martedì 27 marzo 2012

Paradiso Amaro

AUTORE: Kaui Hart Hemmings
GENERE: Romanzo

TRAMA:
Matt King, discendente di una ricca principessa, era considerato uno degli uomini più ricchi e fortunati delle Hawaii ma ora la sua buona stella sembra avergli voltato le spalle... Sua moglie, la modella Joanie, ha un brutto incidente ed entra in coma. Le sue figlie, Alex e Scottie, si dibattono tra i conflitti dell'adolescenza e un disperato bisogno di attenzione. A peggiorare le cose, una scoperta inaspettata: Joanie aveva un amante. Sembra l'inizio della fine. Invece è una rinascita. Perché Matt, finalmente, si rende conto di aver amato davvero Joanie ed è costretto ad affrontare il suo fallimento di uomo, di marito e di padre: un percorso doloroso ma salvifico.

INCIPIT:

Il sole risplende, gli storni tristi cinguettano, le palme ondeggiano. Sono in un ospedale, ma sto bene. Il cuore funziona regolarmente. Il cervello sta sparando messaggi forti e chiari. Mia moglie è su un letto leggermente inclinato, nella posizione in cui la gente dorme sugli aerei, il busto rigido, la testa piegata da un lato. Ha le mani poggiate in grembo.
«Non possiamo metterla stesa?», chiedo.
«Aspetta», dice Scottie, mia figlia. Scatta una polaroid alla madre. Mentre si sventola con la foto, premo il pulsante sul lato del letto per abbassare il busto di mia moglie. Rilascio il pulsante quando la schiena è quasi in linea con il resto del corpo.
Joanie è in coma da ventitré giorni, e nelle prossime ore dovrò prendere una decisione basandomi sulla diagnosi definitiva del medico. A dire il vero, devo solo scoprire quali sono le condizioni di Joanie. Non ho nessuna decisione da prendere, Joanie ha un testamento biologico. È lei a decidere per sé, come ha sempre fatto.
Oggi è lunedì. Il dottor Johnston mi parlerà martedì, e questo appuntamento mi rende nervoso, come se fosse un incontro galante. Non so come comportarmi, cosa dire, cosa indossare. Preparo risposte e reazioni, ma solo per scenari positivi. Non ho preparato il Piano B.
«Tieni», dice Scottie. Scottie è il suo vero nome. Joanie pensava che sarebbe stato fico chiamarla come suo padre, Scott.
Sono di avviso contrario.
Guardo la fotografia. Sembra una di quelle foto spiritose che si scattano alla gente che dorme. Non so perché pensiamo che siano così divertenti. Possiamo farti un sacco di cose mentre dormi, sembra essere questo il messaggio. Guarda quanto sei vulnerabile. Quando dormi non ti rendi conto di nulla. Tuttavia, è evidente che in questa foto Joanie non sta dormendo. Ha una flebo e qualcosa chiamato tubo endotracheale, collegato a un respiratore artificiale, le spunta dalla bocca. Viene nutrita tramite un tubicino e i farmaci che le vengono somministrati potrebbero curare un intero villaggio delle Fiji. Scottie sta documentando la vita della nostra famiglia per il suo corso di studi sociali. Ed ecco Joanie ricoverata al Queen’s Hospital, nella sua quarta settimana di coma, un coma che ha totalizzato un 10 nella scala di Glasgow e un III in quella Rancho Los Amigos. È stata sbalzata fuori da un motoscafo da competizione che andava a centotrenta chilometri orari durante una gara, ma penso che si rimetterà.
«Reagisce involontariamente agli stimoli in modo aspecifico, ma di quando in quando registriamo risposte specifiche anche se discontinue». È quello che mi ha detto la sua neurologa, una giovane donna con un leggero tremore all’occhio sinistro e una parlantina veloce che mi rende difficile porle delle domande. «I riflessi sono limitati e spesso uguali, nonostante la varietà degli stimoli proposti», dice. Le sue parole non mi rassicurano, ma so che Joanie non ha ancora mollato. Dentro di me so che si riprenderà e un giorno il suo corpo tornerà a funzionare regolar- mente. Di solito non mi sbaglio su queste cose.
«Perché stava gareggiando?», mi ha chiesto la neurologa.
La domanda mi ha spiazzato. «Per vincere, immagino. Per arrivare prima al traguardo».
«Chiudi», dico a Scottie. Lei incolla la foto sull’album, prende il telecomando e spegne il televisore.
«No. Parlavo di questo», dico indicandole la finestra – il sole,gli alberi, gli uccelli che saltellano sull’erba per raccogliere le briciole lanciate dai turisti e dalle pazze. «Fa’ sparire questa roba. È terribile». Non è facile essere tristi ai tropici. Scommetto che nelle grandi città puoi andartene in giro per strada con lo sguardo accigliato e nessuno verrà mai a chiederti cos’è che non va o a incoraggiarti a sorridere, ma qui è come se tutti pen- sassero che è una fortuna vivere alle Hawaii; il paradiso regna sovrano. Per quanto mi riguarda, il paradiso può andare a farsi fottere.
«Disgustoso», dice Scottie e abbassa le veneziane.
Spero non si renda conto che la sto osservando e che quanto vedo mi preoccupa terribilmente. Scottie è un’adolescente strana ed emotiva. Ha dieci anni. Cosa si fa durante il giorno quando si hanno dieci anni? Scottie fa scorrere le dita lungo la finestra e borbotta: «Potrei beccarmi l’aviaria», e poi stringe le dita davanti alla bocca e finge di suonare una tromba, emettendo strani suoni. È pazzoide. Chissà cosa le passa per la testa. E a proposito di testa, ha sicuramente bisogno di darsi una spazzolata ai capelli o di tagliarseli. Ha i capelli aggrovigliati in più punti. “Chi è il suo parrucchiere?”, mi chiedo. Ma c’è mai stata da un parrucchiere? Si gratta il cuoio capelluto e poi si guarda le unghie. Indossa una maglietta con su scritto: NON SONO QUEL TIPO DI RAGAZZA. MA POSSO DIVENTARLO!
Sono contento che non sia troppo carina, ma so che le cose potrebbero cambiare.
Do un’occhiata all’orologio che mi ha regalato Joanie.
«Le lancette brillano e il quadrante è di madreperla», mi disse. «Quanto l’hai pagato?», le chiesi.
«Chissà perché ero convinta che sarebbe stata la prima cosa
che avresti detto».
Sapevo che la mia domanda l’aveva ferita, aveva perso un sacco di tempo a scegliere il regalo giusto. Joanie adora fare regali. È il suo modo per dimostrare che ci conosce, che ha perso del tempo a cercare di capire i nostri gusti.
Almeno questo è quello che sembra. Non avrei dovuto domandarle il prezzo. Voleva solo dimostrarmi che mi conosceva.
«Che ora è?», domanda Scottie.
«Le dieci e trenta».
«È ancora presto».
«Lo so», dico. Non so che fare. Siamo venuti in ospedale non
soltanto per visitare Joanie, con la speranza che sia migliorata durante la notte, che abbia reagito alla luce e ai suoni e a dolorose iniezioni, ma anche perché non abbiamo nessun altro posto dove andare. Scottie di solito è a scuola tutto il giorno. Ci pensa Esther ad andarla a prendere alla fine delle lezioni, ma sentivo che questa settimana avrebbe dovuto passare più tempo in ospedale e con me.
«Cosa ti va di fare?», chiedo.
Apre il suo album, un progetto che sembra occupare tutto il suo tempo. «Non lo so. Ho fame».
«Di solito cosa fai a quest’ora?»
«Sono a scuola».
«E se fosse domenica? Dove andresti?»
«In spiaggia».
Penso all’ultima volta che ho badato a lei da solo e a cosa abbiamo fatto. Credo avesse più o meno un anno, un anno e mezzo. Joanie era volata a Maui per un servizio fotografico e non era riuscita a trovare una babysitter. I suoi genitori, per qualche motivo, non potevano tenerla. Io mi trovavo nel bel mezzo di un processo ed ero a casa, ma avevo del lavoro che non potevo assolutamente rimandare. E così misi Scottie nella vasca da bagno con un pezzo di sapone. Prima cominciò a schizzare l’acqua e cercò di berla, poi vide il sapone e provò ad afferrarlo. Le sgusciò via e ci riprovò, con un’espressione meravigliata sul faccino. Scivolai nel corridoio, dove avevo sistemato una scrivania per lavorare e un interfono per bambini. La sentivo ridere, quindi sapevo che non stava annegando.
Mi chiedo se infilarla in una vasca da bagno con un pezzo scivoloso di Irish Spring possa ancora funzionare.
«Possiamo andare in spiaggia», dico. «La mamma ti porterebbe al club?»
«Be’, sì. E dove se no?»
«Allora è deciso. Parli a tua madre, chiamiamo un’infermiera, facciamo un salto a casa e poi andiamo in spiaggia».
Scottie prende una foto dal suo album, la accortoccia e la getta via. Mi chiedo se sia la foto della madre sul letto, probabilmente non il miglior cimelio di famiglia. «Vorrei», dice Scottie. «Cos’è che vorrei?».
È un gioco che facciamo spesso. Di tanto in tanto, nomina un luogo dove vorrebbe essere, oltre al posto e al tempo delle no- stre vite in cui ci troviamo al momento.
«Vorrei che fossimo dal dentista», decide.
«Anch’io. Vorrei che il dentista ci stesse facendo l’ortopanoramica».
«E facesse la pulizia dei denti alla mamma», dice Scottie.
Vorrei davvero che fossimo nello studio del dottor Branch, tutti e tre con le labbra intorpidite a sballarci con il gas esilarante. Una cura canalare sarebbe uno scherzo in confronto a tutto questo. O anche qualsiasi altro intervento medico, sul serio. A dire il vero, vorrei essere a casa a lavorare. Devo decidere a chi vendere il terreno che appartiene alla mia famiglia dal 1840. La vendita cancellerà qualsiasi appezzamento di terra in mano alla mia famiglia, e io ho disperatamente bisogno di studiare le offerte prima di incontrare i miei cugini tra sei giorni. È il nostro termine ultimo. Alle due, tra sei giorni, a casa di Cugino Sei. Ci accorderemo su un compratore. Sono stato un incosciente ad aver rimandato questo problema per così tanto tempo, ma è quello che ha fatto la mia famiglia fino ad ora. Abbiamo voltato le spalle al nostro retaggio, aspettando che qualcuno si facesse avanti e si facesse carico del nostro patrimonio e dei nostri debiti.

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