venerdì 23 dicembre 2011

La Mia Famiglia Ed Altri Animali

AUTORE: Gerald Durrell
GENERE: Romanzo Contemporaneo

TRAMA:
"Questa è la storia dei cinque anni che ho trascorso da ragazzo, con la mia famiglia, nell'isola greca di Corfù. In origine doveva essere un resoconto blandamente nostalgico della storia naturale dell'isola, ma ho commesso il grave errore di infilare la mia famiglia nel primo capitolo del libro. Non appena si sono trovati sulla pagina non ne hanno più voluto sapere di levarsi di torno, e hanno persino invitato i vari amici a dividere i capitoli con loro". Così Gerald Durrell presenta questo libro, uno dei più universalmente amati che siano apparsi in Inghilterra negli ultimi trent'anni. Ma il lettore avrà il piacere di scoprirvi anche qualcos'altro: la storia di un Paradiso Terrestre, e di un ragazzo che vi scorrazza instancabile, curioso di scoprire la vita (che per lui, futuro illustre zoologo, è soprattutto la natura e gli animali), passando anche attraverso avventure, tensioni, turbamenti, tutto però stemperati in una atmosfera di tale felicità che il lettore ne viene fin dalle prime pagine contagiato.

INCIPIT:
PARTE PRIMA
C'è un piacere sicuro nell'esser matto, che i matti soltanto conoscono.
DRYDEN,
The Spanish Friar, II, 1

LA MIGRAZIONE
Luglio si era spento come una candela sotto il soffio di un vento tagliente che aveva fatto da scorta a un plumbeo cielo d'agosto.
Cadeva una pioggerella pungente e fitta che ogni raffica di vento faceva ondeggiare come opachi lenzuoli grigi. Lungo il litorale di Bournemouth le cabine volgevano le loro vuote facce di legno verso un mare grigio-verdastro e crestato di spuma che balzava impetuoso contro il parapetto di cemento lungo la riva. I gabbiani erano stati rovesciati a valanghe sopra la città, e ora vagavano alti sui tetti, ad ali tese, lamentandosi queruli. Era proprio un tempo fatto apposta per mettere a dura prova la pazienza di tutti.
Considerata in gruppo, la mia famiglia quel pomeriggio non offriva uno spettacolo molto edificante, perché il tempo aveva portato con sé la solita selezione di malattie alle quali andavamo soggetti. A me, che me ne stavo sdraiato sul pavimento a catalogare le conchiglie della mia collezione, aveva portato il catarro, rovesciandomelo nel cranio come una colata di cemento, sicché respiravo rantolando con la bocca aperta. A mio fratello Leslie, rincantucciato cupo e torvo accanto al fuoco, aveva infiammato i canali semicircolari delle orecchie a tal punto che gli sanguinavano, in modo leggero ma persistente. A mia sorella Margo aveva regalato una nuova fioritura di acne su un viso che era già marezzato come un velo rosso. Per mia madre c'era un bel raffreddore gorgogliante, insaporito da un attacco di reumatismi. Era indenne soltanto il mio fratello maggiore, Larry, ma il fatto che fosse irritato dai nostri malanni bastava.
E naturalmente fu Larry a cominciare. Noi ci sentivamo troppo apatici per pensare ad altro che ai nostri mali, ma Larry è stato designato dalla Provvidenza a passare attraverso la vita come un piccolo, biondo fuoco d'artificio, facendo esplodere idee nelle menti altrui e poi raggomitolandosi al modo mellifluo di un gatto e declinando ogni responsabilità per le conseguenze. Man mano che il pomeriggio avanzava era diventato sempre più irritabile. Infine, girando uno sguardo truce per la stanza, decise di attaccare mamma,
come se fosse l'ovvia causa di tutti i guai.
«Perché sopportiamo questo maledetto clima?» domandò all'improvviso, facendo un gesto verso la finestra coi suoi obliqui ruscelli di pioggia. «Guarda lì! E quanto a questo, guarda noi... Margo tutta gonfia come un piatto di porridge rosso... Leslie che se ne va in giro con dieci metri di ovatta nelle orecchie... Gerry che pare che abbia il palato fesso dalla nascita... E guarda te: ogni giorno che passa hai un'aria più decrepita e stravolta».
Mamma gettò un'occhiata al di sopra di un grosso volume intitolato Ricette facili del Rajputana.
«Neanche per sogno!» disse sdegnata.
«E invece sì,» insistette Larry «cominci a somigliare a una lavandaia irlandese... e i tuoi figli sembrano le illustrazioni di un'enciclopedia medica».
A questo mamma non riuscì a trovare nessuna risposta veramente schiacciante, quindi si accontentò di dargli un'occhiata severa prima di tornare a rifugiarsi dietro il suo libro.
«Quello che ci vuole per noi è il sole,» continuò Larry «non sei d'accordo, Les?... Les... Les!».
Leslie si srotolò da un orecchio un bel pezzo d'ovatta.
«Cosa hai detto?» domandò.
«Eccoti servita!» disse Larry, voltandosi trionfante verso mamma.
«Parlare con lui è diventata un'impresa problematica. Dimmi tu che razza di situazione! Un fratello non sente quello che gli dici e l'altro non lo si capisce quando parla. Francamente è ora di fare qualcosa. Non si può pretendere che io crei la mia prosa immortale in un'atmosfera pregna di tetraggine e di eucalipto».
«Sì, caro» disse mamma in tono vago.
«Quello che ci vuole per tutti noi» disse Larry tornando in argomento «è il sole... un paese dove possiamo espanderci».
«Sì, caro, sarebbe bello» convenne mamma senza ascoltare veramente.
«Stamattina mi è arrivata una lettera di George - dice che Corfù è magnifica. Perché non facciamo le valigie e non andiamo in Grecia?».
«D'accordo, caro, se ti fa piacere» disse mamma incautamente.
Quando si trattava di Larry, di solito stava molto attenta a non compromettersi.
«Quando?» domandò Larry, alquanto stupito di questa cooperazione.
Mamma, rendendosi conto di avere commesso un errore tattico, abbassò con circospezione le Ricette facili del Rajputana.
«Be', penso che sarebbe ragionevole che tu andassi avanti e sistemassi tutto. Poi scrivi e mi dici se è un posto carino, e noi possiamo seguirti» disse abilmente.
Larry la incenerì con uno sguardo.
«Questo lo dicesti già quando proposi di andare in Spagna,» le ricordò «e io sono rimasto due mesi interminabili a Siviglia ad aspettare il vostro arrivo, mentre tu non facevi altro che scrivermi lettere chilometriche sulle fognature e sull'acqua potabile come se io fossi il segretario comunale o qualcosa del genere. No, se dobbiamo andare in Grecia ci andiamo tutti insieme».
«Ora stai esagerando, Larry,» disse mamma in tono querulo «in ogni modo, ora come ora non posso partire. Devo prima risolvere il problema di questa casa».
«Risolvere? Risolvere che cosa, per amor del cielo? Vendila».
«Questo non posso farlo, caro» disse mamma, un po' scossa.
«Perché no?».
«Ma l'ho appena comprata!».
«Appunto, vendila finché è ancora in buono stato».
«Non essere ridicolo, caro,» disse mamma con fermezza «non se ne parla nemmeno. Sarebbe una pazzia».
Perciò vendemmo la casa e scappammo dalla tetraggine dell'estate inglese come uno stormo di rondini migratrici.

Viaggiammo leggeri, perché avevamo preso soltanto le cose che ci sembravano essenziali per vivere. Quando aprimmo il bagaglio per l'ispezione doganale, il contenuto delle nostre valigie denotava in modo abbastanza sintomatico il carattere e gli interessi di ciascuno.
Infatti il bagaglio di Margo conteneva un'infinità di indumenti diafani, tre libri di diete dimagranti e uno sterminio di bottigliette piene di vari elisir garantiti per curare l'acne. La cassetta di Leslie custodiva due pullover a collo alto e un paio di calzoni in cui erano avvoltolati due rivoltelle, una pistola ad aria compressa, un libro intitolato L'armaiolo in casa e una grossa bottiglia d'olio che perdeva. Larry era accompagnato da due bauli di libri e da una ventiquattrore coi suoi vestiti. Il bagaglio di mamma era giudiziosamente spartito tra effetti personali e vari libri di cucina e di giardinaggio. Io mi portai dietro soltanto quelle cose che ritenevo necessarie per alleviare la noia di un lungo viaggio: quattro libri di storia naturale, un acchiappafarfalle, un cane e un barattolo per marmellata pieno di bruchi tutti in pericolo imminente di trasformarsi in crisalidi. Così, perfettamente equipaggiati secondo i nostri punti di vista, lasciammo le umide rive dell'Inghilterra.
La Francia malinconica e lavata dalla pioggia, la Svizzera che sembrava un dolce natalizio, l'Italia esuberante, chiassosa e puzzolente rimasero alle nostre spalle, lasciando in noi soltanto ricordi confusi. La minuscola nave si allontanò fremente dal tacco dell'Italia inoltrandosi nel mare crepuscolare, e mentre dormivamo nelle nostre cabine soffocanti, chi sa dove in quel tratto d'acqua brillantato di luna superammo l'invisibile linea divisoria ed entrammo nel vivido, caleidoscopico mondo della Grecia. A poco a poco questa sensazione di un cambiamento filtrò sino a noi e così, all'alba, ci svegliammo pieni di impazienza e salimmo sul ponte.
Il mare gonfiava i suoi azzurri e levigati muscoli ondosi mentre fremeva nella luce dell'alba, e la schiuma della nostra scia si allargava delicatamente dietro di noi come una candida coda di pavone, tutta scintillante di bollicine. Il cielo era pallido, con qualche pennellata gialla a oriente. Davanti a noi si allungava uno sgorbio di terra color cioccolata, una massa confusa nella nebbia, con una gala di spuma alla base. Era Corfù, e noi aguzzammo gli occhi per distinguere la forma delle sue montagne, per scoprirne le valli, le cime, i burroni e le spiagge, ma non ne vedevamo che i contorni.
Poi, tutt'a un tratto, il sole spuntò sull'orizzonte e il cielo prese il colore azzurro smalto dell'occhio della ghiandaia. Le infinite e meticolose curve del mare si incendiarono per un istante, poi si fecero d'un intenso color porpora screziato di verde. La nebbia si alzò in rapidi e flessibili nastri, ed ecco l'isola davanti a noi, le montagne come se dormissero sotto una gualcita coperta scura, macchiata in ogni sua piega dal verde degli ulivi. Lungo la riva le spiagge si arcuavano candide come zanne tra precipiti città di vivide rocce dorate, rosse e bianche. Doppiammo il promontorio settentrionale, un liscio contrafforte di roccia color ruggine bucato da una serie di grotte gigantesche. Le onde cupe sollevavano la nostra scia e la portavano delicatamente verso quelle fauci, dove essa si frantumava sibilando avida tra le rocce. Doppiato il promontorio, le montagne scomparvero e l'isola si trasformò in un declivio dolce, macchiato dall'argentea e verde iridescenza degli ulivi, interrotta qua e là dal dito ammonitore di un nero cipresso stagliato contro il cielo. Il mare poco profondo nelle baie era azzurro farfalla, e nonostante il rombo dei motori potevamo distinguere l'eco soffocata - che ci giungeva dalla riva come un coro di voci sottili - degli stridi acuti e trionfali delle cicale.

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