GENERE: Romanzo di formazione
TRAMA:
Quattro amici, quattro ragazzini che diventeranno uomini in una terrra in cui crescere è un lusso da pagare caro. La passione per il calcio vissuta nelle strade di Gomorra, inseguendo un pallone arancio fuoco. Roberto Saviano, ispirato da un vicenda realmente accaduta, mette in scena un racconto perfetto, preciso come una punizione messa a segno, straziante come un rigore sbagliato.
INCIPIT:
E’ una regola eterna. Immutabile. E bisognerebbe riuscire a tovare una formula matematica. O quantomeno una riduzione numerica, una frase aritmetica, un tentativo di proporzione, un delirio logaritmico. Insomma, qualcosa che ne dimostri l’assoluta scientificità. Si dovrebbe trovare una traccia formale per poter comprendere i meccanismi ineluttabili e perenni che regolano le partite di calcio di strada. Il chiattone in porta, quello smilzo e veloce davanti, il robusto in difesa e quelli che restano a centrocampo. Lì possono andare tutti: quello che non i piedi buoni ma sa lanciare, quello che sa correre veloce ma ha il fiato corto, quello muscoloso ma non abbastanza stabile. Insomma, a centrocampo va messo quello che sa fare tutto a metà. Ora però rispetto a qualche anno fa ci sono delle varianti. Quando ero ragazzo i portieri erano i peggiori. E la porta era una punizione tra le più umilianti. Un posto dove vedere la partita da lontano e ricevere dolorose pallonate in faccia che ti segnavano in viso di rosso per settimane. Un ruolo che ti costringeva a raccogliere la colpa del gol subìto e a essere ignorato dagli abbracci del gol realizzato. Piuttosto che un giocatore, un portiere era un raccattapalle mobile. Un ruolo terribile. Spesso il posto del portiere era sopportato a turno, ma quando non si trovava nessuno da umiliare in porta, da poter soggiogare nelle retrovie, quando insomma tutti i giocatori erano capaci di tener testa, allora si sceglieva di giocare a “porta americana”. Senza portiere. Due squadre si fronteggiavano cercando di segnare in un’unica porta con nessuno a difenderla: a turno, la quadra difende o attacca, alternandosi nei ruoli dopo ogni gol. Non mi è chiao perché questa modalità sia stata definita all’americana.
Una volta ero in macchina con un gruppo di ragazzi ubriachi, tornavamo da una festa e questi aprirono le quattro portiere dell’auto mentre correvano su una strada sterrata urlando “andiamo all’americana”.
A Maddaloni c’è una pizzeria che serve pizze all’americana: su un piccolo treppiedi messo al centro del tavolo arrivano enormi ruote con diversi condimenti. Enormi, esagerate, “all’americana” appunto. Tutto quello che è strano e insensato o forse semplicemente fuori dal comune, come giocare senza portiere, mangiare una pizza enorme con sopra tutto, o rischiare da idioti un incidente mortale, viene definito “americano”.
Oggi invece i portieri sono stati rivalutati. Ora sono campioni, hanno donne bellissime, vincono Palloni D’oro, hanno un ruolo decisivo, la loro non è una condizione obbligata perché non sanno fare altro. Così molti ragazzini scelgono di fare il portiere. I chiattoni della squadra non si sentono più esiliati nelle retrovie, ma prescelti per difendere l’ultimo baluardo.
Nel centro storico di Napoli, tutti i ragazzini neri vanno in porta da quando il Milan ha acquistato un portiere brasiliano di colore, non proprio un campione, Dida.
Un po’ come quei ragazzi che vengono dall’Argentina e godono di assoluta fiducia nelle proprie capacità sportive grazie a Maradona. Dopo la crisi argentina del 2000 che ha prosciugato i risparmi della piccola e media borghesia, sono sbarcati a Napoli molti argentini i cui antenati erano partiti cento anni prima dal Golfo. Ora i loro nipoti, dopo aver implorato nelle ambasciate italiane il passaporto di ritorno che i loro avi avrebbero strappato volentieri, sono tornati a abitare nei quartieri da cui erano fuggiti gli emigranti. Un percorso inverso che mai avrebbero immaginato di dover fare. I ragazzi dai cognomi italiani e nomi latinoamericani sono tornati a giocare per i vicoli dei loro trisavoli, a battere calci d’angolo sui piedi delle statue come i loro bisnonni. A quei ragazzini il solo provenire dalla terra di Maradona, il solo avere una cadenza simile a quella del Pibe de Oro basta a concedere subito un carisma infinito e una certezza di bravura. Anche se sono incapaci e brocchi.
Il tocco – così al sud chiamiamo la conta che avviene tra i due capisquadra per scegliere i giocatori – è un vero laboratorio antropologico. I capisquadra sono i più bulli, non sempre i più bravi. Anzi, quasi mai lo sono. Ma sanno fare scivolate violente rovinando le caviglie, dare testate mirando al naso, sputare con una mira da cecchino e beccare sempre la pupilla ben aperta. Sono quelli che sanno farla pagare a chi buca il pallone o lo fa finire dietro ad una cancellata. Ma nel tocco non c’è abilità o bravura. Il tocco è determinato dall’arbitrio delle dita lanciate davanti alle pance: solo caso e fortuna. In genere il primo ad essere scelto è l’attaccante di talento, se però la squadra inizia a comporsi di brocchi, quella prima scelta diventa una condanna che non lascia alcuna speranza di vittoria. Allora spesso accade che mentre si compone la squadra, che può essere di tre, quattro, cinque o sei persone, il giocatore più forte si accorge chiaramente che il tocco gli è andato storto e il caposquadra sta scegliendo gli scarti. Così non gli rimane che gettarsi a terra e piangere. Sena vergogna alcuna, perché la vergogna di piangere nasce solo quando subisci uno schiaffo, ma piangere contro i destino del tocco è l’unico modo per tentare di rimischiare le dita e ricominciare da capo, e non c’è vergogna a protestare contro la cattiva sorte.
Spesso non cambia nulla, ma a volte può capitare che qualcuno rimescoli tutto e tenti di rifare le squadre, pur di far cessare il pianto.
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