lunedì 27 febbraio 2012

Il prigioniero del cielo

AUTORE: Carlos Ruiz Zafón
GENERE: Romanzo

TRAMA:

Barcellona, dicembre 1957. Nella libreria dei Sempere entra un individuo misterioso che acquista una preziosa edizione del Conte di Montecristo e la lascia in custodia a Daniel perché la consegni al suo amico Fermin. Il libro porta una dedica inquietante: "Per Fermin Romero de Torres, che è riemerso tra i morti e ha la chiave del futuro", firmato "13". Tra malintesi, imbrogli e minacciosi ricordi dal passato inizia l'indagine di Daniel per decifrare quella dedica enigmatica e capire quali segreti nasconde il suo fedele amico. Prima di potersene rendere conto, il giovane libraio viene catapultato in un passato che lo riguarda da vicino, dove la morte di sua madre Isabella si lega al destino di David Martin, il grande scrittore che dal carcere scrive Il gioco dell'angelo, e a quello del perfido editore Mauricio Valls, una vecchia conoscenza degli anni di carcere di Fermin. Quello che Daniel scoprirà non rimarrà senza effetti sulla sua vita, molte domande rimaste in sospeso avranno una risposta e lui si troverà in mano, inaspettatamente, la possibilità di vendicarsi.


INCIPIT:
Barcellona, dicembre 1957

Quell’anno, prima di Natale, ci toccarono soltanto giorni plumbei e ammantati di brina. Una penombra azzurrata avvolgeva la città e la gente camminava in fretta coperta fino alle orecchie, disegnando con il fiato veli di vapore nell’aria gelida. Erano pochi coloro che in quei giorni si fermavano a guardare la vetrina di Sempere e Figli, e ancora meno quelli che si avventuravano a entrare per chiedere di quel libro sperduto che li aveva aspettati per tutta la vita, e la cui vendita, poesie a parte, avrebbe contribuito a rappezzare le precarie finanze della libreria.
“Sento che oggi sarà il giorno giusto. Oggi cambierà la nostra sorte” proclamai sulle ali del primo caffè della giornata, puro ottimismo allo stato liquido.
Mio padre, che battagliava dalle otto di quella mattina con il registro della contabilità destreggiandosi abilmente con gomma e matita, alzò gli occhi dal bancone e osservò la sfilata di clienti mancati che si perdevano dietro l’angolo.
“Il cielo ti ascolti, Daniel, perché di questo passo, se va male la campagna di Natale, a gennaio non avremo nemmeno i soldi per la bolletta della luce. Qualcosa dovremo pur fare.”
“Ieri Fermìn ha avuto un’idea” dissi. “Secondo lui, è un piano magistrale per salvare la libreria dalla bancarotta imminente.”
“Che Dio ci colga confessati e comunicati.”
Citai testualmente:
“Magari, se mi mettessi a decorare la vetrina in mutande, qualche femmina avida di letteratura e di emozioni forti entrerebbe a spendere soldi, perché, dicono gli esperti, il futuro della letteratura dipende dalle donne e Dio sa che non ancora nata una signorina in grado di resistere all’attrazione agreste di questo corpo da montanaro” recitai.
Sentii alle mie spalle la matita di mio padre cadere a terra e mi voltai.
“Fermin dixit” aggiunsi.
Avevo pensato che mio padre avrebbe sorriso della travata di Fermìn, ma quando mi accorsi che non sembrava risvegliarsi dal suo silenzio lo guardai di sottecchi. Sempere senior non solo non sembrava divertito da quello sproposito, ma aveva assunto n’espressione meditabonda, come se volesse prenderlo sul serio.
“Ma tu guarda, magari Fermìn ci ha azzeccato” mormorò.
Lo osservai incredulo. Forse le difficoltà economiche che ci avevano colpito nelle ultime settimane avevano finito per compromettere il senno del mio progenitore.
“Non mi dire che gli permetterai di andare a spasso in mutande in libreria.”
“No, non è questo. E’ la vetrina. Mentre parlavi, mi è venuta un’idea…Forse siamo ancora in tempo a salvare il Natale…”
Lo vidi scomparire nel retrobottega e riemergere equipaggiato con la sua uniforme ufficiale per l’inverno: lo stesso cappotto, la stessa sciarpa e lo stesso cappello che ricordavo da bambino. Bea diceva di sospettare che mio padre non comprasse vestiti dal 1942, e tutti gli indizi portavano a ritenere che mia moglie avesse ragione. Mentre si infilava i guanti, sorrideva vagamente e nei suoi occhi si percepiva quello scintillio quasi infantile che riuscivano a strappargli solo le grandi imprese.
“Ti lascio da solo per un po’” annunciò. “ Esco a fare una commissione”.
“Posso chiederti dove stai andando?”
Mio padre mi fece l’occhiolino.
“E’ una sorpresa. Poi vedrai.”
Lo seguii fino alla porta e lo vidi partire a passo fermo in direzione della Puerta del Angel, una sagoma fra le tante nella marea grigia di passanti che navigava per un altro lungo inverno di cenere e d’ombra.

Approfittando del fatto di essere rimasto solo, decisi di accendere la radio per assaporare un po’ di musica mentre riordinavo con calma i libri sugli scaffali. Mio padre era dell’opinione che tenere la radio accesa in libreria quando c’erano clienti fosse di cattivo gusto; se invece la accendevo in presenza di Fermìn, lui si lanciava a canticchiare strofette sulla musica di qualunque melodia – o, peggio ancora, a ballare ciò che definiva “ sensuali ritmi caraibici” – e dopo pochi minuti mi faceva venire i nervi a fior di pelle.
Tenuto conto di quelle difficoltà pratiche, ero arrivato alla conclusione che avrei dovuto limitare il piacere procuratomi dalle onde hertziane ai rari momenti in cui in negozio, a parte me e svariate decine di migliaia di libri, non c’era più nessuno.
Quella mattina Radio Barcelona trasmetteva la registrazione pirata, fatta da un collezionista, del magnifico concerto che il trombettista Louis Armstrong e il suo gruppo avevano tenuto tre Natali prima all’Hotel Windsor Palace della Diagonal. Negli intervalli pubblicitari, il conduttore si affannava a etichettare quei suoni come gez e avvertiva che alcune delle loro sincopi procaci potevano non essere adatte alle orecchie dell’ascoltatore nazionale, forgiato nella tonadilla, nel bolero e nell’incipiente movimento yè-yè che dominavano le trasmissioni di quegli anni.
Fermìn era solito dire che, se don Isaac Albèniz fosse nato negro, il jazz sarebbe stato inventato a Camprodòn, come i biscotti in scatola, e che, al pari dei reggiseni a punta che sfoggiava la sua adorata Kim Novak in qualcuno dei film che vedevamo ai matinè del cinema Fèmina, quei suoni costituivano una delle rare conquiste dell’manità a partire dall’inizio del XX secolo. Non l’avrei contraddetto. Lasciai trascorrere il resto della mattinata tra la magia di quella musica e il profumo dei libri, assaporando la serenità e al soddisfazione procurata da un lavoro fatto bene.
A quanto aveva affermato, Fermìn si era preso la mattina libera per ultimare i preparativi del matrimonio con Bernarda, previsto per l’inizio di febbraio. Quando ne aveva parlato, due settimane prima, gli avevamo detto tutti che stava precipitando le cose e che la fretta è una brutta bestia. Mio padre aveva cercato di convincerlo a rimandare quell’unione di almeno un paio di mesi, argomentando che di solito le nozze si svolgevano d’estate, con il bel tempo, ma Fermìn aveva insistito su quella data sostenendo che lui, esemplare abituato all’inclemente clima secco delle colline dell’Estremadura, sudava a profusione durante l’estate, a suo giudizio semitropicale, della costa mediterranea e non riteneva conforme alle buone regole celebrare matrimonio con chiazze di sudore grandi come tegami sotto le ascelle.




4 commenti:

  1. non vedo l'ora di leggerlo...attendevo questo nuovo libro della quadrilogia da secoli...

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  2. Il romanzo mi è piaciuto, ma devo ammettere che "L'ombra del vento" non si supera...

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  3. Alla fine sembra proprio che ci sia un altro in arrivo... non vedo l'ora

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