GENERE: Romanzo di formazione
TRAMA:
Un libro che con la sua freschezza e la sua vivacità ha commosso generazioni di lettori. Le quattro sorelle March – la giudiziosa Meg, l’impertinente Jo, la dolce Beth, la vanitosa Amy – si preparano alla vita vivendo sogni e speranze dell’adolescenza sullo sfondo dell’America scossa dalla guerra di Secessione. È sufficiente la prima pagina di “Piccole donne” per immettere il lettore nell’atmosfera casalinga di casa March: il chiacchiericcio fitto delle sorelle, gli echi di un mondo che fuori è pieno di gioia, le evasioni nel sogno. Pagina dopo pagina seguiamo con trepidazione i sogni delle quattro giovani adolescenti, i loro capricci, i loro slanci, le loro vittorie, le loro amicizie, le loro difficoltà, che Louisa May Alcott ci presenta con un’analisi psicologica così penetrante che ancora oggi sentiamo attuali. Allora entriamo in casa March, sediamoci accanto al caminetto e viviamo insieme a loro questo anno fantastico ricco di strabilianti sorprese...
INCIPIT:
CAPITOLO PRIMO
Il giuoco dei pellegrini
— Natale non sembrerà più Natale senza regali — brontolò Jo sdraiata sul tappeto dinanzi al caminetto.
— L’essere poveri è una disgrazia — disse Meg, guardando con un sospiro il suo vecchio vestitino.
— Non è giusto che alcune ragazze debbano aver tanto ed altre nulla! — soggiunse la piccola Amy con voce piagnucolosa.
— Abbiamo però la nostra buona mamma ed il nostro papà e tante altre belle cose — disse Beth dal suo cantuccio.
Le quattro faccine, illuminate dai bagliori del fuoco che scoppiettava nel caminetto, si rischiararono un momento a queste parole, ma si oscurarono di nuovo allorché Jo disse con tristezza: — Papà non è con noi e chi sa quando tornerà! — Non disse — forse mai — ma tutte lo aggiunsero silenziosamente, pensando al padre loro tanto lontano, là, sul campo di battaglia.
Tutte tacquero per qualche istante, poi Meg ricominciò: — Sapete bene la ragione per cui la mamma ha proposto di non comprare regali per Natale. Essa crede che non abbiamo diritto di spendere i nostri denari in divertimenti quando i nostri cari nell’esercito soffrono tanto. Non siamo buone a molto noi, ma possiamo pur fare i nostri piccoli sacrifizi e dovremmo compierli con piacere, per quanto io confessi che mi costano qualche fatica — e Meg scosse la testa ripensando alle belle cosine che da tanto tempo desiderava.
— Non lo fare, Jo, son cose da ragazzacci.
— È appunto per questo che lo faccio.
— Io non posso soffrire le ragazze sgarbate.
— Ed io non posso soffrire le ragazze smorfiose che stanno sempre in
ghingheri.
— Gli uccellini dello stesso nido vanno d’accordo — interruppe Beth,
la paciera, con una smorfia così curiosa che le due sorelle scoppiarono in una risata e il battibecco cessò per quella volta.
— A dir il vero avete torto tutt’e due — disse Meg, cominciando, come sorella maggiore, la sua ramanzina! — Tu sei abbastanza grande, ormai, per smettere quei modi da sbarazzino e comportarti meglio, Giuseppina. Ciò non aveva tanta importanza quando eri piccola, ma ora che sei così alta e che ti sei tirata su i capelli, dovresti rammentarti che sei una signorina e non un ragazzo.
— Non è vero nulla! e se il tirarmi su i capelli mi fa diventare una signorina, porterò la treccia giù, fino a venti anni! — gridò Jo, strappandosi via la rete e lasciandosi cadere sulle spalle una bellissima treccia di capelli castagni.
— Penso con raccapriccio che un giorno dovrò pur essere la signorina March, dovrò portare le sottane lunghe e metter su un’aria di modestia e di affettazione come la mia cara sorella! È la cosa più insopportabile del mondo pensare d’essere donna quando darei qualunque cosa per essere nata uomo! Ed ora che muoio dalla voglia di andare al campo con papà, mi tocca star qui a far la calza come una vecchia di cent’anni! — E Jo, in un impeto di rabbia, gettò per terra la calza che stava facendo, tanto che il gomitolo di lana andò a rotolare dall’altra parte della stanza.
— Povera Jo! Non è davvero giusto! Ma non può essere altrimenti, perciò ti devi contentare del tuo nome, che pare quello di un ragazzo e ti puoi divertire a far da fratello a noi altre — disse Beth, accarezzando la testa arruffata che si era posata sulle sue ginocchia con una mano il cui tocco, né lavatura di piatti, né spolveratura, avrebbe potuto rendere meno che dolce.
— Quanto a te, Amy, — continuò Meg; — sei addirittura esagerata! Mi piacciono le tue manierine gentili ed il tuo modo raffinato di parlare, ma quando vuoi usare delle parole lunghe e ricercate che non conosci e cerchi di essere elegante, sei addirittura ridicola ed affettata. —
— Se Jo è un ragazzaccio ed Amy è affettata, che cosa sono, io? — domandò Beth pronta a prendere la sua parte di predica.
— Tu sei un angelo e null’altro.— rispose Meg abbracciandola e nessuno la contraddisse poiché «il topo» era il cocco della famiglia. Benché il tappeto fosse molto logoro ed i mobili molto vecchi pure la stanza dove erano riunite le quattro ragazze era resa gaia e piacevole da uno o due buoni quadri appesi al muro, dalle librerie piene di libri, dai crisantemi e dalle rose di Natale che fiorivano sulle finestre e dall’atmosfera di pace casalinga che pervadeva ogni cosa. Margherita, la maggiore delle sorelle, aveva 16 anni ed era molto carina. Bionda, ben formata, aveva occhi celesti, una quantità di capelli di un castagno chiaro, una bocchina dolce e delle mani fini e bianche a cui teneva molto.
Giuseppina o Jo, come la chiamavano in famiglia, era alta, magra, scura di carnagione ed assomigliava un poco ad un puledro non ancora domato, perché non sapeva mai dove, né come tenere le lunghe membra che sembravano esserle sempre d’impaccio. Aveva una espressione risoluta nella bocca, un naso bizzarro, ed occhi grigi, che sembravano vedere tutto e che potevano essere, a volta a volta, severi, furbi o pensierosi. I suoi lunghi e folti capelli erano la sua unica bellezza; ma ella li portava quasi sempre in una rete, perché non le dessero noia. Jo aveva le spalle un po’ curve, piedi grossi e mani lunghe; i vestiti quasi sempre scuciti che le cascavano di dosso e l’aria di una ragazza che sta trasformandosi rapidamente in donna, ma che vorrebbe rimanere bimba.
Elisabetta o Beth era una rosea fanciulla di 13 anni, tutta pace e timidezza: il padre la chiamava «piccola tranquillità» ed il nome le si confaceva a pennello, perché sembrava vivere beata in un mondo a sé da cui non usciva se non per stare con i pochi che ella amava e stimava.
Amy, la più piccola, era un personaggio importante, secondo la sua opinione, almeno. Era bianca come la neve, con occhi celesti, ed i folti capelli biondi le scendevano inanellati sulle spalle; era pallida e magra, ma faceva il suo possibile per comportarsi sempre come una vera signorina.
Quali fossero i caratteri delle quattro sorelle i lettori vedranno in seguito.
Suonarono le 6 e Beth, dopo avere spazzato la cenere dal camino, prese un paio di pantofole e le avvicinò al fuoco per scaldarle.
La vista delle vecchie pantofole parve avere una buona influenza sulle sorelle; esse sapevano che la mamma doveva arrivare tra poco e tutt’e quattro si prepararono per riceverla. Meg smise di predicare ed accese il lume; Amy si alzò dalla poltrona, senza che alcuno glielo ricordasse e Jo si dimenticò di essere tanto stanca, tolse di mano a Beth le pantofole della mamma e le tenne vicino al fuoco.
— Ma non credo che quel poco che daremmo possa alleggerire le sofferenze dell’esercito; un misero dollaro non potrà far gran cosa. Sono d’accordo anch’io di non aspettarmi nulla né dalla mamma né da voialtre, ma vorrei, con i miei pochi risparmi, comperarmi Undina e Sintram! È
tanto tempo che lo desidero! — disse Jo, che aveva una vera passione per la lettura.
— Io aveva pensato di comprarmi un po’ di musica! — disse Beth, con un sospiro così leggiero che nessuno potè udirlo.
— Io voglio comprarmi una bella scatola di lapis Faber; ne ho proprio bisogno — disse Amy risolutamente.
— Mamma non ha detto nulla riguardo ai nostri risparmi e suppongo che non sarebbe contenta se ci privassimo di tutto quello che ci può far piacere. Comperiamoci quello che desideriamo e divertiamoci un po’; mi pare che lavoriamo abbastanza per meritarcelo! — gridò Jo, guardandosi i tacchi delle scarpe, come avrebbe fatto un «dandy».
— Lo credo io! Io che, da mattina a sera, devo far lezione a quei terribili bimbi, quando darei non so che cosa per restare a casa e passare le giornate a modo mio! — cominciò Meg con voce lamentevole.
— Tu puoi cantare quanto vuoi, ma non meni certo una vita così brutta come la mia! — aggiunse Jo.
— Come ti piacerebbe star sempre rinchiusa con una vecchia nervosa ed antipatica che ti fa trottar tutto il santo giorno su e giù, che non è mai contenta e che ti tormenta tanto da farti venir la voglia di buttarti giù dalla finestra o di darle un buon paio di scappellotti?
— Veramente non bisognerebbe lamentarsi, ma credetelo pure che lavar piatti e tener la casa in ordine è la peggior cosa del mondo! E le mie mani diventano così ruvide che non posso più suonare una nota! — E Beth, dicendo queste parole, si guardò le mani con un sospiro che, questa volta, tutti poterono udire.
— Non credo che nessuna di voi abbia da soffrire quanto me; — disse Amy — voialtre non andate a scuola e non dovete stare con ragazze impertinenti che vi tormentano se non sapete la lezione, vi canzonano perché non avete un bel vestito o perché vostro padre non è ricco, e v’insultano perché non avete un naso greco!
— Ah! se ci fosse ora un po’ di quel denaro che papà perdette quando eravamo piccole! Che bella cosa, eh, Jo? Come saremmo buone ed ubbidienti, se non avessimo alcun pensiero! — disse Meg che si ricordava di tempi migliori.
— Mi pare però che l’altro giorno tu dicessi che ti ritenevi molto più fortunata dei ragazzi King, che nonostante tutti i loro denari, leticavano e brontolavano da mattina a sera.
— È vero, Beth! E credo sul serio che noi siamo assai più fortunate di loro; sì abbiamo da lavorare, ma ci divertiamo fra di noi e siamo «un’allegra masnada», come direbbe Jo.
— Jo si serve sempre di termini così volgari! — osservò Amy, gettando
uno sguardo di rimprovero alla lunga figura sdraiata sul tappeto. Jo, a queste parole, si alzò a sedere, mise le mani nelle tasche del grembiule e cominciò a fischiare.
— Sono tutte sciupate; mammina dovrebbe averne un altro paio. — disse dopo un breve silenzio.
— Avevo pensato di comperargliene un paio col mio dollaro — disse Beth.
— No, le voglio comperar io — strillò Amy.
— Io sono la maggiore... — cominciò Meg, ma fu interrotta da Jo che disse con accento energico:
— Io sono l’uomo, ora che papi non c’è, e spetta a me comperare le pantofole: se vi ricordate, papà raccomandò la mamma in ispecial modo a me, quando andò via.
— Sapete cosa faremo? — disse Beth — Compreremo tutte qualcosa per la mamma e nulla per noi.
— Brava Beth! Quello che volevo proporre io! Ma che cosa prenderemo? — esclamò Jo. Tutte e quattro pensarono un momento poi Meg esclamò, come se l’idea le fosse sorta alla vista delle sue belle manine: — Io le regalerò un bel paio di guanti.
— Io le pantofole: le migliori che ci sono — gridò Jo.
— Io una dozzina di fazzoletti orlati tutti da me — disse Beth.
— Io comprerò una bottiglia di Acqua di Colonia, che piace tanto alla
mamma e che non costa molto; così mi potrà anche rimanere qualche soldo per i miei lapis — aggiunse Amy.
— Facciamole credere che vogliamo comperare qualcosa per noi e prepariamole un’improvvisata! Bisogna andare domani a fare tutte le commissioni Meg, c’è tanto da fare per la rappresentazione della sera di Natale! — disse Jo, camminando su e giù per la stanza con le mani dietro la schiena e il naso per aria.
— Questa è l’ultima volta, però, che prendo parte alla rappresentazione: sono ormai troppo grande — disse Meg, che, tra parentesi, era bimba quanto le altre quando si trattava di mascherate.
— Lo dici, ma non lo farai! Ti piace troppo vestirti colla bella veste bianca a coda, portare i capelli sciolti per le spalle e metterti tutti quei gioielli di carta argentata e dorata! Sei la migliore attrice della compagnia e se tu manchi che cosa faremo? Dovremo smettere anche noi — disse Jo — A proposito: bisognerebbe fare una prova stasera; vieni qua Amy, fa un po’ la scena dello svenimento; hai proprio bisogno di impararla meglio; stai sempre lì impalata come un pezzo di legno.
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