GENERE: Romanzo storico
TRAMA:
Don Fabrizio, principe di Salina, all'arrivo dei Garibaldini, sente inevitaile il declino e la rovina della sua classe. Approva il matrimonio del nipote Tancredi, senza più risorse economiche, con la figlia, che porta con sé una ricca dote, di Calogero Sedara, un astuto borghese. Don Fabrizio rifiuta però il seggio al Senato che gli viene offerto, ormai disincantato e pessimista sulla possibile sopravvivenza di una civiltà in decadenza e propone al suo posto proprio il borghese Calogero Sedara.
INCIPIT:
CAPITOLO PRIMO.
Rosario e presentazione del Principe, il giardino e il soldato morto.
Le udienze reali. La cena. In vettura per Palermo. Andando da Mariannina. Il ritorno a San Lorenzo. Conversazione con Tancredi. In Amministrazione: i feudi, e i ragionamenti politici. In osservatorio con padre Pirrone. Distensione al pranzo. Don Fabrizio e i contadini. Don Fabrizio e il figlio Paolo. La notizia dello sbarco e di nuovo il Rosario.
Nunc et in hora mortis nostrae. Amen.
La recita quotidiana del Rosario era finita. Durante mezz'ora la voce pacata del Principe aveva ricordato i Misteri Gloriosi e Dolorosi; durante mezz'ora altrevoci, frammiste, avevano tessuto un brusio ondeggiante sul quale si erano distaccati i fiori d'oro di parole inconsuete: amore, verginità, morte; e durante quel brusio il salone rococò sembrava aver mutato aspetto; financo i pappagalli che spiegavano le ali iridate sulla seta del parato erano apparsi intimiditi; perfino la Maddalena, fra le due finestre, era sembrata una penitente anziché una bella biondona, svagata in chissà quali sogni, come la si vedeva sempre.
Adesso, taciutasi la voce, tutto rientrava nell'ordine, nel disordine, consueto. Dalla porta attraverso la quale erano usciti i servi, l'alano Bendicò, rattristato dalla propria esclusione, entrò e scodinzolò. Le donne si alzavano lentamente, e l'oscillante regredire delle loro sottane lasciava a poco a poco scoperte le nudità mitologiche che si disegnavano sul fondo latteo delle mattonelle. Rimase coperta soltanto
un'Andromeda cui la tonaca di padre Pirrone, attardato in sue orazioni supplementari, impedí per un bel po' di rivedere l'argenteo Perseo che sorvolando i flutti si affrettava al soccorso ed al bacio.
Nell'affresco del soffitto si risvegliavano le divinità. Le ere di Tritoni e di Driadi, che dai monti e dai mari fra nuvole lampone e ciclamino si precipitavano verso una trasfigurata Conca d'Oro per esaltare la gloria di casa Salina, apparvero di subito tanto colme di esultanza da trascurare le piú semplici regole prospettiche; e gli Dei maggiori, i Principi fra gli Dei, Giove folgorante, Marte accigliato, Venere languida, che avevano preceduto le turbe dei minori, sorreggevano di buon grado lo scudo azzurro col Gattopardo.
Essi sapevano che per ventitré ore e mezza, adesso, avrebbero ripreso la signoria della villa. Sulle pareti le bertucce ripresero a far sberleffi ai cacatoés.
Al di sotto di quell'Olimpo palermitano anche i mortali di casa Salina discendevano in fretta giú dalle sfere mistiche. Le ragazze raggiustavano le pieghe delle vesti, scambiavano occhiate azzurrine e parole in gergo di educandato; da piú di un mese, dal giorno dei moti del Quattro Aprile, le avevano per prudenza fatte rientrare dal convento, e rimpiangevano i dormitori a baldacchino e l'intimità collettiva del Salvatore.
I ragazzini si accapigliavano di già per il possesso di una immagine di S. Francesco di Paola; il primogenito, l'erede, il duca Paolo, aveva già voglia di fumare e, timoroso di farlo in presenza dei genitori, andava palpando attraverso la tasca la paglia intrecciata del portasigari. Nel volto emaciato si affacciava una malinconia metafisica: la giornata era stata cattiva, Guiscardo, il sauro irlandese, gli era sembrato giú di vena, e Fanny non aveva trovato il modo (o la voglia di fargli pervenire il solito bigliettino color di mammola. A che fare, allora, si era incarnato il Redentore?
La prepotenza ansiosa della Principessa fece cadere seccamente il rosario nella borsa trapunta di jais, mentre gli occhi belli e maniaci sogguardavano i figli servi e il marito tiranno verso il quale il corpo minuscolo si protendeva in una vana ansia di dominio amoroso.
Lui, il Principe, intanto si alzava: l'urto del suo peso da gigante faceva tremare l'impiantito, e nei suoi occhi chiarissimi si riflesse, un attimo, l'orgoglio di questa effimera conferma del proprio signoreggiare su uomini e fabbricati.
Adesso posava lo smisurato Messale rosso sulla seggiola che gli era stata dinanzi durante la recita del Rosario, poneva il fazzoletto sul quale aveva poggiato il ginocchio, e un po' di malumore intorbidò il suo sguardo, quando rivide la macchiolina di caffé che fin dal mattino aveva ardito interrompere la vasta bianchezza del panciotto.
Non che fosse grasso: era soltanto immenso e fortissimo; la sua testa sfiorava (nelle case abitate dai comuni mortali) il rosone inferiore dei lampadari; le sue dita sapevano accartocciare come carta velina le monete da un ducato; e fra villa Salina e la bottega di un orefice era un frequente andirivieni per la riparazione di forchette e cucchiai che la sua contenuta ira, a tavola, gli faceva spesso piegare in cerchio. Quelle dita, d'altronde, sapevano anche essere di tocco delicatissimo nel carezzare e maneggiare,
di ciò si ricordava a proprio danno Maria Stella, la moglie; e le viti, le ghiere, i bottoni, smerigliati dei telescopi, cannocchiali, e "ricercatori di comete" che lassú, in cima alla villa, affollavano il suo osservatorio privato, si mantenevano intatti sotto lo sfioramento leggero. I raggi del sole calante ma ancora alto di quel pomeriggio di maggio accendevano il colorito roseo, il pelame color di miele del Principe; denunziavano essi l'origine tedesca di sua madre, di quella principessa Carolina la cui alterigia aveva congelato, trent'anni prima, la Corte sciattona delle Due sicilie.
Ma nel sangue di lui fermentavano altre essenze germaniche ben piú incomode per quell'aristocratico siciliano, nell'anno 1860, di quanto potessero essere attraenti la pelle bianchissima ed i capelli biondi nell'ambiente di olivastri e di corvini: un temperamento autoritario, una certa rigidità morale, una propensione alle idee astratte che nell'habitat molliccio della società palermitana si erano mutati rispettivamente in prepotenza capricciosa, perpetui scrupoli morali e disprezzo per i suoi parenti e amici, che gli sembrava andassero alla deriva nei meandri del lento fiume pragmatistico siciliano.
Primo (ed ultimo) di un casato che per secoli non aveva mai saputo fare neppure l'addizione delle proprie spese e la sottrazione dei propri debiti, possedeva forti e reali inclinazioni alle matematiche; aveva applicato queste all'astronomia e ne aveva tratto sufficienti riconoscimenti pubblici e gustosissime gioie private. Basti dire che in lui orgoglio e analisi matematica si erano a tal punto associati da dargli l'illusione che gli astri obbedissero ai suoi calcoli (come, di fatto, sembravano fare) e che i due pianetini che aveva scoperto (Salina e Svelto li aveva chiamati, come il suo feudo e un suo bracco indimenticato) propagassero la fama della sua casa nelle sterili plaghe fra Marte e Giove e che quindi gli affreschi della villa fossero stati piú una profezia che una adulazione.
Sollecitato da una parte dall'orgoglio e dall'intellettualismo materno, dall'altra dalla sensualità e faciloneria del padre, il povero principe Fabrizio viveva in perpetuo scontento pur sotto il cipiglio zeusiano, e stava a contemplare la rovina del proprio ceto e del proprio patrimonio senza avere nessuna attività ed ancora minor voglia di porvi riparo.
Quella mezz'ora fra il Rosario e la cena era uno dei momenti meno irritanti della giornata, ed egli ne pregustava ore prima la pur dubbia calma.
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