti. Del Cavalier Avvocato Carrega, poi, avevamo scoperto il fondo d’animo falso: faceva sparire cosciotti interi sotto le falde della sua zimarra turca, per poi mangiarseli a morsi come piaceva a lui, nascosto nella vigna; e
noi avremmo giurato (sebbene mai fossimo riusciti a coglierlo sul fatto, tanto leste erano le sue mosse) che venisse a tavola con una tasca piena d’ossicini già spolpati, da lasciare nel suo piatto al posto dei quarti di tacchino fatti sparire sani sani. Nostra madre Generalessa non contava, perché usava bruschi modi militari anche nel servirsi a tavola, - So, Noch ein wenig! Gut! - e nessuno ci trovava da ridire; ma con noi teneva, se non all’etichetta, alla disciplina, e dava man forte al Barone coi suoi ordini da piazza d’armi, - Sitz’ ruhig! E pulisciti il muso! - L’unica che si trovasse a suo agio era Battista, la monaca di casa, che scarnificava pollastri con un accanimento minuzioso, fibra per fibra, con certi coltellini appuntiti che aveva solo lei, specie di lancette da chirurgo. Il Barone, che pure avrebbe dovuto portarcela ad esempio, non osava guardarla, perché, con quegli occhi stralunati sotto le ali della cuffia inamidata, i denti stretti in quella sua gialla faccina da topo, faceva paura anche a lui. Si capisce quindi come fosse la tavola il luogo dove venivano alla luce tutti gli antagonismi, le incompatibilità tra noi, e anche tutte le nostre follie e ipocrisie; e come proprio a tavola si determinasse la ribellione di Cosimo. Per questo mi dilungo a raccontare, tanto di tavole imbandite nella vita di mio fratello non ne troveremo più, si può esser certi.
Era anche l’unico posto in cui ci incontravamo coi grandi. Per il resto della giornata nostra madre stava ritirata nelle sue stanze a fare pizzi e ricami e fìlé, perché la Generalessa in verità solo a questi lavori tradizionalmente donneschi sapeva accudire e solo in essi sfogava la sua passione guerriera. Erano pizzi e ricami che rappresentavano di solito mappe geografìche; e stesi su cuscini o drappi d’arazzo, nostra madre li punteggiava di spilli e bandierine, segnando i piani di battaglia delle Guerre di Successione, che conosceva a menadito.
AUTORE: Alessandro Piperno
GENERE: Romanzo
TRAMA:
Inseparabili, come i pappagallini che non sanno vivere se non insieme: questo sono sempre stati i fratelli Pontecorvo, Filippo e Samuel, diversissimi e complementari. Ma ecco che i loro destini sembrano invertirsi e qualcosa si incrina. L'indolente Filippo diventa un cartoonist dal successo planetario, il brillante Samuel si avvita nella spirale di un vertiginoso fallimento lavorativo e sentimentale... Una famiglia intera alla resa dei conti: quando la fama, la ricchezza, il sesso, l'amore non contano più nulla, che cosa ancora dà senso alla vita?
INCIPIT:
Prima parte
E' SUCCESSO!
Basta frequentare se stessi con assiduità per capire che, se gli altri ti somigliano, be’, allora degli altri non c’è da fidarsi.
Da una vita Filippo Pontecorvo non faceva che ripeterselo. Per questo non era così sorpreso che Anna, sua moglie, da quando aveva saputo che il cartone animato del marito – prodotto con pochi spiccioli e senza grandi pretese – era stato selezionato alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes, per ritorsione gli avesse inflitto il più drastico sciopero sessuale che il loro strambo matrimonio avesse mai conosciuto. Peccato che tanta consapevolezza non alle- viasse in lui lo sconforto: semmai lo incrementava subdolamente.
Da un mese e mezzo ormai, Anna fomentava bellicosi picchetti davanti alla prospera fabbrica della loro intimità. E sebbene per un tizio come Filippo, con un debole per il bistrattato sesso coniugale, si trattasse di un vero castigo, tale sabotaggio non lo aveva mai fatto arrabbiare come quel giorno di maggio. Se ne stava lì, nella penombra pomeridiana della stanza da letto, a riempire la sacca militare coi suoi stracci in vista della partenza per Cannes dell’indomani. Chissà perché, avvertiva un senso di nausea, neanche si stesse preparando per una missione in Afghanistan.
Fuori pioveva a dirotto. Dentro Filippo si sentiva affogare. Da qualche minuto stava cercando di consolarsi con una tecnica da lui stesso messa a punto, tanto collaudata quanto inefficace. Consisteva nel fare un benevolo bilancio di vita: un consuntivo che, almeno nelle intenzioni di chi lo stilava, avrebbe dovuto sprizzare ettolitri di irragionevole ottimismo.
Dunque, vediamo un po’: aveva quasi trentanove anni, un’età pericolosa ma niente male. Stava per partecipare a un’importante kermesse. Disponeva di un numero invidiabile di pantaloni mimetici, in ricordo della sola esperienza luminosa della sua esistenza: sottotenente nei fucilieri assaltatori alla caserma di Cesano.
Malgrado, secondo gli antiquati canoni della madre, non avesse combinato quasi niente nella vita, Filippo non si sentiva scontento di sé. Anzi, gli pareva di aver saputo imprimere una certa classe a tutta quell’inerzia.
Sposare la figlia di un milionario era stato un colpo da maestro. Anna si occupava della sua sussistenza con la stessa irrefutabile solerzia con cui, per un sacco di tempo, se n’era occupata la madre. Eppure, anche se indossare i panni del mantenuto non lo umiliava più di tanto, cionondimeno gli dispiaceva che la maggior parte dei loro conoscenti liquidasse l’unione tra lui e Anna come un matrimonio di interesse. La verità è che Filippo aveva iniziato ad amare Anna Cavalieri molto prima di incontrarla. E questa era la cosa più romantica che fosse capitata a entrambi.
Le donne: altro capitolo da cui trarre consolazione. Filippo non era un tipino come suo fratello Samuel, tutto frigido e schifiltoso. Di quelli che, per rendere a letto, hanno bisogno d’un bungalow a cinque stelle vista oceano. Intendiamoci: non che avessero mai discusso certi argomenti, ma qualcosa gli diceva che il fratellino avesse divorato troppi film con Fred Astaire e Gene Kelly per essere un grande scopatore. Lui, invece, almeno in quel ramo, se la cavava egregiamente: anche nelle circostanze più squallide e con le partner meno appetitose.
Filippo evitò di conteggiare – nella lista delle cose-di-cui-essere- fiero – la laurea in Medicina, conseguita con fatica indicibile grazie allo sprone di una specie di vocazione dinastica: il padre era stato un oncologo pediatrico di fama internazionale, da anni la madre era la geriatra più in voga nei circoli bocciofili orbitanti intorno all’Oliata.
Si guardò bene inoltre dall’includere il periodo trascorso in Bangladesh nelle file di Medici Senza Frontiere, un’avventura pe- nosa in tutti i sensi, anche se gli aveva fornito la maggior parte del materiale per il suo cartone animato.
In compenso rivalutò in extremis la stupefacente capacità di imitare, con mano felice, i disegni dei grandi venerati maestri dei comics. Dopotutto, il primo vero riconoscimento della sua vita si doveva proprio a quel velleitario talento. Se stava preparando la sacca per Cannes era perché a Gilles Jacob, il leggendario patron del festival più leggendario del pianeta, non era dispiaciuto il suo cartone animato.
Uscì dalla camera. Percorse il corridoio che divideva – stando al gergo di Raffaele, l’architetto di grido che aveva curato la ristrutturazione della casa – la zona notte dalla zona giorno. Il passo imperioso con cui marciava verso la cucina la diceva lunga sulla bellicosità delle sue intenzioni alimentari. Uno spuntino dei suoi, qualcosa che placasse l’inquietudine e rimettesse in moto i neuroni.
La cucina era il solo spazio domestico su cui Filippo aveva messo becco. Una cosa che condivideva con la moglie era il disinteres- se per i beni materiali: non c’era niente che meno rappresentasse quella coppia di eccentrici sbandati della casa in cui vivevano. Tanto è vero che il suo acquisto, nonché la dispendiosa ristrutturazione, erano stati uno degli imprevisti e non così graditi regali del dottor Cavalieri, il padre di Anna. Mentre Filippo aveva accolto il dono con il solito fatalismo, Anna era stata lì lì per rifiutarlo: il quartiere (ogni anno un po’ più esclusivo e un po’ meno intellettuale) era infestato da attrici per cui provava un odio omicida, e che aveva il terrore di incontrare al supermarket.
Il villino sorgeva in una delle vie più appartate di Monteverde. Una palazzina liberty di un color zabaione vagamente lezioso, ma del tutto appropriato al boschetto di magnolie in cui era immersa. Il caro Raffaele, benché frustrato dal disinteresse dei committenti per l’interior design, ce l’aveva messa tutta per conferire ai trecento metri quadrati la squisitezza giapponese che forse sarebbe stata più adeguata a single professionalmente soddisfatti e sessualmente carismatici. Niente tende, pareti chiare, pavimenti coperti di tatami, arredo rado fin quasi all’ascetismo monastico, uno schermo Sony di settanta pollici che svaniva in una parete attrezzata piena dei dvd della moglie e dei fumetti del marito.
Nessuna di quelle scelte stilistiche era stata dettata né avallata da Filippo. Perché, per l’appunto, l’unica stanza che gli premeva era la cucina. Dalle sue proposte, si capiva che Raffaele era molto più interessato alla tinta acida del frigorifero Smeg che alla sua capienza. E questo Filippo non poteva tollerarlo. Per lui ciò che rendeva una cucina degna di questo nome era un grande – ma che dico grande? –, un enorme tavolo da lavoro piazzato in mezzo alla stanza, che invogliasse a cucinare per un reggimento.
E l’aveva ottenuto.
Era proprio all’adorato tavolo da lavoro, delle dimensioni di una piazza d’armi, che Filippo stava ora chiedendo di aiutarlo a scacciare l’insoddisfazione. Era intento a preparare una dozzina di crostini. Aveva acceso il forno. Tagliato in due una manciata di panini al latte. Li aveva poggiati sopra a una teglia, cospargendoli di pomodoro, mozzarella, pasta d’acciughe, olio, pepe e basilico. Ogni tanto si attaccava al collo di una Heineken. Aveva acceso la radio per ascoltare una di quelle trasmissioni in cui si parla di calcio per tutto il pomeriggio.
Mentre, con gesto consumato, infilava la teglia nel forno a colonna, Filippo capì che se lui stava così male, la colpa era di Cannes. E dire che aveva fatto ogni sforzo affinché questa opportunità non modificasse di un millimetro l’idea di sé che aveva impiegato una vita intera a formarsi. E perché mai avrebbe dovuto modificargliela? Erode e i suoi pargoli – questo il titolo del film –, da brava opera d’esordio, non era che la cronaca disorganica, goffamente camuffata, della sua esperienza di cooperante umanitario e medi- co di frontiera, condita con una serie di grandiose balle autopro- mozionali. Il protagonista era un tizio con barba incolta e panta- loni mimetici, straordinariamente simile alla versione palestrata dell’autore in persona. Più che un medico sembrava un supereroe che combatteva valorosamente, tentando di riportare l’ordine in Le mille avventure di questo supereroe sui generis erano inter- vallate dai suoi sogni apocalittici, a mio parere un po’ troppo didascalici, nei quali venivano affastellati celebri infanticidi: dal ten- tato omicidio di Isacco fino ai martiri di Beslan. Inoltre Filippo aveva usato quel film per raccontare se stesso in forma autoironica e dissacrante: persino il fratello e la madre comparivano in un tenero cammeo.
Tutto ciò per dire che avrebbe dovuto attendere qualche altro decennio prima di avere di nuovo qualcosa d’interessante su cui pontificare. E visto che il divertimento che lo aveva assistito durante il concepimento di quell’opera prima si era, per così dire, in essa esaurito, Filippo non aveva alcuna intenzione di produrne una seconda, né una terza e così via... L’idea di intraprendere una carriera i cui primi passi gli erano costati, almeno per i suoi gusti, tutta quella fatica, non lo allettava per niente.
Aveva senso infettare il benessere conquistato grazie a una lun- ga indolenza con il germe dell’ambizione? Aveva senso, raggiun- to un grado di saggezza che nel corso dei millenni uomini molto più in gamba di lui avevano soltanto saputo invocare, mandare a puttane tanta sapienza?
No che non ne aveva.