giovedì 9 febbraio 2012

Amore, zucchero e cannella

AUTORE: Amy Bratley
GENERE: Romanzo Sentimentale

TRAMA:
Una casa da condividere con la persona amata, un caldo nido d'amore: è questo il sogno di Juliet. E finalmente lei e il suo fidanzato Simon riescono a realizzarlo. Ma proprio durante la prima notte nel loro nuovo appartamento, Juliet scopre che lui l'ha tradita con la sua migliore amica. Il suo cuore è infranto e la realtà è troppo dura da affrontare. Sola e disperata, Juliet trova conforto soltanto nel ricordo dell'amata nonna Violet, morta un anno prima, e nei suoi manuali anni Cinquanta per la casalinga perfetta. E mentre il passato riaffiora con i suoi torbidi segreti, sarà proprio in questo dolce mondo fatto di grembiuli, pentole, nastri, pizzi e ricami che Juliet ritroverà se stessa, e forse, chissà, anche un nuovo amore.

INCIPIT:
CAPITOLO UNO
Obiettivo: cercate di rendere la vostra casa un luogo di pace e ordine dove i vostri mariti possano rinnovarsi nel corpo e nello spirito
«Mensile della brava casalinga», maggio 1995
Stanotte, mentre io e Simon ci stavamo baciando nudi nel nostro nuovo lettone, mi ha chiamata Hanna.
Il mio nome è Juliet.
Mi sono seduta dritta come un fuso e ho tirato su il piumino fin sotto il mento. Una volpe ha guaito nel giardino. Simon si è grattato l’orecchio.
«Simon», ho detto. «Mi hai appena chiamato Hanna?».
Hanna è la nostra ex coinquilina, un’amica dell’università; svedese ed estremamente attraente. Abbiamo con- diviso una villetta a Greenwich per un anno. Eravamo in questo appartamento, la nostra prima casa insieme, dalle 19:00. Esattamente cinque ore e quattordici minuti.
«No», si è affrettato a rispondere. «Certo che no».
«Sì, invece», ho detto. «Ti ho sentito pronunciare il suo nome».
«No», ha detto. «Non l’ho fatto».
«Simon», ho detto. «Mi hai chiamata Hanna. Ammet- tilo».
Ha sospirato e cominciato ad accarezzarmi la coscia, facendo scivolare la mano verso l’alto.
«Stavo solo immaginando noi tre insieme», ha detto con calma. «Una fantasia innocua, ecco tutto. Non è così grave».
I miei occhi erano cerchi perfetti nel buio. Ho respinto la sua mano, raggiunto l’interruttore della lampada e acceso la luce. Simon è rimasto immobile; un cervo smarrito abbagliato dai fari di una macchina in corsa.
***
Avevamo trovato il nostro nuovo appartamento su «Loot» e ancora prima di averlo visto ero entusiasta già solo dell’indirizzo: Lovelace Avenue, Gipsy Hill, Londra. Come potevamo non essere beati e felici lì? Immaginavo un edificio vittoriano maestoso, di quattro piani, a metà di un tranquillo viale alberato. Il nostro appartamento era al piano attico, con una vista spet- tacolare dello skyline di Londra e lattiginosi tramonti rosa; il giardino rigoglioso, pieno di rosmarino profumato, cespugli di more e caprifoglio; magari anche un pettirosso. Nessun nastro giallo della polizia a delimitare scene del crimine, sirene accese o armi sparse sul marciapiede. Una vera casa con un focolare e un cuore. I nostri cuori.
«Ju-li-et, ci sei?», disse Simon, agitandomi la mano in faccia. «Allora chiamo il proprietario?».
Stavamo divorando croissant alla mandorla e bevendo caffè in un accogliente bar a Greenwich, cerchiando annunci sulla pagina “Appartamenti in affitto”. Simon portava occhiali con montatura nera, la barbetta incolta e una camicia a quadri blu. Aveva grandi guance e occhi scuri come caverne, ma capelli soffici e fini. Penna in bocca, studiava «Loot» in modo serio, concentrato, sembrando più un poeta parigino che un insegnante di Educazione fisica di una scuola privata di West London.
Mi piaceva vestito così. (Dovrei dire lo preferivo?). Di solito indossava vestiti di tessuto idrorepellente e traspirante, più adatti all’alpinismo che a un bar. Eravamo una strana coppia: Simon nel suo pratico abbigliamento sportivo, sempre pronto a calarsi da una montagna o a superare un ostacolo, io nel mio abito da tè a fiori, sandali rossi, e in testa un cespuglio indisciplinato di riccioli castani. Simon era molto più bello nudo; sotto quella viscosa si nascondevano il torace e i quadricipiti di Ercole. E appena sopra la sua chiappotta destra aveva una voglia a forma di fragola che adoravo.
«Sì, chiamalo», dissi. «Con un indirizzo del genere, mi basta che ci sia il tetto, per essere felice».
Simon inarcò il sopracciglio destro. Era uno dei suoi pezzi forti alzare un sopracciglio più dell’altro, come Gregory Peck. Glielo avevo visto fare molte volte, ma mi faceva sempre sorridere. (Il mio pezzo forte – ficcare un’intera arancia in bocca – era altrettanto d’effetto). Mi rosicchiai l’unghia del pollice mentre Simon telefonava al proprietario di Lovelace Avenue cercando di apparire più distaccato di me e, sollevata, sentii che fissava un appuntamento tornando ad assumere un tono da insegnante con un formale «Bene, signore!», prima di riagganciare.
«Ecco fatto», disse, mentre un gruppetto di studenti italiani, zaini in spalla, entrava nel bar. Si erano appena fermati a guardare con aria assente il negozio di fronte che vendeva attrezzature per il mare. Il negozio si chiamava Nauticalia e se fosse stato commestibile, lo avrei mangiato. Dopo il mercato dell’antiquariato, dove una volta avevo comprato un vecchio manichino che adesso
giaceva incantato nel mio guardaroba, era il mio posto preferito a Greenwich. Anche se non avrei mai avuto motivo di comprare un barometro, ero capace di rimanere per un periodo di tempo imbarazzante a curiosare tra i tanti modellini di navi nelle bottiglie di vetro e i telescopi.
«Lovelace Avenue», sorrisi, e assaporai il nome sulla lingua dando un colpetto al piede di Simon con il mio. «Il nome perfetto per il nostro nido d’amore, non trovi?».
Simon si voltò bruscamente dandomi le spalle, guardò gli studenti chiassosi, e diede un morso al suo croissant. Eravamo avvolti da dense spire di luce e polvere. Presi una margherita bianca dal vaso sul tavolo e la annusai; era di plastica e ne strappai una foglia. Osservai il profilo di Simon aspettando una risposta. Gli piaceva farmi aspettare. Ero abituata a lunghe pause e sguardi assenti. Talvolta avrei voluto urlare con tutto il fiato che avevo nei polmoni o strapparmi i capelli a ciocche. “Sii paziente”, mi dissi, “sta solo cercando le parole giuste in tutta quella materia grigia”. Anche se Simon poteva correre cento metri in tredici secondi, non gli piaceva che gli si mettesse fretta per dare una risposta.
«Il dottore di mio padre si chiama dottor Morte», disse alla fine, con una risatina. «Dico davvero. Lo giuro. L’ho cercato sull’elenco telefonico».
Gli rivolsi uno sguardo dubbioso, nascondendo l’irritazione per il fatto che avesse eluso la mia domanda.
«Sapevi che il reggiseno è stato inventato da Otto Titzling (1)?», risposi con un sorrisetto ironico.
Mentre ridevamo, sentii un insolito sentimento di contentezza pervadermi. Mi concentrai sull’istantanea a colori del nostro futuro insieme: una vecchia coppia raggrinzita come l’uva passa, sorridente nelle sedie a dondolo accanto al focolare; fotografie dei nostri figli appese ai muri; le fedi consumate e familiari come le nostre ossa; un fido cagnolino addormentato tra le mie pantofole; una coperta ricamata sulle ginocchia, cucita con amore dalle mie mani; il sole che splende attraverso la finestra del nostro cottage con il tetto di paglia. Lì insieme, con niente e nessuno a disturbarci. Mi domandai: “La vita può essere davvero così?”. Desiderai confessare i miei sogni romantici, ma rimasi in silenzio. Immaginai che non sarebbero stati ben accolti.
«Non essere ridicola», disse Simon, dandomi un colpetto in testa con il giornale arrotolato. «È una fantasia».

(1) Tit in inglese significa tetta.




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