AUTORE: Giorgio Faletti
GENERE: Romanzo Italiano
TRAMA:
"Io mi chiamo Silvano ma la provincia è sempre pronta a trovare un soprannome. E da Silvano a Silver la strada è breve". Con la sua voce dimessa e magnetica, sottolineata da una nota sulfurea e intrisa di umorismo amaro, il protagonista ci porta dentro una storia che, lette le prime righe, non riusciamo piú ad abbandonare. Con "Tre atti e due tempi" Giorgio Faletti ci consegna un romanzo composto come una partitura musicale e teso come un thriller, che toglie il fiato con il susseguirsi dei colpi di scena mentre ad ogni pagina i personaggi acquistano umanità e verità. Un romanzo che stringe in unità fili diversi: la corruzione del calcio e della società, la mancanza di futuro per chi è giovane, la responsabilità individuale, la qualità dell'amore e dei sentimenti in ogni momento della vita, il conflitto tra genitori e figli. E intanto, davanti ai nostri occhi, si disegnano i tratti affaticati e sorridenti di un personaggio indimenticabile. Silver, l'antieroe in cui tutti ci riconosciamo e di cui tutti abbiamo bisogno.
INCIPIT:
Prologo
Quando arrivano loro tutto deve essere a posto.
Loro sono lo Sparviero, il Bambino, il Capo, lo Straniero, il Taciturno, il Nero, il Talento, lo Sfaticato. Sono il Tatuato, il Ragioniere, il Bravo Ragazzo, il Puttaniere, il Marito. A volte l’Omo e il Dotto.
Ci sono anche quelli a cui non ho dato un nome.
Sono ragazzi che stanno salendo con l’eccitazione negli occhi e nei ragionamenti, uomini che stanno scendendo con la delusione nello sguardo, altri arresi alla consapevolezza di avere raggiunto il massimo loro consentito.
C’è chi si accontenta, chi morde il freno, chi non si rassegna.
A volte, quando li sento arrivare, quando li sento imboccare il corridoio e parlare tutti insieme, mi pare che le voci si mescolino e trovino tutte unite la forza di superare il tempo, di estrarre dal passato altre voci che sono a tratti rimbalzate fra queste mura basse e sotterranee, prima di andarsene insieme agli uomini che le contenevano. Qualcuno lascia un buon ricordo, qualcuno un ricordo cattivo. Qualcuno solo una camicia dimenticata nell’armadietto.
Poi ci sono gli Altri.
Arrivano e scendono dal pullman guardandosi intorno, curiosi come se non si fossero mai trovati prima in un posto come questo. A volte hanno l’aria prepotente dei forti, a volte quella dimessa degli ultimi in classi..ca. Ogni volta hanno una maglia con colori diversi. Anche fra di loro individuo i nomi e i caratteri, da come si muovono, da come parlano, da come stanno zitti. Da un’altra parte, in un’altra città, in un altro spogliatoio, vivono le stesse situazioni, mandate a memoria dall’abitudine collettiva e da piccoli singoli rituali. Lo so bene, perché una volta ogni quindici giorni siamo noi a essere gli Altri.
Io sono in giro da trentatre anni, giorno piú, giorno meno. Sono fra i primi ad arrivare e fra gli ultimi ad andarmene. Per forza di cose vivo de..lato e i ri..ettori emanano una luce che non conosco. O meglio, che non saprei riconoscere.
D’altronde, dove stiamo noi, le luci sono un poco piú smorzate, le grida d’incitamento un poco piú rauche, le scritte sugli striscioni sporadiche e con poca fantasia.
È un mondo fatto d’erba, di calzoncini macchiati di fango o di verde, di righe tracciate con la polvere bianca, di olio per massaggi, di calzini bagnati, di ferite e infortuni. Esplosioni di esultanza, urla d’incitamento, grida di rabbia. Bestemmie di cui a volte si capisce l’intenzione ma non il signi..cato, perché sono dette in una lingua che non conosci. E, nonostante le pulizie accurate, nell’aria rimane sempre un leggero odore di umido e sudore.
Questo è il calcio, in genere.
Questa è la Serie B, in particolare. Quella dove tutto avviene di sabato.
Per tanti una giornata qualunque, per altri una giornata speciale. Per qualcuno, una di quelle giornate in cui le streghe non balleranno invano e in cui paiono avverarsi le profezie.
Sono passati trentatre anni, giorno piú, giorno meno. E anche per me, oggi, è arrivata una croce.
Primo
La città, da sempre, aspetta.
Sono i cicli morbidi della provincia, dove tutto arriva con calma, da fuori. Una volta era la
ferrovia, poi sono arrivate le automobili, la televisione, l’autostrada e ora Internet. Ma il senso rimane quello.
L’attesa si è fatta solo un poco piú ansiosa, l’orgasmo un poco piú precoce.
Ci sono ancora dei bar e dei perdigiorno, persone che hanno i soldi e persone che esibiscono soldi che non hanno. Ci sono parole vuote e discorsi pieni di parole, che sovente hanno lo stesso significato. La faccia al sole contende con tenacia spazio alla faccia in ombra.
E viceversa.
Qui, come in altre città simili a questa, in realtà Facebook è sempre esistito.
Contatti fatti di sussurri, sguardi, cose dette di fronte e fatte alle spalle, sedili ribaltati, sesso frettoloso con addosso i calzini, matrimoni, separazioni e ancora matrimoni. I ricchi con i ricchi, i poveri cristi con i poveri cristi. Solo la bellezza è una merce di scambio in grado di sospendere questa cadenza e sovvertire i pronostici. Il pensiero è concentrato e diluito, rarefatto e rappreso, noncurante e permaloso.
Tutti dicono questa città di merda.
Quasi nessuno se n’è andato e quei pochi che lo hanno fatto prima o poi sono tornati. Chi per esibire il successo, chi per leccarsi le ferite. E per spiegare agli altri e nascondere a se stessi i veri motivi per cui non ce l’hanno fatta.
Si ritrovano a parlare della loro vita e della vita in genere nello stesso bar in via Roma o in piazza della Noce, dove le facce conosciute sono sempre di meno e i
..gli degli amici sempre piú grandi e sempre piú numerosi. Insieme, vincitori e vinti, perché la scon..tta e la vittoria hanno in comune in ogni caso una personalità e un vigore. Gli altri, quelli che vivono esistenze in pareggio, hanno facce, vestiti e auto anonime. Stanno da altre parti e sono gente piú da cappuccino che da aperitivo.
Come me.
Questo è piú o meno quello che penso ogni volta che attraverso la città mentre vado o torno dallo stadio. Potrei fare la circonvallazione e metterci molto meno, ma ogni volta mi faccio prendere da una specie di fantasia migratoria e scelgo un percorso fra case, negozi, auto, gente a piedi, in bicicletta o in scooter. Qui l’ora di punta non è mai troppo acuminata e si può viaggiare senza subire furti di tempo. Ora che le rotonde hanno sostituito i semafori e sottratto al mondo una valida occasione per cacciarsi le dita nel naso, tutto scorre abbastanza ..uido, salvo quando l’età o la stupidità sono al volante. A volte le due cose coincidono, come per
me in questo momento. Oggi mi sento molto vecchio e molto stupido, per le cose che ho fatto in passato e quelle che devo fare ora. L’esperienza è una cazzata, una cosa che non esiste, un bacio che non sveglia da nessun sonno. È utile per cambiare una lampadina o imbiancare una stanza o prendere un gatto senza farsi graffiare.
Per il resto, è sempre la prima volta.
lunedì 30 gennaio 2012
giovedì 26 gennaio 2012
Nebbia Rossa
AUTORE: Patricia Cornwell
GENERE: Romanzo
TRAMA:
Kay Scarpetta deve incontrare alla Georgia Prison for Women una detenuta colpevole di reati sessuali e madre di un diabolico killer. Kay è determinata a far parlare la donna per scoprire che cosa è davvero successo al suo vice, Jack Fielding, ucciso sei mesi prima. È una ricerca personale e anche professionale, dal momento che Kay sta seguendo un'indagine che riguarda una serie di macabri crimini che lei è convinta abbiano a che fare anche con la morte di Jack Fielding. L'uccisione di un'intera famiglia a Savannah, una giovane donna nel braccio della morte e una catena di altre morti inspiegabili sembrano essere tutti collegati fra loro. Ma chi c'è dietro tutto questo e perché? Kay Scarpetta scopre presto che questo è solo l'inizio di qualcosa di più terribile: un complotto terroristico internazionale. E lei è l'unica che può fermarlo.
INCIPIT:
La ferrovia taglia l’asfalto screpolato della strada che porta in quella regione degli usa chiamata Low country. Mentre passo sopra i binari arruginiti di un colore che mi ricorda il sangue rappreso, penso che forse dovrei tornare indietro, invece di proseguire verso il gpfw, il carcere femminile della Georgia. È giovedì 30 giugno e mancano pochi minuti alle quattro: farei ancora in tempo a prendere l’ultimo volo per Boston. Ma so già che non lo farò.
In questa zona, lungo la costa della Georgia, si alternano fitti boschi, vaste praterie e paludi attraversate da rigagnoli e canali su cui volano bassi egrette e aironi. Dai rami degli alberi pende la barba del frate e dal sottobosco spunta infestante il kudzu; cipressi giganti, dai tronchi nodosi e contorti, paiono creature preistoriche che avanzano lente nelle paludi.
Non ho visto alligatori né serpenti, ma sono certa che ce ne sono parecchi. Si saranno nascosti, spaventati dal rumore della mia marmitta.
Non so come ho fatto a finire su questo ingombrante trabiccolo bianco, che non tiene la strada e puzza di fritto, di fumo di sigaretta e anche un po’ di pesce marcio. Al mio assistente, Bryce, avevo raccomandato di prenotare una berlina di media cilindrata, sicura e affidabile, con airbag e gps, preferibilmente una Volvo una Camry.
Quando all’aeroporto mi si è presentato un ragazzo con un furgone privo di condizionatore e senza neanche una cartina a bordo, gli ho detto che doveva esserci un errore, che doveva avermi portato il mezzo destinato a qualcun altro. Lui però mi ha fatto vedere che sul contratto c’era il mio nome, Kate Scarpetta.
Ho ribattuto che io mi chiamo Kay, non Kate, e che non mi importava se sul contratto c’era il mio cognome: non era quello il veicolo che avevo prenotato.
Il ragazzo, in canottiera, bermuda e scarpe da pesca, molto abbronzato, si è scusato a nome della Lowcountry Concierge Connection: non sapeva che cosa fosse successo, forse un problema al computer. Avrebbe certamente provveduto a procurarmi la vettura che avevo richiesto, ma purtroppo ci sarebbe voluto un po’ di tempo: non era sicuro di riuscire a evadere la richiesta in giornata.
E' andato tutto storto da quando sono partita.
Mi pare di sentire mio marito, Benton, che bisbiglia: " Te l'avevo detto!". me lo rivedo, ieri sera, appoggiato al tavolo di travertino della cucina, alto, snello, folti capelli grigi, la faccia scura. Abbiamo bisticciato perché non voleva che venissi qui. Ho ancora un po' di mal di testa...non so perché certe volte mi convinco che mezza bottiglia di vino possa servire a fare pace. So benissimo che non è vero. Forse ne abbiamo bevuto addirittura più di mezza. Era un pttimo pinot grigio, limpido, leggero, con un lieve retrogusto fruttato.
L'aria che entra dal finestrino è calda e densa e ha l'odore pungente e solforoso di foglie marce, fango e acqua stagnante. Prendo una curva in pieno sole con il furgone che sussulta e vedo alcuni avvoltoi dal collo rosso che beccano qualcosa in mezzo alla strada. Si alzano lentamente in volo, battendo le grosse ali, e io sterzo per non passare sopra la carcassa di un procione che emana un tanfo putrido a me ben noto. I morti puzzano tutti allo stesso modo, che siano uomini o animali. Riconosco a distanza l'odore della morte e, se scendessi a controllare, probabilmente saei in grado di identificare la causa del decesso di quella povera bestia, quando è avvenuta, le circostanze del suo investimento e magari anche il tipo di veicolo.
GENERE: Romanzo
TRAMA:
Kay Scarpetta deve incontrare alla Georgia Prison for Women una detenuta colpevole di reati sessuali e madre di un diabolico killer. Kay è determinata a far parlare la donna per scoprire che cosa è davvero successo al suo vice, Jack Fielding, ucciso sei mesi prima. È una ricerca personale e anche professionale, dal momento che Kay sta seguendo un'indagine che riguarda una serie di macabri crimini che lei è convinta abbiano a che fare anche con la morte di Jack Fielding. L'uccisione di un'intera famiglia a Savannah, una giovane donna nel braccio della morte e una catena di altre morti inspiegabili sembrano essere tutti collegati fra loro. Ma chi c'è dietro tutto questo e perché? Kay Scarpetta scopre presto che questo è solo l'inizio di qualcosa di più terribile: un complotto terroristico internazionale. E lei è l'unica che può fermarlo.
INCIPIT:
La ferrovia taglia l’asfalto screpolato della strada che porta in quella regione degli usa chiamata Low country. Mentre passo sopra i binari arruginiti di un colore che mi ricorda il sangue rappreso, penso che forse dovrei tornare indietro, invece di proseguire verso il gpfw, il carcere femminile della Georgia. È giovedì 30 giugno e mancano pochi minuti alle quattro: farei ancora in tempo a prendere l’ultimo volo per Boston. Ma so già che non lo farò.
In questa zona, lungo la costa della Georgia, si alternano fitti boschi, vaste praterie e paludi attraversate da rigagnoli e canali su cui volano bassi egrette e aironi. Dai rami degli alberi pende la barba del frate e dal sottobosco spunta infestante il kudzu; cipressi giganti, dai tronchi nodosi e contorti, paiono creature preistoriche che avanzano lente nelle paludi.
Non ho visto alligatori né serpenti, ma sono certa che ce ne sono parecchi. Si saranno nascosti, spaventati dal rumore della mia marmitta.
Non so come ho fatto a finire su questo ingombrante trabiccolo bianco, che non tiene la strada e puzza di fritto, di fumo di sigaretta e anche un po’ di pesce marcio. Al mio assistente, Bryce, avevo raccomandato di prenotare una berlina di media cilindrata, sicura e affidabile, con airbag e gps, preferibilmente una Volvo una Camry.
Quando all’aeroporto mi si è presentato un ragazzo con un furgone privo di condizionatore e senza neanche una cartina a bordo, gli ho detto che doveva esserci un errore, che doveva avermi portato il mezzo destinato a qualcun altro. Lui però mi ha fatto vedere che sul contratto c’era il mio nome, Kate Scarpetta.
Ho ribattuto che io mi chiamo Kay, non Kate, e che non mi importava se sul contratto c’era il mio cognome: non era quello il veicolo che avevo prenotato.
Il ragazzo, in canottiera, bermuda e scarpe da pesca, molto abbronzato, si è scusato a nome della Lowcountry Concierge Connection: non sapeva che cosa fosse successo, forse un problema al computer. Avrebbe certamente provveduto a procurarmi la vettura che avevo richiesto, ma purtroppo ci sarebbe voluto un po’ di tempo: non era sicuro di riuscire a evadere la richiesta in giornata.
E' andato tutto storto da quando sono partita.
Mi pare di sentire mio marito, Benton, che bisbiglia: " Te l'avevo detto!". me lo rivedo, ieri sera, appoggiato al tavolo di travertino della cucina, alto, snello, folti capelli grigi, la faccia scura. Abbiamo bisticciato perché non voleva che venissi qui. Ho ancora un po' di mal di testa...non so perché certe volte mi convinco che mezza bottiglia di vino possa servire a fare pace. So benissimo che non è vero. Forse ne abbiamo bevuto addirittura più di mezza. Era un pttimo pinot grigio, limpido, leggero, con un lieve retrogusto fruttato.
L'aria che entra dal finestrino è calda e densa e ha l'odore pungente e solforoso di foglie marce, fango e acqua stagnante. Prendo una curva in pieno sole con il furgone che sussulta e vedo alcuni avvoltoi dal collo rosso che beccano qualcosa in mezzo alla strada. Si alzano lentamente in volo, battendo le grosse ali, e io sterzo per non passare sopra la carcassa di un procione che emana un tanfo putrido a me ben noto. I morti puzzano tutti allo stesso modo, che siano uomini o animali. Riconosco a distanza l'odore della morte e, se scendessi a controllare, probabilmente saei in grado di identificare la causa del decesso di quella povera bestia, quando è avvenuta, le circostanze del suo investimento e magari anche il tipo di veicolo.
L'insostenibile leggerezza dell'essere
AUTORE: Milan Kundera
GENERE: Romanzo
TRAMA:
"Il suo romanzo ci dimostra come nella vita tutto quello che scegliamo e apprezziamo come leggero non tarda a rivelare il proprio peso insostenibile. Forse solo la vivacità e la mobilità dell'intelligenza sfuggono a questa condanna: le qualità con cui è scritto il romanzo, che appartengono a un altro universo da quello del vivere" (Italo Calvino). "Chi è pesante non può fare a meno di innamorarsi perdutamente di chi vola lievemente nell'aria, tra il fantastico e il possibile: mentre i leggeri sono respinti dai loro simili e trascinati dalla "compassione" verso i corpi e le anime possedute dalla pesantezza. Così accade nel romanzo: Tomás ama Tereza, Tereza ama Tomás: Franz ama Sabina, Sabina (almeno per qualche mese) ama Franz; quasi come nelle Affinità elettive si forma il perfetto quadrato delle affinità amorose". (Pietro Citati).
INCIPIT:
PARTE PRIMA
LA LEGGEREZZA E LA PESANTEZZA
1
L'idea dell'eterno ritorno è misteriosa e con essa Nietzsche ha messo molti filosofi nell'imbarazzo: pensare che un giorno ogni cosa si ripeterà così come l'abbiamo già vissuta, e che anche questa ripetizione debba ripetersi all'infinito! Che significato ha questo folle mito?
Il mito dell'eterno ritorno afferma, per negazione, che la vita che scompare una volta per sempre, che non ritorna, è simile a un'ombra, è priva di peso, è morta già in precedenza, e che, sia stata essa terribile, bella o splendida, quel terrore, quello splendore, quella bellezza non significano nulla. Non occorre tenerne conto, come di una guerra fra due Stati africani del quattordicesimo secolo che non ha cambiato nulla sulla faccia della terra, benché trecentomila negri vi abbiano trovato la morte tra torture indicibili.
E anche in questa guerra fra due Stati africani del quattordicesimo secolo, cambierà qualcosa se si ripeterà innumerevoli volte nell'eterno ritorno?
Sì, qualcosa cambierà: essa diventerà un blocco che svetta e perdura, e la sua stupidità non avrà rimedio.
Se la Rivoluzione francese dovesse ripetersi all'infinito, la storiografia sarebbe meno orgogliosa di Robespierre. Dal momento, però, che parla di qualcosa che non ritorna, gli anni di sangue si sono trasformati in semplici parole, in teorie, in discussioni, sono diventati più leggeri delle piume, non incutono paura. C'è un’enorme differenza tra un Robespierre che si è presentato una sola volta nella storia e un Robespierre che torna eternamente a tagliare la testa ai francesi.
Diciamo quindi che l'idea dell'eterno ritornoindica una prospettiva dalla quale le cose appaiono in maniera diversa da come noi le conosciamo: appaiono prive della circostanza attenuante della loro fugacità.
Questa circostanza attenuante ci impedisce infatti di pronunciare un qualsiasi verdetto. Si può condannare ciò che è effimero? La luce rossastra del tramonto illumina ogni cosa con il fascino della nostalgia: anche la ghigliottina.
Or non è molto, mi sono sorpreso a provare una sensazione incredibile: stavo sfogliando un libro su Hitler e mi sono commosso alla vista di alcune sue fotografie: mi ricordavano la mia infanzia; io l'ho vissuta durante la guerra; parecchi miei familiari hanno trovato la morte nei campi di concentramento hitleriani; ma che cos'era la loro morte davanti a una fotografia di Hitler che mi ricordava un periodo scomparso della mia vita, un periodo che non sarebbe più tornato?
Questa riconciliazione con Hitler tradisce la profonda perversione morale che appartiene a un mondo fondato essenzialmente sull'esistenza del ritorno, perché in un mondo simile tutto è già perdonato e quindi tutto è cinicamente permesso.
2
Se ogni secondo della nostra vita si ripete un numero infinito di volte, siamo inchiodati all'eternità come Gesù Cristo alla croce. È un'idea terribile. Nel mondo dell'eterno ritorno, su ogni gesto grava il peso di una insostenibile responsabilità. Ecco perché Nietzsche chiamava l'idea dell'eterno ritorno il fardello più pesante (das schwerste Gewicht).
Se l'eterno ritorno è il fardello più pesante, allora le nostre vite su questo sfondo possono apparire in tutta la loro meravigliosa leggerezza.
Ma davvero la pesantezza è terribile e la leggerezza è meravigliosa?
Il fardello più pesante ci opprime, ci piega, ci schiaccia al suolo. Ma nella poesia d'amore di tutti i tempi la donna desidera essere gravata dal fardello del corpo dell'uomo. Il fardello più pesante è quindi allo stesso tempo l'immagine del più intenso compimento vitale. Quanto più il fardello è pesante, tanto più la nostra vita è vicina alla terra, tanto più è reale e autentica.
Al contrario, l'assenza assoluta di un fardello fa sì che l'uomo diventi più leggero dell'aria, prenda il volo verso l'alto, si allontani dalla terra, dall'essere terreno, diventi solo a metà reale e i suoi movimenti siano tanto liberi quanto privi di significato.
Che cosa dobbiamo scegliere, allora? La pesantezza o la leggerezza?
Questa domanda se l'era posta Parmenide nel sesto secolo avanti Cristo. Egli vedeva l'intero universo diviso in coppie di opposizioni: luce-buio, spesso-sottile, caldo-freddo, essere-non essere. Uno dei poli dell'opposizione era per lui positivo (la luce, il caldo, il sottile, l'essere), l'altro negativo. Questa suddivisione in un polo positivo e in uno negativo può apparirci di una semplicità puerile. Salvo in un caso: che cos'è positivo, la pesantezza o la leggerezza?
Parmenide rispose: il leggero è il positivo, il pesante è negativo.
Aveva ragione oppure no? Questo è il problema. Una sola cosa era certa: l'opposizione pesante-leggero è la più misteriosa e la più ambigua tra tutte le opposizioni.
GENERE: Romanzo
TRAMA:
"Il suo romanzo ci dimostra come nella vita tutto quello che scegliamo e apprezziamo come leggero non tarda a rivelare il proprio peso insostenibile. Forse solo la vivacità e la mobilità dell'intelligenza sfuggono a questa condanna: le qualità con cui è scritto il romanzo, che appartengono a un altro universo da quello del vivere" (Italo Calvino). "Chi è pesante non può fare a meno di innamorarsi perdutamente di chi vola lievemente nell'aria, tra il fantastico e il possibile: mentre i leggeri sono respinti dai loro simili e trascinati dalla "compassione" verso i corpi e le anime possedute dalla pesantezza. Così accade nel romanzo: Tomás ama Tereza, Tereza ama Tomás: Franz ama Sabina, Sabina (almeno per qualche mese) ama Franz; quasi come nelle Affinità elettive si forma il perfetto quadrato delle affinità amorose". (Pietro Citati).
INCIPIT:
PARTE PRIMA
LA LEGGEREZZA E LA PESANTEZZA
1
L'idea dell'eterno ritorno è misteriosa e con essa Nietzsche ha messo molti filosofi nell'imbarazzo: pensare che un giorno ogni cosa si ripeterà così come l'abbiamo già vissuta, e che anche questa ripetizione debba ripetersi all'infinito! Che significato ha questo folle mito?
Il mito dell'eterno ritorno afferma, per negazione, che la vita che scompare una volta per sempre, che non ritorna, è simile a un'ombra, è priva di peso, è morta già in precedenza, e che, sia stata essa terribile, bella o splendida, quel terrore, quello splendore, quella bellezza non significano nulla. Non occorre tenerne conto, come di una guerra fra due Stati africani del quattordicesimo secolo che non ha cambiato nulla sulla faccia della terra, benché trecentomila negri vi abbiano trovato la morte tra torture indicibili.
E anche in questa guerra fra due Stati africani del quattordicesimo secolo, cambierà qualcosa se si ripeterà innumerevoli volte nell'eterno ritorno?
Sì, qualcosa cambierà: essa diventerà un blocco che svetta e perdura, e la sua stupidità non avrà rimedio.
Se la Rivoluzione francese dovesse ripetersi all'infinito, la storiografia sarebbe meno orgogliosa di Robespierre. Dal momento, però, che parla di qualcosa che non ritorna, gli anni di sangue si sono trasformati in semplici parole, in teorie, in discussioni, sono diventati più leggeri delle piume, non incutono paura. C'è un’enorme differenza tra un Robespierre che si è presentato una sola volta nella storia e un Robespierre che torna eternamente a tagliare la testa ai francesi.
Diciamo quindi che l'idea dell'eterno ritornoindica una prospettiva dalla quale le cose appaiono in maniera diversa da come noi le conosciamo: appaiono prive della circostanza attenuante della loro fugacità.
Questa circostanza attenuante ci impedisce infatti di pronunciare un qualsiasi verdetto. Si può condannare ciò che è effimero? La luce rossastra del tramonto illumina ogni cosa con il fascino della nostalgia: anche la ghigliottina.
Or non è molto, mi sono sorpreso a provare una sensazione incredibile: stavo sfogliando un libro su Hitler e mi sono commosso alla vista di alcune sue fotografie: mi ricordavano la mia infanzia; io l'ho vissuta durante la guerra; parecchi miei familiari hanno trovato la morte nei campi di concentramento hitleriani; ma che cos'era la loro morte davanti a una fotografia di Hitler che mi ricordava un periodo scomparso della mia vita, un periodo che non sarebbe più tornato?
Questa riconciliazione con Hitler tradisce la profonda perversione morale che appartiene a un mondo fondato essenzialmente sull'esistenza del ritorno, perché in un mondo simile tutto è già perdonato e quindi tutto è cinicamente permesso.
2
Se ogni secondo della nostra vita si ripete un numero infinito di volte, siamo inchiodati all'eternità come Gesù Cristo alla croce. È un'idea terribile. Nel mondo dell'eterno ritorno, su ogni gesto grava il peso di una insostenibile responsabilità. Ecco perché Nietzsche chiamava l'idea dell'eterno ritorno il fardello più pesante (das schwerste Gewicht).
Se l'eterno ritorno è il fardello più pesante, allora le nostre vite su questo sfondo possono apparire in tutta la loro meravigliosa leggerezza.
Ma davvero la pesantezza è terribile e la leggerezza è meravigliosa?
Il fardello più pesante ci opprime, ci piega, ci schiaccia al suolo. Ma nella poesia d'amore di tutti i tempi la donna desidera essere gravata dal fardello del corpo dell'uomo. Il fardello più pesante è quindi allo stesso tempo l'immagine del più intenso compimento vitale. Quanto più il fardello è pesante, tanto più la nostra vita è vicina alla terra, tanto più è reale e autentica.
Al contrario, l'assenza assoluta di un fardello fa sì che l'uomo diventi più leggero dell'aria, prenda il volo verso l'alto, si allontani dalla terra, dall'essere terreno, diventi solo a metà reale e i suoi movimenti siano tanto liberi quanto privi di significato.
Che cosa dobbiamo scegliere, allora? La pesantezza o la leggerezza?
Questa domanda se l'era posta Parmenide nel sesto secolo avanti Cristo. Egli vedeva l'intero universo diviso in coppie di opposizioni: luce-buio, spesso-sottile, caldo-freddo, essere-non essere. Uno dei poli dell'opposizione era per lui positivo (la luce, il caldo, il sottile, l'essere), l'altro negativo. Questa suddivisione in un polo positivo e in uno negativo può apparirci di una semplicità puerile. Salvo in un caso: che cos'è positivo, la pesantezza o la leggerezza?
Parmenide rispose: il leggero è il positivo, il pesante è negativo.
Aveva ragione oppure no? Questo è il problema. Una sola cosa era certa: l'opposizione pesante-leggero è la più misteriosa e la più ambigua tra tutte le opposizioni.
domenica 22 gennaio 2012
Il Fu Mattia Pascal
AUTORE: Luigi Pirandello
GENERE: Letteratura Italiana
TRAMA:
Il romanzo, pubblicato nel 1904, narra la storia di un timido provinciale, Mattia Pascal, che si allontana di casa dopo una delle solite liti con la moglie Romilda e la suocera, e, arrivato a Montecarlo, vince, giocando a caso, diverse decine di migliaia di lire. Il possesso di una grossa somma e la lettura di una notizia di cronaca che annuncia la sua morte (si tratta di un'erronea identificazione del cadavere di un disperato che si è ucciso gettandosi nel pozzo di casa Pascal), lo inducono a simulare davvero la morte e a tentare di cominciare una nuova vita. Mattia Pascal diventa così il signor Adriano Meis, e va a stabilirsi a Roma.
INCIPIT:
- Io mi chiamo Mattia Pascal.
- Grazie, caro. Questo lo so.
- E ti par poco?
Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo allora che cosa volesse dire il non sapere neppur questo, il non poter più rispondere, cioè, come prima, all'occorrenza:
- Io mi chiamo Mattia Pascal.
Qualcuno vorrà bene compiangermi (costa così poco), immaginando l'atroce cordoglio d'un disgraziato, al quale avvenga di scoprire tutt'a un tratto che... sì, niente, insomma: né padre, né madre, né come fu o come non fu; e vorrà pur bene indignarsi (costa anche meno) della corruzione dei costumi, e de' vizii, e della tristezza dei tempi, che di tanto male possono esser cagione a un povero innocente.
Ebbene, si accomodi. Ma è mio dovere avvertirlo che non si tratta propriamente di questo. Potrei qui esporre, di fatti, in un albero genealogico, l'origine e la discendenza della mia famiglia e dimostrare come qualmente non solo ho conosciuto mio padre e mia madre, ma e gli antenati miei e le loro azioni, in un lungo decorso di tempo, non tutte veramente lodevoli.
E allora?
Ecco: il mio caso è assai più strano e diverso; tanto diverso e strano che mi faccio a narrarlo.
Fui, per circa due anni, non so se più cacciatore di topi che guardiano di libri nella biblioteca che un monsignor Boccamazza, nel 1803, volle lasciar morendo al nostro Comune. È ben chiaro che questo Monsignore dovette conoscer poco l'indole e le abitudini de' suoi concittadini; o forse sperò che il suo lascito dovesse col tempo e con la comodità accendere nel loro animo l'amore per lo studio. Finora, ne posso rendere testimonianza, non si è acceso: e questo dico in lode de' miei concittadini: del dono anzi il Comune si dimostrò così poco grato al Boccamazza, che non volle neppure erigergli un mezzo busto pur che fosse, e i libri lasciò per molti e molti anni accatastati in un vasto e umido magazzino, donde poi li trasse, pensate voi in quale stato, per allogarli nella chiesetta fuori mano di Santa Maria Liberale, non so per qual ragione sconsacrata. Qua li affidò, senz'alcun discernimento, a titolo di beneficio, e come sinecura, a qualche sfaccendato ben protetto il quale, per due lire al giorno, stando a guardarli, o anche senza guardarli affatto, ne avesse sopportato per alcune ore il tanfo della muffa e del vecchiume.
Tal sorte toccò anche a me; e fin dal primo giorno io concepii così misera stima dei libri, sieno essi a stampa o manoscritti (come alcuni antichissimi della nostra biblioteca), che ora non mi sarei mai e poi mai messo a scrivere, se, come ho detto, non stimassi davvero strano il mio caso e tale da poter servire d'ammaestramento a qualche curioso lettore, che per avventura, riducendosi finalmente a effetto l'antica speranza della buon'anima di monsignor Boccamazza, capitasse in questa biblioteca, a cui io lascio questo mio manoscritto, con l'obbligo però che nessuno possa aprirlo se non cinquant'anni dopo la mia terza, ulti- ma e definitiva morte.
Giacché, per il momento (e Dio sa quanto me ne duole), io sono morto, sì, già due volte, ma la prima per errore, e la seconda... sentirete.
GENERE: Letteratura Italiana
TRAMA:
Il romanzo, pubblicato nel 1904, narra la storia di un timido provinciale, Mattia Pascal, che si allontana di casa dopo una delle solite liti con la moglie Romilda e la suocera, e, arrivato a Montecarlo, vince, giocando a caso, diverse decine di migliaia di lire. Il possesso di una grossa somma e la lettura di una notizia di cronaca che annuncia la sua morte (si tratta di un'erronea identificazione del cadavere di un disperato che si è ucciso gettandosi nel pozzo di casa Pascal), lo inducono a simulare davvero la morte e a tentare di cominciare una nuova vita. Mattia Pascal diventa così il signor Adriano Meis, e va a stabilirsi a Roma.
INCIPIT:
I: Premessa
Una delle poche cose, anzi forse la sola ch'io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de' miei amici o conoscenti dimostrava d'aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo:- Io mi chiamo Mattia Pascal.
- Grazie, caro. Questo lo so.
- E ti par poco?
Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo allora che cosa volesse dire il non sapere neppur questo, il non poter più rispondere, cioè, come prima, all'occorrenza:
- Io mi chiamo Mattia Pascal.
Qualcuno vorrà bene compiangermi (costa così poco), immaginando l'atroce cordoglio d'un disgraziato, al quale avvenga di scoprire tutt'a un tratto che... sì, niente, insomma: né padre, né madre, né come fu o come non fu; e vorrà pur bene indignarsi (costa anche meno) della corruzione dei costumi, e de' vizii, e della tristezza dei tempi, che di tanto male possono esser cagione a un povero innocente.
Ebbene, si accomodi. Ma è mio dovere avvertirlo che non si tratta propriamente di questo. Potrei qui esporre, di fatti, in un albero genealogico, l'origine e la discendenza della mia famiglia e dimostrare come qualmente non solo ho conosciuto mio padre e mia madre, ma e gli antenati miei e le loro azioni, in un lungo decorso di tempo, non tutte veramente lodevoli.
E allora?
Ecco: il mio caso è assai più strano e diverso; tanto diverso e strano che mi faccio a narrarlo.
Fui, per circa due anni, non so se più cacciatore di topi che guardiano di libri nella biblioteca che un monsignor Boccamazza, nel 1803, volle lasciar morendo al nostro Comune. È ben chiaro che questo Monsignore dovette conoscer poco l'indole e le abitudini de' suoi concittadini; o forse sperò che il suo lascito dovesse col tempo e con la comodità accendere nel loro animo l'amore per lo studio. Finora, ne posso rendere testimonianza, non si è acceso: e questo dico in lode de' miei concittadini: del dono anzi il Comune si dimostrò così poco grato al Boccamazza, che non volle neppure erigergli un mezzo busto pur che fosse, e i libri lasciò per molti e molti anni accatastati in un vasto e umido magazzino, donde poi li trasse, pensate voi in quale stato, per allogarli nella chiesetta fuori mano di Santa Maria Liberale, non so per qual ragione sconsacrata. Qua li affidò, senz'alcun discernimento, a titolo di beneficio, e come sinecura, a qualche sfaccendato ben protetto il quale, per due lire al giorno, stando a guardarli, o anche senza guardarli affatto, ne avesse sopportato per alcune ore il tanfo della muffa e del vecchiume.
Tal sorte toccò anche a me; e fin dal primo giorno io concepii così misera stima dei libri, sieno essi a stampa o manoscritti (come alcuni antichissimi della nostra biblioteca), che ora non mi sarei mai e poi mai messo a scrivere, se, come ho detto, non stimassi davvero strano il mio caso e tale da poter servire d'ammaestramento a qualche curioso lettore, che per avventura, riducendosi finalmente a effetto l'antica speranza della buon'anima di monsignor Boccamazza, capitasse in questa biblioteca, a cui io lascio questo mio manoscritto, con l'obbligo però che nessuno possa aprirlo se non cinquant'anni dopo la mia terza, ulti- ma e definitiva morte.
Giacché, per il momento (e Dio sa quanto me ne duole), io sono morto, sì, già due volte, ma la prima per errore, e la seconda... sentirete.
II: Premessa seconda (filosofica) a mo' di scusa
L'idea o piuttosto, il consiglio di scrivere mi è venuto dal mio reverendo amico don Eligio Pellegrinotto, che al presente ha in custodia i libri della Boccamazza, e al quale io affido il manoscritto appena sarà terminato, se mai sarà.
Lo scrivo qua, nella chiesetta sconsacrata, al lume che mi viene dalla lanterna lassù, della cupola; qua, nell'abside riservata al bibliotecario e chiusa da una bassa cancellata di legno a pilastrini, mentre don Eligio sbuffa sotto l'incarico che si è eroicamente assunto di mettere un po' d'ordine in questa vera babilonia di libri. Temo che non ne verrà mai a capo. Nessuno prima di lui s'era curato di sapere, almeno all'ingrosso, dando di sfuggita un'occhiata ai dorsi, che razza di libri quel Monsignore avesse donato al Comune: si riteneva che tutti o quasi dovessero trattare di materie religiose. Ora il Pellegrinotto ha scoperto, per maggior sua consolazione, una varietà grandissima di materie nella biblioteca di Monsignore; e siccome i libri furon presi di qua e di là nel magazzino e accozzati così come venivano sotto mano, la confusione è indescrivibile. Si sono strette per la vicinanza fra questi libri amicizie oltre ogni dire speciose: don Eligio Pellegrinotto mi ha detto, ad esempio, che ha stentato non poco a staccare da un trattato molto licenzioso Dell'arte di amar le donne libri tre di Anton Muzio Porro, dell'anno 1571, una Vita e morte di Faustino Materucci, Benedettino di Polirone, che taluni chiamano beato, biografia edita a Mantova nel 1625. Per l'umidità, le legature de' due volumi si erano fraternamente appiccicate. Notare che nel libro secondo di quel trattato licenzioso si discorre a lungo della vita e delle avventure monacali.
Molti libri curiosi e piacevolissimi don Eligio Pellegrinotto, arrampicato tutto il giorno su una scala da lampionajo, ha pescato negli scaffali della biblioteca, Ogni qual volta ne trova uno, lo lancia dall'alto, con garbo, sul tavolone che sta in mezzo; la chiesetta ne rintrona; un nugolo di polvere si leva, da cui due o tre ragni scappano via spaventati: io accorro dall'abside, scavalcando la cancellata; do prima col libro stesso la caccia ai ragni su pe'l tavolone polveroso; poi apro il libro e mi metto a leggiucchiarlo.
Così, a poco a poco, ho fatto il gusto a siffatte letture. Ora don Eligio mi dice che il mio libro dovrebbe esser condotto sul modello di questi ch'egli va scovando nella biblioteca, aver cioè il loro particolar sapore. Io scrollo le spalle e gli rispondo che non è fatica per me. E poi altro mi trattiene.
Tutto sudato e impolverato, don Eligio scende dalla scala e viene a prendere una boccata d'aria nell'orticello che ha trovato modo di far sorgere qui dietro l'abside, riparato giro giro da stecchi e spuntoni.
- Eh, mio reverendo amico, - gli dico io, seduto sul murello, col mento appoggiato al pomo del bastone, mentr'egli attende alle sue lattughe. - Non mi par più tempo, questo, di scriver libri, neppure per ischerzo. In considerazione anche della letteratura, come per tutto il resto, io debbo ripetere il mio solito ritornello: Maledetto sia Copernico!
- Oh oh oh, che c'entra Copernico! - esclama don Eligio, levandosi su la vita, col volto infocato sotto il cappellaccio di paglia.
- C'entra, don Eligio. Perché, quando la Terra non girava...
- E dàlli! Ma se ha sempre girato!
- Non è vero. L'uomo non lo sapeva, e dunque era come se non girasse. Per tanti, anche adesso non gira. L'ho detto l'altro giorno a un vecchio contadino, e sapete come m'ha risposto? Ch'era una buona scusa per gli ubriachi. Del resto, anche voi scusate, non potete mettere in dubbio che Giosuè fermò il Sole. Ma lasciamo star questo. Io dico che quando la Terra non girava, e l'uomo, vestito da greco o da romano, vi faceva così bella figura e così altamente sentiva di sé e tanto si compiaceva della propria dignità, credo bene che potesse riuscire accetta una narrazione minuta e piena d'oziosi particolari. Si legge o non si legge in Quintiliano, come voi m'avete insegnato, che la storia doveva esser fatta per raccontare e non per provare?
- Non nego, - risponde don Eligio, - ma è vero altresì che non si sono mai scritti libri così minuti, anzi minuziosi in tutti i più riposti particolari, come dacché, a vostro dire, la Terra s'è messa a girare.
- E va bene! Il signor conte si levò per tempo, alle ore otto e mezzo precise... La signora contessa indossò un abito lilla con una ricca fioritura di merletti alla gola... Teresina si moriva di fame... Lucrezia spasimava d'amore... Oh, santo Dio! e che volete che me n'importi? Siamo o non siamo su un'invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gita e gira, senza saper perché, senza pervenir mai a destino, come se ci provasse gusto a girar così, per farci sentire ora un po' più di caldo, ora un po' più di freddo, e per farci morire - spesso con la coscienza d'aver commesso una sequela di piccole sciocchezze - dopo cinquanta o sessanta giri? Copernico, Copernico, don Eligio mio ha rovinato l'umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell'infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell'Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci ormai le nostre. Avete letto di quel piccolo disastro delle Antille? Niente. La Terra, poverina, stanca di girare, come vuole quel canonico polacco, senza scopo, ha avuto un piccolo moto d'impazienza, e ha sbuffato un po' di fuoco per una delle tante sue bocche. Chi sa che cosa le aveva mosso quella specie di bile. Forse la stupidità degli uomini che non sono stati mai così nojosi come adesso. Basta. Parecchie migliaja di vermucci abbrustoliti. E tiriamo innanzi. Chi ne parla più?
Don Eligio Pellegrinotto mi fa però osservare che per quanti sforzi facciamo nel crudele intento di strappare, di distruggere le illusioni che la provvida natura ci aveva create a fin di bene, non ci riusciamo. Per fortuna, l'uomo si distrae facilmente.
Questo è vero. Il nostro Comune, in certe notti segnate nel calendario, non fa accendere i lampioni, e spesso - se è nuvolo - ci lascia al bujo.
Il che vuol dire, in fondo, che noi anche oggi crediamo che la luna non stia per altro nel cielo, che per farci lume di notte, come il sole di giorno, e le stelle per offrirci un magnifico spettacolo. Sicuro. E dimentichiamo spesso e volentieri di essere atomi infinitesimali per rispettarci e ammirarci a vicenda, e siamo capaci di azzuffarci per un pezzettino di terra o di dolerci di certe cose, che, ove fossimo veramente compenetrati di quello che siamo, dovrebbero parerci miserie incalcolabili.
Ebbene, in grazia di questa distrazione provvidenziale, oltre che per la stranezza del mio caso, io parlerò di me, ma quanto più brevemente mi sarà possibile, dando cioè soltanto quelle notizie che stimerò necessarie.
Alcune di esse, certo, non mi faranno molto onore; ma io mi trovo ora in una condizione così eccezionale, che posso considerarmi come già fuori della vita, e dunque senza obblighi e senza scrupoli di sorta.
Cominciamo.
Lo scrivo qua, nella chiesetta sconsacrata, al lume che mi viene dalla lanterna lassù, della cupola; qua, nell'abside riservata al bibliotecario e chiusa da una bassa cancellata di legno a pilastrini, mentre don Eligio sbuffa sotto l'incarico che si è eroicamente assunto di mettere un po' d'ordine in questa vera babilonia di libri. Temo che non ne verrà mai a capo. Nessuno prima di lui s'era curato di sapere, almeno all'ingrosso, dando di sfuggita un'occhiata ai dorsi, che razza di libri quel Monsignore avesse donato al Comune: si riteneva che tutti o quasi dovessero trattare di materie religiose. Ora il Pellegrinotto ha scoperto, per maggior sua consolazione, una varietà grandissima di materie nella biblioteca di Monsignore; e siccome i libri furon presi di qua e di là nel magazzino e accozzati così come venivano sotto mano, la confusione è indescrivibile. Si sono strette per la vicinanza fra questi libri amicizie oltre ogni dire speciose: don Eligio Pellegrinotto mi ha detto, ad esempio, che ha stentato non poco a staccare da un trattato molto licenzioso Dell'arte di amar le donne libri tre di Anton Muzio Porro, dell'anno 1571, una Vita e morte di Faustino Materucci, Benedettino di Polirone, che taluni chiamano beato, biografia edita a Mantova nel 1625. Per l'umidità, le legature de' due volumi si erano fraternamente appiccicate. Notare che nel libro secondo di quel trattato licenzioso si discorre a lungo della vita e delle avventure monacali.
Molti libri curiosi e piacevolissimi don Eligio Pellegrinotto, arrampicato tutto il giorno su una scala da lampionajo, ha pescato negli scaffali della biblioteca, Ogni qual volta ne trova uno, lo lancia dall'alto, con garbo, sul tavolone che sta in mezzo; la chiesetta ne rintrona; un nugolo di polvere si leva, da cui due o tre ragni scappano via spaventati: io accorro dall'abside, scavalcando la cancellata; do prima col libro stesso la caccia ai ragni su pe'l tavolone polveroso; poi apro il libro e mi metto a leggiucchiarlo.
Così, a poco a poco, ho fatto il gusto a siffatte letture. Ora don Eligio mi dice che il mio libro dovrebbe esser condotto sul modello di questi ch'egli va scovando nella biblioteca, aver cioè il loro particolar sapore. Io scrollo le spalle e gli rispondo che non è fatica per me. E poi altro mi trattiene.
Tutto sudato e impolverato, don Eligio scende dalla scala e viene a prendere una boccata d'aria nell'orticello che ha trovato modo di far sorgere qui dietro l'abside, riparato giro giro da stecchi e spuntoni.
- Eh, mio reverendo amico, - gli dico io, seduto sul murello, col mento appoggiato al pomo del bastone, mentr'egli attende alle sue lattughe. - Non mi par più tempo, questo, di scriver libri, neppure per ischerzo. In considerazione anche della letteratura, come per tutto il resto, io debbo ripetere il mio solito ritornello: Maledetto sia Copernico!
- Oh oh oh, che c'entra Copernico! - esclama don Eligio, levandosi su la vita, col volto infocato sotto il cappellaccio di paglia.
- C'entra, don Eligio. Perché, quando la Terra non girava...
- E dàlli! Ma se ha sempre girato!
- Non è vero. L'uomo non lo sapeva, e dunque era come se non girasse. Per tanti, anche adesso non gira. L'ho detto l'altro giorno a un vecchio contadino, e sapete come m'ha risposto? Ch'era una buona scusa per gli ubriachi. Del resto, anche voi scusate, non potete mettere in dubbio che Giosuè fermò il Sole. Ma lasciamo star questo. Io dico che quando la Terra non girava, e l'uomo, vestito da greco o da romano, vi faceva così bella figura e così altamente sentiva di sé e tanto si compiaceva della propria dignità, credo bene che potesse riuscire accetta una narrazione minuta e piena d'oziosi particolari. Si legge o non si legge in Quintiliano, come voi m'avete insegnato, che la storia doveva esser fatta per raccontare e non per provare?
- Non nego, - risponde don Eligio, - ma è vero altresì che non si sono mai scritti libri così minuti, anzi minuziosi in tutti i più riposti particolari, come dacché, a vostro dire, la Terra s'è messa a girare.
- E va bene! Il signor conte si levò per tempo, alle ore otto e mezzo precise... La signora contessa indossò un abito lilla con una ricca fioritura di merletti alla gola... Teresina si moriva di fame... Lucrezia spasimava d'amore... Oh, santo Dio! e che volete che me n'importi? Siamo o non siamo su un'invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gita e gira, senza saper perché, senza pervenir mai a destino, come se ci provasse gusto a girar così, per farci sentire ora un po' più di caldo, ora un po' più di freddo, e per farci morire - spesso con la coscienza d'aver commesso una sequela di piccole sciocchezze - dopo cinquanta o sessanta giri? Copernico, Copernico, don Eligio mio ha rovinato l'umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell'infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell'Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci ormai le nostre. Avete letto di quel piccolo disastro delle Antille? Niente. La Terra, poverina, stanca di girare, come vuole quel canonico polacco, senza scopo, ha avuto un piccolo moto d'impazienza, e ha sbuffato un po' di fuoco per una delle tante sue bocche. Chi sa che cosa le aveva mosso quella specie di bile. Forse la stupidità degli uomini che non sono stati mai così nojosi come adesso. Basta. Parecchie migliaja di vermucci abbrustoliti. E tiriamo innanzi. Chi ne parla più?
Don Eligio Pellegrinotto mi fa però osservare che per quanti sforzi facciamo nel crudele intento di strappare, di distruggere le illusioni che la provvida natura ci aveva create a fin di bene, non ci riusciamo. Per fortuna, l'uomo si distrae facilmente.
Questo è vero. Il nostro Comune, in certe notti segnate nel calendario, non fa accendere i lampioni, e spesso - se è nuvolo - ci lascia al bujo.
Il che vuol dire, in fondo, che noi anche oggi crediamo che la luna non stia per altro nel cielo, che per farci lume di notte, come il sole di giorno, e le stelle per offrirci un magnifico spettacolo. Sicuro. E dimentichiamo spesso e volentieri di essere atomi infinitesimali per rispettarci e ammirarci a vicenda, e siamo capaci di azzuffarci per un pezzettino di terra o di dolerci di certe cose, che, ove fossimo veramente compenetrati di quello che siamo, dovrebbero parerci miserie incalcolabili.
Ebbene, in grazia di questa distrazione provvidenziale, oltre che per la stranezza del mio caso, io parlerò di me, ma quanto più brevemente mi sarà possibile, dando cioè soltanto quelle notizie che stimerò necessarie.
Alcune di esse, certo, non mi faranno molto onore; ma io mi trovo ora in una condizione così eccezionale, che posso considerarmi come già fuori della vita, e dunque senza obblighi e senza scrupoli di sorta.
Cominciamo.
mercoledì 18 gennaio 2012
Il diavolo, certamente
AUTORE: Andrea Camilleri
GENERE: Letteratura Italiana
TRAMA:
Due filosofi in lotta per il Nobel, un partigiano tradito da un topolino, un ladro gentiluomo, un magistrato tratto in inganno dal giallo che sta leggendo, un monsignore alle prese col più impietoso dei lapsus, un bimbo che rischia di essere ucciso e un altro capace di sconvolgere un’intera comunità con le sue idee eretiche... E ancora: una ragazza che russa rumorosamente, un’altra alle prese con il tacco spezzato della sua scarpa, una segretaria troppo zelante, una moglie ricchissima e tante, tante donne che amano – tutte – con passione, a volte con perfidia, più spesso con generosità. Ecco i personaggi che, insieme a molti altri, popolano le pagine di questo libro: un romanzo corale sui desideri e i vizi, gli slanci e le bassezze dell’umanità e insieme un perfetto marchingegno a orologeria. Più che perfetto: diabolico. 33 racconti di 3 pagine ciascuno: 333 e non 666, perché questo, come tutti sanno, è il numero della Bestia, e non si discute sul fatto che mezzo diavolo sia meglio di uno intero.
INCIPIT:
I due più grandi filosofi contemporanei, come tali universalmente riconosciuti, stimati, onorati e ognuno con larga schiera di seguaci fieramente avversi l’un l’altro, sono coetanei ma di diversa nazionalità e in vita loro non si sono mai conosciuti di persona. Uno si chiama Jean-Paul Dassin: francesce, nato in una ricchissima famiglia dell’alta borghesia industriale, ha studiato nelle più esclusive scuole del suo paese e si è concesso il lusso di seguire le lezioni dei maestri che più l’interessavano in europa e in America. Ottimo parlatore, brillante conversatore, uomo di mondo, Dassin è l’idolo dei salotti intellettuali, quotidiani e riviste si disputano i suoi articoli così come le tv le sue apparizioni, e le lezioni alla Sorbona assomigliano spesso a una prima teatrale di gala. I suoi tesi filosofici più noti, “ La coscienza felice” e “Il tempo nello spazio dell’Essere”, sono diventati degli autentici bestseller. Non averli nella propria libreria, anche se nemmeno sfogliati, sarebbe segno di mancanza di cultura. Nel suo castello in Normandia organizza spesso a proprie spese convegni filosofici internazionali ad altissimo livello.
Il secondo è Dieter Maltz, figlio di poveri contadini della Bassa Baviera che non avevano denaro sufficiente nemmeno per farlo andare alle scuole elementari. Gli venne in soccorso uno zio calzolaio, ma appena arrivato alle scuole superiori Dieter divenne autonomo, vuoi perchè cominciò a razziare tutte le borse di studio a portata di mano vuoi perchè non disdegnò di arrotondare facendo lavoretti extra come il cameriere, il guardamacchine, il lavavetri. All’università l’incontro con la filosofia du per Dieter come un colpo di fulmine. La sa tesi di laurea, un’analisi estremamente critica della nozione di tempo in Heidegger, gli valse la pubblicazione. Schivo, apaprtato, scorbutico, mai voluto apparire in tv, mai un articolo per un giornale, fotografato raramente di sfuggita e a sua insaputa, Dieter Maltz è stato raggiunto lo stesso dalla fama soprattutto per la sua opera capitale, “Crisi e apologia della ragione”. Malgrado la notorietà, ha continuato a vivere nella povera casa contadina dei genitori, appena appena riaggiustata. Non hai mai partecipato, anche perchè mai invitato, ai convegni nel castello di Dassin.
Così come le loro vite, anche le loro concezioni filosofiche sono diametralmente opposte, però mai i due si sono apertamenti scontrati.
Si, qualche stilettata polemica di Dassin verso Maltz è apparsa in alcune note a margine del suo ultimo libro, “La Calma e il Furore”, e lo stesso ha fatto Maltz nel volume “La Porta e l’Ariete”. Niente di più. I due sembrano volersi ignorare.
Scrivono in modo abissalmente diverso. Tanto dassin è lineare, luminoso, brillante, spesso ironico, quanto Maltz è tortuoso, oscuro, massiccio, privo d’ogni traccia d’ironia. Il pensiero di Dassin arriva dritto come una freccia, quello di Maltz fa un percorso sinuoso, non facilmente decrittabile.
Dassin si è anche divertito a scrivere tre romanzi che hanno avuto un successo mondiale, soprattutto il primo, intitolato “Il Vomito”.
Un giorno comincia a correre la voce che l’Accademia di Svezia sarebbe orientata ad assegnare il Nobel per la letteratura a Dassin per la sua produzione letteraria. Visto che il Nobel non ha unapposita sezione per la filosofia, si tratta di un chiaro escamotage per dargli comunque il premio e riannodare certi rapporti politici con la Francia che nel ultimi tempi hanno incontrato manifeste difficoltà.
L’atteggiamento dei letterati francesi non è entusiasta, è quello di far buon viso a cattivo gioco. La più nota rivista culturale fa un titolo che parafrasa il detto italiano “ a caval donato non si guarda in bocca”. Il venerato decano dei critici letterati scrive però un articolo al vetriolo che demolisce i tre romanzi di Dassin e termina con questa frase: “ Che ne pensa dell’eventuale Nobel per la letteratura a Jean Paul Dassin il grande Dieter Maltz? Sono del parere che, nel suo eremo, se la stia ridendo”.
GENERE: Letteratura Italiana
TRAMA:
Due filosofi in lotta per il Nobel, un partigiano tradito da un topolino, un ladro gentiluomo, un magistrato tratto in inganno dal giallo che sta leggendo, un monsignore alle prese col più impietoso dei lapsus, un bimbo che rischia di essere ucciso e un altro capace di sconvolgere un’intera comunità con le sue idee eretiche... E ancora: una ragazza che russa rumorosamente, un’altra alle prese con il tacco spezzato della sua scarpa, una segretaria troppo zelante, una moglie ricchissima e tante, tante donne che amano – tutte – con passione, a volte con perfidia, più spesso con generosità. Ecco i personaggi che, insieme a molti altri, popolano le pagine di questo libro: un romanzo corale sui desideri e i vizi, gli slanci e le bassezze dell’umanità e insieme un perfetto marchingegno a orologeria. Più che perfetto: diabolico. 33 racconti di 3 pagine ciascuno: 333 e non 666, perché questo, come tutti sanno, è il numero della Bestia, e non si discute sul fatto che mezzo diavolo sia meglio di uno intero.
INCIPIT:
I due più grandi filosofi contemporanei, come tali universalmente riconosciuti, stimati, onorati e ognuno con larga schiera di seguaci fieramente avversi l’un l’altro, sono coetanei ma di diversa nazionalità e in vita loro non si sono mai conosciuti di persona. Uno si chiama Jean-Paul Dassin: francesce, nato in una ricchissima famiglia dell’alta borghesia industriale, ha studiato nelle più esclusive scuole del suo paese e si è concesso il lusso di seguire le lezioni dei maestri che più l’interessavano in europa e in America. Ottimo parlatore, brillante conversatore, uomo di mondo, Dassin è l’idolo dei salotti intellettuali, quotidiani e riviste si disputano i suoi articoli così come le tv le sue apparizioni, e le lezioni alla Sorbona assomigliano spesso a una prima teatrale di gala. I suoi tesi filosofici più noti, “ La coscienza felice” e “Il tempo nello spazio dell’Essere”, sono diventati degli autentici bestseller. Non averli nella propria libreria, anche se nemmeno sfogliati, sarebbe segno di mancanza di cultura. Nel suo castello in Normandia organizza spesso a proprie spese convegni filosofici internazionali ad altissimo livello.
Il secondo è Dieter Maltz, figlio di poveri contadini della Bassa Baviera che non avevano denaro sufficiente nemmeno per farlo andare alle scuole elementari. Gli venne in soccorso uno zio calzolaio, ma appena arrivato alle scuole superiori Dieter divenne autonomo, vuoi perchè cominciò a razziare tutte le borse di studio a portata di mano vuoi perchè non disdegnò di arrotondare facendo lavoretti extra come il cameriere, il guardamacchine, il lavavetri. All’università l’incontro con la filosofia du per Dieter come un colpo di fulmine. La sa tesi di laurea, un’analisi estremamente critica della nozione di tempo in Heidegger, gli valse la pubblicazione. Schivo, apaprtato, scorbutico, mai voluto apparire in tv, mai un articolo per un giornale, fotografato raramente di sfuggita e a sua insaputa, Dieter Maltz è stato raggiunto lo stesso dalla fama soprattutto per la sua opera capitale, “Crisi e apologia della ragione”. Malgrado la notorietà, ha continuato a vivere nella povera casa contadina dei genitori, appena appena riaggiustata. Non hai mai partecipato, anche perchè mai invitato, ai convegni nel castello di Dassin.
Così come le loro vite, anche le loro concezioni filosofiche sono diametralmente opposte, però mai i due si sono apertamenti scontrati.
Si, qualche stilettata polemica di Dassin verso Maltz è apparsa in alcune note a margine del suo ultimo libro, “La Calma e il Furore”, e lo stesso ha fatto Maltz nel volume “La Porta e l’Ariete”. Niente di più. I due sembrano volersi ignorare.
Scrivono in modo abissalmente diverso. Tanto dassin è lineare, luminoso, brillante, spesso ironico, quanto Maltz è tortuoso, oscuro, massiccio, privo d’ogni traccia d’ironia. Il pensiero di Dassin arriva dritto come una freccia, quello di Maltz fa un percorso sinuoso, non facilmente decrittabile.
Dassin si è anche divertito a scrivere tre romanzi che hanno avuto un successo mondiale, soprattutto il primo, intitolato “Il Vomito”.
Un giorno comincia a correre la voce che l’Accademia di Svezia sarebbe orientata ad assegnare il Nobel per la letteratura a Dassin per la sua produzione letteraria. Visto che il Nobel non ha unapposita sezione per la filosofia, si tratta di un chiaro escamotage per dargli comunque il premio e riannodare certi rapporti politici con la Francia che nel ultimi tempi hanno incontrato manifeste difficoltà.
L’atteggiamento dei letterati francesi non è entusiasta, è quello di far buon viso a cattivo gioco. La più nota rivista culturale fa un titolo che parafrasa il detto italiano “ a caval donato non si guarda in bocca”. Il venerato decano dei critici letterati scrive però un articolo al vetriolo che demolisce i tre romanzi di Dassin e termina con questa frase: “ Che ne pensa dell’eventuale Nobel per la letteratura a Jean Paul Dassin il grande Dieter Maltz? Sono del parere che, nel suo eremo, se la stia ridendo”.
giovedì 12 gennaio 2012
1Q84
AUTORE: Haruki Murakami
GENERE: Letteratura Internazionale
TRAMA:
1984, Tokyo. Aomame è bloccata in un taxi nel traffico. L'autista le suggerisce, come unica soluzione per non mancare all'appuntamento che l'aspetta, di uscire dalla tangenziale utilizzando una scala di emergenza, nascosta e poco frequentata. Ma, sibillino, aggiunge di fare attenzione: "Non si lasci ingannare dalle apparenze. La realtà è sempre una sola". Negli stessi giorni Tengo, un giovane aspirante scrittore dotato di buona tecnica ma povero d'ispirazione, riceve uno strano incarico: un editor senza scrupoli gli chiede di riscrivere il romanzo di un'enigmatica diciassettenne così da candidarlo a un premio letterario. Ma "La crisalide d'aria" è un romanzo fantastico tanto ricco di immaginazione quanto sottilmente inquietante: la descrizione della realtà parallela alla nostra e di piccole creature che si nascondono nel corpo umano come parassiti turbano profondamente Tengo. L'incontro con l'autrice non farà che aumentare la sua vertigine: chi è veramente Fukada Eriko? Intanto Aomame (che pure non è certo una ragazza qualsiasi: nella borsetta ha un affilatissimo rompighiaccio con cui deve uccidere un uomo) osserva perplessa il mondo che la circonda: sembra quello di sempre, eppure piccoli, sinistri particolari divergono da quello a cui era abituata. Finché un giorno non vede comparire in cielo una seconda luna e sospetta di essere l'unica persona in grado di attraversare la sottile barriera che divide il 1984 dal 1Q84. Ma capisce anche un'altra cosa: che quella barriera sta per infrangersi.
INCIPIT:
Nel taxi la radio trasmetteva un programma di musica classica in Fm. Il brano era Sinfonietta di Janáček. Non esattamente la musica più adatta da sentire in un taxi bloccato nel traffico. E del resto nemmeno l’autista sembrava ascoltarla con troppa attenzione. L’uomo, di mezza età, era impegnato a guardare in silenzio la fila interminabile di auto che aveva davanti, come un pescatore provetto che, ritto a prua, scruta un minaccioso gorgo di correnti. Aomame, sprofondata nel sedile posteriore, gli occhi leggermente socchiusi, ascoltava la musica.
Quante persone ci saranno al mondo che, sentendo l’attacco della Sinfonietta di Janáček, possono dire con sicurezza che si tratta proprio della Sinfonietta di Janáček? La risposta potrebbe variare tra “pochissimi” e “quasi nessuno”. Eppure, per qualche ragione, Aomame era in grado di riconoscerla.
Janáček aveva composto quella piccola melodia nel 1926. Il tema iniziale era stato scritto come fanfara per una grande manifestazione sportiva. Aomame provò a immaginarsi la Cecoslovacchia nel 1926. I suoi abitanti, dopo la fine della Prima Guerra mondiale e la liberazione dal lungo dominio asburgico, si godevano la pace temporanea che aveva visitato l’Europa centrale, bevendo birra Pilsner nei caffè, e producendo mitragliatrici belle e potenti. Due anni prima si era spento, ignorato dal mondo, Franz Kafka. Presto, non si sa bene da dove, sarebbe comparso Hitler, e in un attimo avrebbe divorato quel paese bello e accogliente, ma allora nessuno sapeva che sarebbe accaduta una cosa tanto terribile. Forse la frase più importante che la storia insegni agli uomini è “A quel tempo nessuno sapeva ciò che sarebbe accaduto”.
Ascoltando la musica, Aomame immaginava il vento che attraversava dolcemente le pianure della Boemia, e pensava agli eventi della storia.
Nel 1926 era morto l’imperatore Taisho, e aveva avuto inizio l’era Showa. Anche in Giappone stava per cominciare una fase buia e odiosa. Finiva il breve interludio del modernismo e della democrazia, e il fascismo acquistava potere.
La storia era, insieme allo sport, una delle passioni di Aomame. Leggeva pochi romanzi, ma era una lettrice vorace di libri che avessero a che fare con la storia. Della storia le piaceva soprattutto il fatto che ogni avvenimento era fondamentalmente legato a un’era e a un luogo determinati. Per lei imparare a memoria i nomi delle ere storiche non era mai stato particolarmente difficile. Anche se non memorizzava le date, le bastava afferrare le relazioni tra i vari eventi, e subito i nomi delle ere le venivano in mente in modo automatico. Per tutta la durata delle medie e del liceo, Aomame aveva ottenuto i voti più alti della classe di storia. Ogni volta che qualcuno diceva di non riuscire a ricordare i nomi delle ere, le sembrava strano. Come mai non riuscivano a imparare una cosa così facile?
Aomame, “piselli verdi”, era il suo vero cognome. Il nonno paterno era della prefettura di Fukushima, e nel suo piccolo paese o villaggi tra le montagne c’erano diverse persone che di cognome facevano Aomame. Ma lì lei non c’era mai stata. Prima che nascesse, il padre aveva chiuso ogni rapporto con la famiglia di origine. E lo stesso aveva fatto la madre. Quindi Aomame non aveva mai conosciuto i nonni. Era raro che facesse dei viaggi, ma quando di tanto in tantole capitava, aveva preso l’abitudine di aprire l’elenco telefonic che trovava nella stanza di albergo per controllare se ci fossero persone di cognome Aomame.
Finora però non le era mai successo; in quakunque città o paese fosse andata, non ne aveva trovata neppure una. E si era sempre sentita come un naufrago solitario, alla deriva nella vastità del mare.
GENERE: Letteratura Internazionale
TRAMA:
1984, Tokyo. Aomame è bloccata in un taxi nel traffico. L'autista le suggerisce, come unica soluzione per non mancare all'appuntamento che l'aspetta, di uscire dalla tangenziale utilizzando una scala di emergenza, nascosta e poco frequentata. Ma, sibillino, aggiunge di fare attenzione: "Non si lasci ingannare dalle apparenze. La realtà è sempre una sola". Negli stessi giorni Tengo, un giovane aspirante scrittore dotato di buona tecnica ma povero d'ispirazione, riceve uno strano incarico: un editor senza scrupoli gli chiede di riscrivere il romanzo di un'enigmatica diciassettenne così da candidarlo a un premio letterario. Ma "La crisalide d'aria" è un romanzo fantastico tanto ricco di immaginazione quanto sottilmente inquietante: la descrizione della realtà parallela alla nostra e di piccole creature che si nascondono nel corpo umano come parassiti turbano profondamente Tengo. L'incontro con l'autrice non farà che aumentare la sua vertigine: chi è veramente Fukada Eriko? Intanto Aomame (che pure non è certo una ragazza qualsiasi: nella borsetta ha un affilatissimo rompighiaccio con cui deve uccidere un uomo) osserva perplessa il mondo che la circonda: sembra quello di sempre, eppure piccoli, sinistri particolari divergono da quello a cui era abituata. Finché un giorno non vede comparire in cielo una seconda luna e sospetta di essere l'unica persona in grado di attraversare la sottile barriera che divide il 1984 dal 1Q84. Ma capisce anche un'altra cosa: che quella barriera sta per infrangersi.
INCIPIT:
Nel taxi la radio trasmetteva un programma di musica classica in Fm. Il brano era Sinfonietta di Janáček. Non esattamente la musica più adatta da sentire in un taxi bloccato nel traffico. E del resto nemmeno l’autista sembrava ascoltarla con troppa attenzione. L’uomo, di mezza età, era impegnato a guardare in silenzio la fila interminabile di auto che aveva davanti, come un pescatore provetto che, ritto a prua, scruta un minaccioso gorgo di correnti. Aomame, sprofondata nel sedile posteriore, gli occhi leggermente socchiusi, ascoltava la musica.
Quante persone ci saranno al mondo che, sentendo l’attacco della Sinfonietta di Janáček, possono dire con sicurezza che si tratta proprio della Sinfonietta di Janáček? La risposta potrebbe variare tra “pochissimi” e “quasi nessuno”. Eppure, per qualche ragione, Aomame era in grado di riconoscerla.
Janáček aveva composto quella piccola melodia nel 1926. Il tema iniziale era stato scritto come fanfara per una grande manifestazione sportiva. Aomame provò a immaginarsi la Cecoslovacchia nel 1926. I suoi abitanti, dopo la fine della Prima Guerra mondiale e la liberazione dal lungo dominio asburgico, si godevano la pace temporanea che aveva visitato l’Europa centrale, bevendo birra Pilsner nei caffè, e producendo mitragliatrici belle e potenti. Due anni prima si era spento, ignorato dal mondo, Franz Kafka. Presto, non si sa bene da dove, sarebbe comparso Hitler, e in un attimo avrebbe divorato quel paese bello e accogliente, ma allora nessuno sapeva che sarebbe accaduta una cosa tanto terribile. Forse la frase più importante che la storia insegni agli uomini è “A quel tempo nessuno sapeva ciò che sarebbe accaduto”.
Ascoltando la musica, Aomame immaginava il vento che attraversava dolcemente le pianure della Boemia, e pensava agli eventi della storia.
Nel 1926 era morto l’imperatore Taisho, e aveva avuto inizio l’era Showa. Anche in Giappone stava per cominciare una fase buia e odiosa. Finiva il breve interludio del modernismo e della democrazia, e il fascismo acquistava potere.
La storia era, insieme allo sport, una delle passioni di Aomame. Leggeva pochi romanzi, ma era una lettrice vorace di libri che avessero a che fare con la storia. Della storia le piaceva soprattutto il fatto che ogni avvenimento era fondamentalmente legato a un’era e a un luogo determinati. Per lei imparare a memoria i nomi delle ere storiche non era mai stato particolarmente difficile. Anche se non memorizzava le date, le bastava afferrare le relazioni tra i vari eventi, e subito i nomi delle ere le venivano in mente in modo automatico. Per tutta la durata delle medie e del liceo, Aomame aveva ottenuto i voti più alti della classe di storia. Ogni volta che qualcuno diceva di non riuscire a ricordare i nomi delle ere, le sembrava strano. Come mai non riuscivano a imparare una cosa così facile?
Aomame, “piselli verdi”, era il suo vero cognome. Il nonno paterno era della prefettura di Fukushima, e nel suo piccolo paese o villaggi tra le montagne c’erano diverse persone che di cognome facevano Aomame. Ma lì lei non c’era mai stata. Prima che nascesse, il padre aveva chiuso ogni rapporto con la famiglia di origine. E lo stesso aveva fatto la madre. Quindi Aomame non aveva mai conosciuto i nonni. Era raro che facesse dei viaggi, ma quando di tanto in tantole capitava, aveva preso l’abitudine di aprire l’elenco telefonic che trovava nella stanza di albergo per controllare se ci fossero persone di cognome Aomame.
Finora però non le era mai successo; in quakunque città o paese fosse andata, non ne aveva trovata neppure una. E si era sempre sentita come un naufrago solitario, alla deriva nella vastità del mare.
mercoledì 11 gennaio 2012
La Metamorfosi
AUTORE: Franz Kafka
GENERE: Narrativa Classica
TRAMA:
Nell'autunno del 1912, a Praga, tra 17 novembre e il 7 dicembre, Franz Kafka scrisse "La metamorfosi", l'incubo sotterraneo e letterale di Gregor Samsa, un commesso viaggiatore che si sveglia un mattino dopo sogni agitati e si ritrova mutato in un enorme insetto. La speranza di recuperare la condizione perduta, i tentativi di adattarsi al nuovo stato, i comportamenti familiari e sociali, l'oppressione della situazione, lo svanire del tempo sono gli ingredienti con i quali l'autore elabora la trama dell'uomo contemporaneo, un essere condannato al silenzio, alla solitudine e all'insignificanza.
INCIPIT:
Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto. Sdraiato nel letto sulla schiena dura come una corazza, bastava che alzasse un po' la testa per vedersi il ventre convesso, bruniccio, spartito da solchi arcuati; in cima al ventre la coperta, sul punto di scivolare per terra, si reggeva a malapena. Davanti agli occhi gli si agitavano le gambe, molto più numerose di prima, ma di una sottigliezza desolante.
«Che cosa mi è capitato?» pensò. Non stava sognando. La sua camera, una normale camera d'abitazione, anche se un po' piccola, gli appariva in luce quieta, fra le quattro ben note pareti. Sopra al tavolo, sul quale era sparpagliato un campionario di telerie svolto da un pacco (Samsa faceva il commesso viaggiatore), stava appesa un'illustrazione che aveva ritagliata qualche giorno prima da un giornale, montandola poi in una graziosa cornice dorata. Rappresentava una signora con un cappello e un boa di pelliccia, che, seduta ben ritta, sollevava verso gli astanti un grosso manicotto, nascondendovi dentro l'intero avambraccio.
Gregor girò gli occhi verso la finestra, e al vedere il brutto tempo - si udivano le gocce di pioggia battere sulla lamiera del davanzale - si sentì invadere dalla malinconia. «E se cercassi di dimenticare queste stravaganze facendo un'altra dormitina?» pensò, ma non potè mandare ad effetto il suo proposito: era abituato a dormire sul fianco destro, e nello stato attuale gli era impossibile assumere tale posizione. Per quanta forza mettesse nel girarsi sul fianco, ogni volta ripiombava indietro supino. Tentò almeno cento volte, chiudendo gli occhi per non vedere quelle gambette divincolantisi, e a un certo punto smise perché un dolore leggero, sordo, mai provato prima cominciò a pungergli il fianco.
«Buon Dio,» pensò, «che mestiere faticoso ho scelto! Dover prendere il treno tutti i santi giorni... Ho molte più preoccupazioni che se lavorassi in proprio a casa, e per di più ho da sobbarcarmi a questa tortura dei viaggi, all'affanno delle coincidenze, a pasti irregolari e cattivi, a contatti umani sempre diversi, mai stabili, mai cordiali. All'inferno tutto quanto!»
Sentì un lieve pizzicorino sul ventre; lentamente, appoggiandosi sul dorso, si spinse più in su verso il capezzale, per poter sollevare meglio la testa, e scoprì il punto dove prudeva: era coperto di tanti puntolini bianchi, di cui non riusciva a capire la natura; con una delle gambe provò a toccarlo, ma la ritirò subito, perché brividi di freddo lo percorsero tutto.
Si lasciò ricadere supino. «Queste levatacce abbrutiscono,» pensò. «Un uomo ha da poter dormire quanto gli occorre. Dire che certi commessi viaggiatori fanno una vita da favorite dell'harem! Quante volte, la mattina, rientrando alla locanda per copiare le commissioni raccolte, li trovo che stanno ancora facendo colazione. Mi comportassi io così col mio principale! Sarei sbattuto fuori all'istante. E chissà, potrebbe anche essere la miglior soluzione. Non mi facessi scrupolo per i miei genitori, già da un pezzo mi sarei licenziato, sarei andato dal principale e gli avrei detto chiaro e tondo l'animo mio, roba da farlo cascar giù dallo scrittoio! Curioso poi quel modo di starsene seduto lassù e di parlare col dipendente dall'alto in basso; per giunta, dato che è duro d'orecchio, bisogna andargli vicinissimo. Be', non è ancora persa ogni speranza; una volta che abbia messo insieme abbastanza soldi da pagare il debito dei miei, mi ci vorranno altri cinque o sei anni, non aspetto neanche un giorno e do il gran taglio. Adesso però bisogna che mi alzi: il treno parte alle cinque.»
E volse gli occhi alla sveglia che ticchettava sul cassettone. «Santo cielo!» pensò. Erano le sei e mezzo: le sfere continuavano a girare tranquille, erano anzi già oltre, si avvicinavano ai tre quarti. Che la soneria non avesse funzionato? Dal letto vedeva l'indice ancora fermo sull'ora giusta, le quattro: aveva suonato, non c'era dubbio. E come mai, con quel trillo così potente da far tremare i mobili, lui aveva continuato pacificamente a dormire? Via, pacificamente proprio no; ma forse proprio per questo più profondamente. Che fare, ora? Il prossimo treno partiva alle sette: per arrivare a prenderlo avrebbe dovuto correre a perdifiato, e il campionario era ancora da riavvolgere, e lui stesso non si sentiva troppo fresco e in gamba. Del resto, fosse anche riuscito a prenderlo, i fulmini del principale non glieli cavava più nessuno, perché al treno delle cinque era andato ad aspettarlo il fattorino della ditta; e sicuramente già da un pezzo aveva ormai riferito che lui era mancato alla partenza. Era una creatura del principale, un essere invertebrato, ottuso. Darsi malato? Sarebbe stato un ripiego sgradevole e sospetto: durante cinque anni d'impiego Gregor non si era mai ammalato una volta. Certamente sarebbe venuto il principale, insieme al medico della cassa mutua, avrebbe deplorato coi genitori la svogliatezza del figlio e, tagliando corto ad ogni giustificazione, avrebbe sottoposto il caso al dottore, per il quale non esisteva che gente perfettamente sana ma senza voglia di lavorare. E si poteva poi dire che in questo caso avesse tutti i torti? In realtà Gregor, a parte una sonnolenza veramente fuori luogo dopo tanto dormire, si sentiva benissimo, aveva anzi un appetito particolarmente gagliardo.
Mentre in gran fretta volgeva tra sè questi pensieri, senza sapersi decidere ad uscire dalie coltri (e la sveglia in quel momento battè le sei e tre quarti), sentì bussare lievemente alla porta dietro il letto.«Gregor,» chiamò una voce - quella di sua madre -, «manca un quarto alle sette, non dovevi partire?» Dolcissima voce! All'udire la propria in risposta, Gregor inorridì: era indubbiamente la sua voce di prima, ma vi si mescolava, come salendo dai precordi, un irreprimibile pigolio lamentoso; talché solo al primo momento le parole uscivano chiare, ma poi, nella risonanza, suonavano distorte, in modo da dare a chi ascoltava l'impressione di non aver udito bene. Avrebbe voluto rispondere esaurientemente e spiegare ogni cosa, ma, viste le circostanze, si limitò a dire: «Sì sì, grazie mamma, mi alzo subito.» Evidentemente la porta di legno non permise che di là ci si accorgesse della voce mutata, poiché la mamma non insistè oltre e si allontanò. Ma il breve dialogo aveva richiamato l'attenzione degli altri familiari sul fatto che Gregor, contro ogni previsione, era ancora in casa; e già ad una delle porte laterali bussava il padre, piano, ma a pugno chiuso. «Gregor, Gregor,» chiamò, «che succede?» E dopo un breve intervallo levò di nuovo, più profondo, il richiamo ammonitore: «Gregor! !Gregor!» Intanto all'uscio dirimpetto si udiva la sommessa implorazione della sorella: «Gregor! Non stai bene? Ti serve qualcosa?» «Ecco, son pronto,» rispose lui in tutte e due le direzioni, e si sforzò di togliere alla voce ogni inflessione strana pronunziando molto chiaramente le singole parole e intercalandole con lunghe pause. Il padre infatti se ne tornò alla sua colazione, ma la sorella sussurrò: «Apri, Gregor, te ne scongiuro.» Ma Gregor si guardò bene dall'aprire, anzi lodò in cuor suo l'abitudine presa viaggiando di chiudere sempre, anche a casa, tutte le porte a chiave.
Per prima cosa voleva alzarsi tranquillo e indisturbato, vestirsi e soprattutto far colazione, e solo dopo pensare al resto: giacché, se ne rendeva ben conto, standosene a letto ad almanaccare non avrebbe mai risolto nulla di sensato. Si ricordava che già parecchie volte, a letto, gli era avvenuto di sentire qualche dolorino, provocato probabilmente da una posizione sbagliata, ed aspettava ansioso di veder dileguarsi una ad una quelle chimere. Che poi il cambiamento di voce non fosse altro che il prodromo di un potente raffreddore, malattia tipica della sua professione, gli pareva indiscutibile.
Non ebbe alcuna difficoltà a rimuovere la coperta: gli bastò gonfiarsi un poco, ed essa cadde a terra da sè. Ma lì cominciavano i guai, segnatamente a causa dell'inusitata larghezza del suo corpo. Per alzarsi, avrebbe dovuto far forza sulle braccia e sulle mani, mentre non possedeva più che quella fila di gambette, annaspanti senza tregua nei modi più svariati ed incontrollabili. Se cercava di piegarne una, era proprio quella la prima ad irrigidirsi, e quando finalmente riusciva a farle compiere il movimento voluto, tutte le altre si dimenavano come scatenate, in un'agitazione intensissima e dolorosa. «Uno non dovrebbe mai fermarsi a letto senza motivo,» riflettè Gregor.
Cercò di uscire dal letto dapprima con la metà inferiore del corpo: ma questa parte, che egli non era ancora riuscito a scorgere, nè a figurarsene l'aspetto, si dimostrò difficile a smuoversi; gli ci volle un tempo infinito; allora, quasi fuori di sè, raccolta ogni energia, si buttò in avanti alla cieca, ma sbagliò direzione, picchiò con violenza contro il fondo del letto, sentì un male atroce e capì che quella zona del suo corpo era forse, per il momento, proprio la più sensibile.
Tentò allora di iniziare la manovra dalla parte superiore e girò cautamente il capo verso la sponda del letto. Questo movimento gli fu agevole, e con l'intera massa del corpo, nonostante la lunghezza e il peso, riuscì infine a compiere la stessa manovra. Ma quando si trovò con la testa sospesa fuori del letto, provò paura: continuando così avrebbe finito col cascare di sotto, e a meno di un miracolo si sarebbe ferito alla testa. E guai se perdeva i sensi proprio adesso: meglio rimanere a letto, piuttosto.
Ma quando, dopo altrettanta fatica, giacque di nuovo sospirando nella posizione precedente, allo spettacolo delle sue gambette, che si azzuffavano più ostinate che mai, disperò di poter ridurre a ragione quell'intemperanza; era pazzesco - si disse - restare più a lungo coricato, tanto valeva giocare il tutto per il tutto, se ciò gli dava una pur minima speranza di staccarsi dal letto. Nel tempo stesso non trascurava di ripetersi che una calma, calmissima riflessione era più utile di ogni decisione precipitosa.
GENERE: Narrativa Classica
TRAMA:
Nell'autunno del 1912, a Praga, tra 17 novembre e il 7 dicembre, Franz Kafka scrisse "La metamorfosi", l'incubo sotterraneo e letterale di Gregor Samsa, un commesso viaggiatore che si sveglia un mattino dopo sogni agitati e si ritrova mutato in un enorme insetto. La speranza di recuperare la condizione perduta, i tentativi di adattarsi al nuovo stato, i comportamenti familiari e sociali, l'oppressione della situazione, lo svanire del tempo sono gli ingredienti con i quali l'autore elabora la trama dell'uomo contemporaneo, un essere condannato al silenzio, alla solitudine e all'insignificanza.
INCIPIT:
Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto. Sdraiato nel letto sulla schiena dura come una corazza, bastava che alzasse un po' la testa per vedersi il ventre convesso, bruniccio, spartito da solchi arcuati; in cima al ventre la coperta, sul punto di scivolare per terra, si reggeva a malapena. Davanti agli occhi gli si agitavano le gambe, molto più numerose di prima, ma di una sottigliezza desolante.
«Che cosa mi è capitato?» pensò. Non stava sognando. La sua camera, una normale camera d'abitazione, anche se un po' piccola, gli appariva in luce quieta, fra le quattro ben note pareti. Sopra al tavolo, sul quale era sparpagliato un campionario di telerie svolto da un pacco (Samsa faceva il commesso viaggiatore), stava appesa un'illustrazione che aveva ritagliata qualche giorno prima da un giornale, montandola poi in una graziosa cornice dorata. Rappresentava una signora con un cappello e un boa di pelliccia, che, seduta ben ritta, sollevava verso gli astanti un grosso manicotto, nascondendovi dentro l'intero avambraccio.
Gregor girò gli occhi verso la finestra, e al vedere il brutto tempo - si udivano le gocce di pioggia battere sulla lamiera del davanzale - si sentì invadere dalla malinconia. «E se cercassi di dimenticare queste stravaganze facendo un'altra dormitina?» pensò, ma non potè mandare ad effetto il suo proposito: era abituato a dormire sul fianco destro, e nello stato attuale gli era impossibile assumere tale posizione. Per quanta forza mettesse nel girarsi sul fianco, ogni volta ripiombava indietro supino. Tentò almeno cento volte, chiudendo gli occhi per non vedere quelle gambette divincolantisi, e a un certo punto smise perché un dolore leggero, sordo, mai provato prima cominciò a pungergli il fianco.
«Buon Dio,» pensò, «che mestiere faticoso ho scelto! Dover prendere il treno tutti i santi giorni... Ho molte più preoccupazioni che se lavorassi in proprio a casa, e per di più ho da sobbarcarmi a questa tortura dei viaggi, all'affanno delle coincidenze, a pasti irregolari e cattivi, a contatti umani sempre diversi, mai stabili, mai cordiali. All'inferno tutto quanto!»
Sentì un lieve pizzicorino sul ventre; lentamente, appoggiandosi sul dorso, si spinse più in su verso il capezzale, per poter sollevare meglio la testa, e scoprì il punto dove prudeva: era coperto di tanti puntolini bianchi, di cui non riusciva a capire la natura; con una delle gambe provò a toccarlo, ma la ritirò subito, perché brividi di freddo lo percorsero tutto.
Si lasciò ricadere supino. «Queste levatacce abbrutiscono,» pensò. «Un uomo ha da poter dormire quanto gli occorre. Dire che certi commessi viaggiatori fanno una vita da favorite dell'harem! Quante volte, la mattina, rientrando alla locanda per copiare le commissioni raccolte, li trovo che stanno ancora facendo colazione. Mi comportassi io così col mio principale! Sarei sbattuto fuori all'istante. E chissà, potrebbe anche essere la miglior soluzione. Non mi facessi scrupolo per i miei genitori, già da un pezzo mi sarei licenziato, sarei andato dal principale e gli avrei detto chiaro e tondo l'animo mio, roba da farlo cascar giù dallo scrittoio! Curioso poi quel modo di starsene seduto lassù e di parlare col dipendente dall'alto in basso; per giunta, dato che è duro d'orecchio, bisogna andargli vicinissimo. Be', non è ancora persa ogni speranza; una volta che abbia messo insieme abbastanza soldi da pagare il debito dei miei, mi ci vorranno altri cinque o sei anni, non aspetto neanche un giorno e do il gran taglio. Adesso però bisogna che mi alzi: il treno parte alle cinque.»
E volse gli occhi alla sveglia che ticchettava sul cassettone. «Santo cielo!» pensò. Erano le sei e mezzo: le sfere continuavano a girare tranquille, erano anzi già oltre, si avvicinavano ai tre quarti. Che la soneria non avesse funzionato? Dal letto vedeva l'indice ancora fermo sull'ora giusta, le quattro: aveva suonato, non c'era dubbio. E come mai, con quel trillo così potente da far tremare i mobili, lui aveva continuato pacificamente a dormire? Via, pacificamente proprio no; ma forse proprio per questo più profondamente. Che fare, ora? Il prossimo treno partiva alle sette: per arrivare a prenderlo avrebbe dovuto correre a perdifiato, e il campionario era ancora da riavvolgere, e lui stesso non si sentiva troppo fresco e in gamba. Del resto, fosse anche riuscito a prenderlo, i fulmini del principale non glieli cavava più nessuno, perché al treno delle cinque era andato ad aspettarlo il fattorino della ditta; e sicuramente già da un pezzo aveva ormai riferito che lui era mancato alla partenza. Era una creatura del principale, un essere invertebrato, ottuso. Darsi malato? Sarebbe stato un ripiego sgradevole e sospetto: durante cinque anni d'impiego Gregor non si era mai ammalato una volta. Certamente sarebbe venuto il principale, insieme al medico della cassa mutua, avrebbe deplorato coi genitori la svogliatezza del figlio e, tagliando corto ad ogni giustificazione, avrebbe sottoposto il caso al dottore, per il quale non esisteva che gente perfettamente sana ma senza voglia di lavorare. E si poteva poi dire che in questo caso avesse tutti i torti? In realtà Gregor, a parte una sonnolenza veramente fuori luogo dopo tanto dormire, si sentiva benissimo, aveva anzi un appetito particolarmente gagliardo.
Mentre in gran fretta volgeva tra sè questi pensieri, senza sapersi decidere ad uscire dalie coltri (e la sveglia in quel momento battè le sei e tre quarti), sentì bussare lievemente alla porta dietro il letto.«Gregor,» chiamò una voce - quella di sua madre -, «manca un quarto alle sette, non dovevi partire?» Dolcissima voce! All'udire la propria in risposta, Gregor inorridì: era indubbiamente la sua voce di prima, ma vi si mescolava, come salendo dai precordi, un irreprimibile pigolio lamentoso; talché solo al primo momento le parole uscivano chiare, ma poi, nella risonanza, suonavano distorte, in modo da dare a chi ascoltava l'impressione di non aver udito bene. Avrebbe voluto rispondere esaurientemente e spiegare ogni cosa, ma, viste le circostanze, si limitò a dire: «Sì sì, grazie mamma, mi alzo subito.» Evidentemente la porta di legno non permise che di là ci si accorgesse della voce mutata, poiché la mamma non insistè oltre e si allontanò. Ma il breve dialogo aveva richiamato l'attenzione degli altri familiari sul fatto che Gregor, contro ogni previsione, era ancora in casa; e già ad una delle porte laterali bussava il padre, piano, ma a pugno chiuso. «Gregor, Gregor,» chiamò, «che succede?» E dopo un breve intervallo levò di nuovo, più profondo, il richiamo ammonitore: «Gregor! !Gregor!» Intanto all'uscio dirimpetto si udiva la sommessa implorazione della sorella: «Gregor! Non stai bene? Ti serve qualcosa?» «Ecco, son pronto,» rispose lui in tutte e due le direzioni, e si sforzò di togliere alla voce ogni inflessione strana pronunziando molto chiaramente le singole parole e intercalandole con lunghe pause. Il padre infatti se ne tornò alla sua colazione, ma la sorella sussurrò: «Apri, Gregor, te ne scongiuro.» Ma Gregor si guardò bene dall'aprire, anzi lodò in cuor suo l'abitudine presa viaggiando di chiudere sempre, anche a casa, tutte le porte a chiave.
Per prima cosa voleva alzarsi tranquillo e indisturbato, vestirsi e soprattutto far colazione, e solo dopo pensare al resto: giacché, se ne rendeva ben conto, standosene a letto ad almanaccare non avrebbe mai risolto nulla di sensato. Si ricordava che già parecchie volte, a letto, gli era avvenuto di sentire qualche dolorino, provocato probabilmente da una posizione sbagliata, ed aspettava ansioso di veder dileguarsi una ad una quelle chimere. Che poi il cambiamento di voce non fosse altro che il prodromo di un potente raffreddore, malattia tipica della sua professione, gli pareva indiscutibile.
Non ebbe alcuna difficoltà a rimuovere la coperta: gli bastò gonfiarsi un poco, ed essa cadde a terra da sè. Ma lì cominciavano i guai, segnatamente a causa dell'inusitata larghezza del suo corpo. Per alzarsi, avrebbe dovuto far forza sulle braccia e sulle mani, mentre non possedeva più che quella fila di gambette, annaspanti senza tregua nei modi più svariati ed incontrollabili. Se cercava di piegarne una, era proprio quella la prima ad irrigidirsi, e quando finalmente riusciva a farle compiere il movimento voluto, tutte le altre si dimenavano come scatenate, in un'agitazione intensissima e dolorosa. «Uno non dovrebbe mai fermarsi a letto senza motivo,» riflettè Gregor.
Cercò di uscire dal letto dapprima con la metà inferiore del corpo: ma questa parte, che egli non era ancora riuscito a scorgere, nè a figurarsene l'aspetto, si dimostrò difficile a smuoversi; gli ci volle un tempo infinito; allora, quasi fuori di sè, raccolta ogni energia, si buttò in avanti alla cieca, ma sbagliò direzione, picchiò con violenza contro il fondo del letto, sentì un male atroce e capì che quella zona del suo corpo era forse, per il momento, proprio la più sensibile.
Tentò allora di iniziare la manovra dalla parte superiore e girò cautamente il capo verso la sponda del letto. Questo movimento gli fu agevole, e con l'intera massa del corpo, nonostante la lunghezza e il peso, riuscì infine a compiere la stessa manovra. Ma quando si trovò con la testa sospesa fuori del letto, provò paura: continuando così avrebbe finito col cascare di sotto, e a meno di un miracolo si sarebbe ferito alla testa. E guai se perdeva i sensi proprio adesso: meglio rimanere a letto, piuttosto.
Ma quando, dopo altrettanta fatica, giacque di nuovo sospirando nella posizione precedente, allo spettacolo delle sue gambette, che si azzuffavano più ostinate che mai, disperò di poter ridurre a ragione quell'intemperanza; era pazzesco - si disse - restare più a lungo coricato, tanto valeva giocare il tutto per il tutto, se ciò gli dava una pur minima speranza di staccarsi dal letto. Nel tempo stesso non trascurava di ripetersi che una calma, calmissima riflessione era più utile di ogni decisione precipitosa.
lunedì 9 gennaio 2012
Il Quaderno Di Maya
AUTORE: Isabel Allende
GENERE: Letteratura Internazionale
TRAMA:
Maya Vidal, l’adolescente protagonista del nuovo romanzo di Isabel Allende, caduta nel circuito dell’alcol e della droga riesce a riemergere dai bassifondi di Las Vegas e in fuga da spacciatori e agenti dell’Fbi approda nell’incontaminato arcipelago di Chiloé, nel sud del Cile. Amori difficili, frammenti di storia cilena ancora carichi di sofferenza, famiglie disgregate, disagio giovanile, marginalità e degrado trovano come contraltare il valore delle tradizioni locali, il rispetto per l’ambiente e un modello di vita comunitaria nell’affermazione del valore della diversità e del rispetto reciproco. Isabel Allende torna a raccontare la vita di una grande donna, la storia di Maya, in un romanzo che affronta con grande delicatezza le relazioni umane: le amicizie incondizionate, le storie d’amore palpabili come quelle più invisibili, gli amori adolescenziali e quelli lunghi una vita. Un ritmo incalzante, una prosa disincantata e ironica per questa nuova prova narrativa che si tinge di noir e per l’ennesima eccezionale galleria di donne volitive e uomini capaci di amare.
INCIPIT:
Una settimana fa, all’aeroporto di San Francisco, la nonna mi abbracciò senza piangere e mi ripetè che, se avevo minimamente a cuore la mia esistenza, non dovevo mettermi in contatto con nessuno finchè non avessimo avuto la certezza che i miei nemici non mi cercavano più. La mia Nini è paranoica, come tutti gli abitanti della Repubblica popolare indipendente di Berkeley, perseguitati dal governo e dagli extraterrestri, ma nel mio caso non stava esagerando: qualsiasi precauzione non sarebbe stata di troppo. Mi consegnò un quaderno con cento pagine perché tenessi un diario della mia vita, come avevo fatto dagli otto ai quindici anni, quando ancora il destino non mi aveva girato le spalle. “Avrai tempo per annoiarti, Maya. Approfitta per scrivere delle enormi sciocchezze che hai commesso, magari in questo modo ti rendi conto della loro portata” mi disse. Esistono diversi miei diari, sigillati con nastor adesivo industriale, che mio nonno conservava sotto chiave nel suo studio e che adesso la mia Nini tiene in una scatola da scarpe sotto il letto. Questo dovrebbe essere il mio quaderno numero nove. La mia Nini è convinta che mi serviranno quando entrerò in analisi, perché contengono la chiave per sciogliere i nodi della mia personalità; ma se li avesse letti, saprebbe che contengono una tale quantità di frottole da disorientare lo stesso Freud. In linea di massima mia nonna diffida dei professionisti che guadagnano a ore, visto che a loro non conviene ottenere risultati rapidi. Tuttavia, fa un’eccezione per gli psichiatri, perché uno di loro la salvò dalla depressione e dalle trappole della magia quando si era ficcata in testa di metersi in contatto con i morti.
Per non offenderla, misi il quaderno nello zaino, ma non avevo intenzione di usarlo, anche se qui, in effetti, il tempo si dilata e scrivere è un modo per occuparlo. Questa prima settimana di esilio è stata lunga per me. Mi trovo su un’isoletta quasi invisibile sulla carta geografica, calata in pieno Medioevo. Mi risulta complicato scrivere della mia vita, perché non distinguo tra i ricordi e ciò che è frutto della mia immaginazione; la pura verità può risultare tediosa e per questa ragione, senza rendermene conto, la modifico o la enfatizzo, anche se mi sono riproposta di correggere questo difetto e di mentire il meno possibile in futuro. Ed è così che ora, quando perfino gli yanomamis dell’Amazzonia usano i computer, mi ritrovo a scrivere a mano. Procedo lentamente e la mia grafia sembra cirillico, visto che nemmeno io riesco a decifrarla, ma immagino che pagina dopo pagina inizierà a migliorare. Scrivere è come andare in bicicletta: non lo dimentichi, per quanto passino anni senza fare pratica. Cerco di procedere in ordine cronologico, dato che un qualche ordine si deve essere, e ho pensato che seguire questo mi sarebbe risultato facile, ma perso il filo, divago o mi ricordo di qualcosa di importante diverse pagine più avanti e non c’è più modo di inserirlo. La mia memoria si muove tra cerchi, spirali e acrobazie da trapezista.
GENERE: Letteratura Internazionale
TRAMA:
Maya Vidal, l’adolescente protagonista del nuovo romanzo di Isabel Allende, caduta nel circuito dell’alcol e della droga riesce a riemergere dai bassifondi di Las Vegas e in fuga da spacciatori e agenti dell’Fbi approda nell’incontaminato arcipelago di Chiloé, nel sud del Cile. Amori difficili, frammenti di storia cilena ancora carichi di sofferenza, famiglie disgregate, disagio giovanile, marginalità e degrado trovano come contraltare il valore delle tradizioni locali, il rispetto per l’ambiente e un modello di vita comunitaria nell’affermazione del valore della diversità e del rispetto reciproco. Isabel Allende torna a raccontare la vita di una grande donna, la storia di Maya, in un romanzo che affronta con grande delicatezza le relazioni umane: le amicizie incondizionate, le storie d’amore palpabili come quelle più invisibili, gli amori adolescenziali e quelli lunghi una vita. Un ritmo incalzante, una prosa disincantata e ironica per questa nuova prova narrativa che si tinge di noir e per l’ennesima eccezionale galleria di donne volitive e uomini capaci di amare.
INCIPIT:
Una settimana fa, all’aeroporto di San Francisco, la nonna mi abbracciò senza piangere e mi ripetè che, se avevo minimamente a cuore la mia esistenza, non dovevo mettermi in contatto con nessuno finchè non avessimo avuto la certezza che i miei nemici non mi cercavano più. La mia Nini è paranoica, come tutti gli abitanti della Repubblica popolare indipendente di Berkeley, perseguitati dal governo e dagli extraterrestri, ma nel mio caso non stava esagerando: qualsiasi precauzione non sarebbe stata di troppo. Mi consegnò un quaderno con cento pagine perché tenessi un diario della mia vita, come avevo fatto dagli otto ai quindici anni, quando ancora il destino non mi aveva girato le spalle. “Avrai tempo per annoiarti, Maya. Approfitta per scrivere delle enormi sciocchezze che hai commesso, magari in questo modo ti rendi conto della loro portata” mi disse. Esistono diversi miei diari, sigillati con nastor adesivo industriale, che mio nonno conservava sotto chiave nel suo studio e che adesso la mia Nini tiene in una scatola da scarpe sotto il letto. Questo dovrebbe essere il mio quaderno numero nove. La mia Nini è convinta che mi serviranno quando entrerò in analisi, perché contengono la chiave per sciogliere i nodi della mia personalità; ma se li avesse letti, saprebbe che contengono una tale quantità di frottole da disorientare lo stesso Freud. In linea di massima mia nonna diffida dei professionisti che guadagnano a ore, visto che a loro non conviene ottenere risultati rapidi. Tuttavia, fa un’eccezione per gli psichiatri, perché uno di loro la salvò dalla depressione e dalle trappole della magia quando si era ficcata in testa di metersi in contatto con i morti.
Per non offenderla, misi il quaderno nello zaino, ma non avevo intenzione di usarlo, anche se qui, in effetti, il tempo si dilata e scrivere è un modo per occuparlo. Questa prima settimana di esilio è stata lunga per me. Mi trovo su un’isoletta quasi invisibile sulla carta geografica, calata in pieno Medioevo. Mi risulta complicato scrivere della mia vita, perché non distinguo tra i ricordi e ciò che è frutto della mia immaginazione; la pura verità può risultare tediosa e per questa ragione, senza rendermene conto, la modifico o la enfatizzo, anche se mi sono riproposta di correggere questo difetto e di mentire il meno possibile in futuro. Ed è così che ora, quando perfino gli yanomamis dell’Amazzonia usano i computer, mi ritrovo a scrivere a mano. Procedo lentamente e la mia grafia sembra cirillico, visto che nemmeno io riesco a decifrarla, ma immagino che pagina dopo pagina inizierà a migliorare. Scrivere è come andare in bicicletta: non lo dimentichi, per quanto passino anni senza fare pratica. Cerco di procedere in ordine cronologico, dato che un qualche ordine si deve essere, e ho pensato che seguire questo mi sarebbe risultato facile, ma perso il filo, divago o mi ricordo di qualcosa di importante diverse pagine più avanti e non c’è più modo di inserirlo. La mia memoria si muove tra cerchi, spirali e acrobazie da trapezista.
giovedì 5 gennaio 2012
È Ora Di Dormire
AUTORE: David Baddiel
GENERE: Letteratura Internazionale
TRAMA:
Gabriel Jacoby soffre d'insonnia. Ogni cosa intorno a lui, dalla sua impressionante collezione di macchinette da caffè al suo strampalato compagno di appartamento, sta andando a pezzi. Ma a lui non importa: è troppo impegnato a fantasticare sul suo folle amore per la donna che è felicemente sposata con suo fratello. Ecco perché ha deciso di sprecare così le sue giornate. Perché sa che non potrà mai essere felice. Non c'è nessuna possibilità quando si è innamorati della moglie del proprio fratello... A meno che questa non abbia una sorella che le somiglia...
INCIPIT:
2.17. Non devo alzarmi fino a mezzogiorno e mezzo. Quindi, vediamo: due ore di scatti nervosi tra le lenzuola (4.17), poi forse tre ore di coma totale, se sono fortunato (7.17), seguite da un’ora e mezzo di veglia irremovibile (8.47), e poi il sontuoso mattino, quando finalmente riposo alla grande, sognando e lasciandomi cullare come se per tutto ciò avessi un talento naturale. Fanno… sei ore e cinquantatrè minuti di sonno in totale. Non sono proprio le mitiche otto ore, ma non è male, tutto sommato.
È questo il mio problema. E devo dire che lo coltivo con molta cura. A volte, alle feste, mi presento così: piacere, Gabriel Jacoby, Insonne. Ma del resto tutti abbiamo bisogno dei nostri segni particolari negativi. Non sto parlando di autodisapprovazione – quella è solo un nodo nella trama dell’inettitudine – ma di una vera e propria regolazione difettosa, un grande fottuto difetto, un buco nero terapeutico attraverso il quale possiamo presentarci con il sottoteso Sono interessante, pericoloso e romantico. Comunque questa, alla fine della giornata, è davvero l’ultima delle preoccupazioni.
2.19 in punto. Chi soffre d’insonnia è inflessibile per quanto riguarda il tempo, soprattutto di notte, perché ogni minuto è un altro granello di sabbia che passa nella clessidra e nella tua testa verso il giorno successivo. Ma le 2 e 19 non sono niente. Ah no, le 2 e 19 sono ancora la parte migliore della giornata, c’è ancora tanto tempo davanti. Un insonne di classe mondiale aspetta a definire brutta la sua notte almeno fino alle cinque e mezzo del mattino, e solo se è stata accompagnata da ansia, dolori articolari e duecento puntatine al bagno.
Dormo, o piuttosto sto sdraiato in fredda iperattività cerebrale, con una mascherina per gli occhi e i tappi per le orecchie, una sorta di riserva di privazione sensoriale, patetica ma portatile. Una vecchia mascherina presa in aereo con scritto sopra Virgin: più che una marca un marchio, uno scherzo di Dio che mi stampa sugli occhi, come se fosse un messaggio ricattatorio, il nome della coscienza che desidero tanto disperatamente. Lego questa mascherina sugli occhi ogni notte sempre più forte, così stretta da far male e da lasciarmi accecato da luci psichedeliche per una ventina di minuti ogni mattina. A completamento di questa chiusura stretta, faccio due nodi ai due elastici che si mettono intorno alla testa; ma l’ho fatto così spesso con questa mascherina che ora, dietro, si è formato un grumo di elastico enorme e duro, che a volte, proprio quando sono finalmente sul punto di trovare una via di uscita dall’insonnia, mi preme contro la testa e mi sveglia. Ho bisogno di una mascherina nuova, ma nei negozi non si trovano, bisogna salire su un maledetto aereo per prenderne una, e io sono anni che non vado in aereo. Ci sono delle notti, però, in cui sono così disperato che prendo in considerazione l’idea di mettere da parte i soldi del sussidio di disoccupazione e spenderli tutti in un viaggio per, che so, l’Australia, le Bermuda, le Fiji, un posto qualsiasi, pur di procurarmi un cazzo di mascherina. I tappi per le orecchie, invece – delle palline di cera, rosa come lo scroto di un coniglio, li ficco ogni notte sempre più in fondo, nella speranza, suppongo, di svenire: se i Metallica decidessero a sorpresa di fare un’esibizione esclusiva nella mia camera, non sarei in grado di sentirli, ma in compenso il rumore del sangue che mi rimbomba in testa non mi lascia dormire. Una notte i tappi mi resteranno conficcati nelle orecchie e dovrà chiamare i pompieri.
Che cosa cerco nella lenta, lentissima oscurità? Quando avevo dodici anni mi hanno tolto le tonsille, e mi ricordo ancora l’anestesista che contava alla rovescia, dieci, nove, otto, sette, sei: a sei mi sono addormentato. Ecco cosa voglio: voglio conoscere il momento in cui ci si addormenta. Stupidamente, perché quello è il centro autoreferenziale di tutta questa maledizione della mente: la luce nella mia testa, quella che mi tiene sveglio, l’ho lasciata accesa io, per non perdermi il momento in cui qualcuno viene a spegnerla. Sono un idiota con addosso una mascherina che gioca a mosca cieca con se stesso.
C’è una donna, qui. Quando sono solo, mentre conto alla rovescia nel buio, è quel che credo di desiderare di più, almeno la maggior parte delle volte. Perciò, quando la fottuta notte diventa un’enorme notte infernale che mi lacera l’anima, quando i demoni della mente escono per fare la loro abituale danza campestre delle 5.30 nella mia testa, allora mi dico: grazie a Dio c’è qualcun altro qui con me. Mi giro e… indovinta un po’? lei sta dormendo! E allora penso: Tu, brutta stronza. Te ne stai sdraiata qui, a russare stupidamente – dennnntro, fuoooori, dennnnnnntro, fuoooooooori, e ogni rantolo del tuo respiro dice: “È una cazzata questa faccenda del sonno, nessun proble…”. PORCA PUTTANA, MI STAI PIGLIANDO PER IL CULO!!
In realtà sto mentendo. Una donna, qui, c’era. Se n’è appena andata, in quella che posso solo supporre fosse una reazione offesa. La verità è che le cose non andavano molto bene. E poi sono andate anche peggio.
GENERE: Letteratura Internazionale
TRAMA:
Gabriel Jacoby soffre d'insonnia. Ogni cosa intorno a lui, dalla sua impressionante collezione di macchinette da caffè al suo strampalato compagno di appartamento, sta andando a pezzi. Ma a lui non importa: è troppo impegnato a fantasticare sul suo folle amore per la donna che è felicemente sposata con suo fratello. Ecco perché ha deciso di sprecare così le sue giornate. Perché sa che non potrà mai essere felice. Non c'è nessuna possibilità quando si è innamorati della moglie del proprio fratello... A meno che questa non abbia una sorella che le somiglia...
INCIPIT:
2.17. Non devo alzarmi fino a mezzogiorno e mezzo. Quindi, vediamo: due ore di scatti nervosi tra le lenzuola (4.17), poi forse tre ore di coma totale, se sono fortunato (7.17), seguite da un’ora e mezzo di veglia irremovibile (8.47), e poi il sontuoso mattino, quando finalmente riposo alla grande, sognando e lasciandomi cullare come se per tutto ciò avessi un talento naturale. Fanno… sei ore e cinquantatrè minuti di sonno in totale. Non sono proprio le mitiche otto ore, ma non è male, tutto sommato.
È questo il mio problema. E devo dire che lo coltivo con molta cura. A volte, alle feste, mi presento così: piacere, Gabriel Jacoby, Insonne. Ma del resto tutti abbiamo bisogno dei nostri segni particolari negativi. Non sto parlando di autodisapprovazione – quella è solo un nodo nella trama dell’inettitudine – ma di una vera e propria regolazione difettosa, un grande fottuto difetto, un buco nero terapeutico attraverso il quale possiamo presentarci con il sottoteso Sono interessante, pericoloso e romantico. Comunque questa, alla fine della giornata, è davvero l’ultima delle preoccupazioni.
2.19 in punto. Chi soffre d’insonnia è inflessibile per quanto riguarda il tempo, soprattutto di notte, perché ogni minuto è un altro granello di sabbia che passa nella clessidra e nella tua testa verso il giorno successivo. Ma le 2 e 19 non sono niente. Ah no, le 2 e 19 sono ancora la parte migliore della giornata, c’è ancora tanto tempo davanti. Un insonne di classe mondiale aspetta a definire brutta la sua notte almeno fino alle cinque e mezzo del mattino, e solo se è stata accompagnata da ansia, dolori articolari e duecento puntatine al bagno.
Dormo, o piuttosto sto sdraiato in fredda iperattività cerebrale, con una mascherina per gli occhi e i tappi per le orecchie, una sorta di riserva di privazione sensoriale, patetica ma portatile. Una vecchia mascherina presa in aereo con scritto sopra Virgin: più che una marca un marchio, uno scherzo di Dio che mi stampa sugli occhi, come se fosse un messaggio ricattatorio, il nome della coscienza che desidero tanto disperatamente. Lego questa mascherina sugli occhi ogni notte sempre più forte, così stretta da far male e da lasciarmi accecato da luci psichedeliche per una ventina di minuti ogni mattina. A completamento di questa chiusura stretta, faccio due nodi ai due elastici che si mettono intorno alla testa; ma l’ho fatto così spesso con questa mascherina che ora, dietro, si è formato un grumo di elastico enorme e duro, che a volte, proprio quando sono finalmente sul punto di trovare una via di uscita dall’insonnia, mi preme contro la testa e mi sveglia. Ho bisogno di una mascherina nuova, ma nei negozi non si trovano, bisogna salire su un maledetto aereo per prenderne una, e io sono anni che non vado in aereo. Ci sono delle notti, però, in cui sono così disperato che prendo in considerazione l’idea di mettere da parte i soldi del sussidio di disoccupazione e spenderli tutti in un viaggio per, che so, l’Australia, le Bermuda, le Fiji, un posto qualsiasi, pur di procurarmi un cazzo di mascherina. I tappi per le orecchie, invece – delle palline di cera, rosa come lo scroto di un coniglio, li ficco ogni notte sempre più in fondo, nella speranza, suppongo, di svenire: se i Metallica decidessero a sorpresa di fare un’esibizione esclusiva nella mia camera, non sarei in grado di sentirli, ma in compenso il rumore del sangue che mi rimbomba in testa non mi lascia dormire. Una notte i tappi mi resteranno conficcati nelle orecchie e dovrà chiamare i pompieri.
Che cosa cerco nella lenta, lentissima oscurità? Quando avevo dodici anni mi hanno tolto le tonsille, e mi ricordo ancora l’anestesista che contava alla rovescia, dieci, nove, otto, sette, sei: a sei mi sono addormentato. Ecco cosa voglio: voglio conoscere il momento in cui ci si addormenta. Stupidamente, perché quello è il centro autoreferenziale di tutta questa maledizione della mente: la luce nella mia testa, quella che mi tiene sveglio, l’ho lasciata accesa io, per non perdermi il momento in cui qualcuno viene a spegnerla. Sono un idiota con addosso una mascherina che gioca a mosca cieca con se stesso.
C’è una donna, qui. Quando sono solo, mentre conto alla rovescia nel buio, è quel che credo di desiderare di più, almeno la maggior parte delle volte. Perciò, quando la fottuta notte diventa un’enorme notte infernale che mi lacera l’anima, quando i demoni della mente escono per fare la loro abituale danza campestre delle 5.30 nella mia testa, allora mi dico: grazie a Dio c’è qualcun altro qui con me. Mi giro e… indovinta un po’? lei sta dormendo! E allora penso: Tu, brutta stronza. Te ne stai sdraiata qui, a russare stupidamente – dennnntro, fuoooori, dennnnnnntro, fuoooooooori, e ogni rantolo del tuo respiro dice: “È una cazzata questa faccenda del sonno, nessun proble…”. PORCA PUTTANA, MI STAI PIGLIANDO PER IL CULO!!
In realtà sto mentendo. Una donna, qui, c’era. Se n’è appena andata, in quella che posso solo supporre fosse una reazione offesa. La verità è che le cose non andavano molto bene. E poi sono andate anche peggio.
lunedì 2 gennaio 2012
Oggi Come Allora
AUTORE: Diane Keaton
GENERE: Autobiografia
TRAMA:
"Alla mamma piacevano le massime, le citazioni, gli slogan. Sulla parete della cucina c'erano sempre attaccati dei bigliettini. Ad esempio la parola PENSA. Ho trovato PENSA fissato con una puntina da disegno alla bacheca nel suo studio. L'ho visto appiccicato con lo scotch a una scatola di matite su cui aveva fatto un collage. Ho perfino trovato un libretto intitolato PENSA sul suo comodino. Alla mamma piaceva PENSARE."
Inizia così l'indimenticabile mémoir che Diane Keaton, attrice nota in tutto il mondo, musa ineguagliabile di Woody Allen e brillante interprete di film di grande successo, dedica a se stessa e a sua madre, l'adorabile e complicata Dorothy, scomparsa di recente. Per raccontare la propria storia, infatti, Diane si è resa conto che doveva raccontare anche quella di sua madre, rivelando come il loro strettissimo legame sia stato determinante per i destini di entrambe. Attingendo alle migliaia di pagine di diari che Dorothy aveva tenuto per gran parte della sua vita - istantanee di una donna concentrata sul suo ruolo di moglie e madre, ma costantemente pervasa da una grande energia creativa e intellettuale - Diane Keaton traccia non solo un ritratto personalissimo di sé, ma anche di quattro generazioni della sua famiglia, chiaro esempio del sogno americano. Più che l'autobiografia di una star, Oggi come allora è la storia toccante e originale, scritta con stile e grazia, di un'attrice leggendaria, vera icona femminile, e il viaggio esistenziale di una donna che si interroga sul senso della vita e del successo, trovando la risposta nel valore della famiglia e degli affetti.
(Fonte: LibriMondadori.it)
INCIPIT:
Pensa
Alla mamma piacevano le massime, le citazioni, gli slogan. Sulla parete della cucina c’erano sempre attaccati dei bigliettini. Ad esempio la parola pensa. Ho trovato pensa fissato con una puntina da disegno alla bacheca del suo studio. L’ho visto appiccicato con lo scotch a una scatola di matite su cui aveva fatto un collage. Ho perfino trovato un libretto intitolato pensa sul suo comodino. Alla mamma piaceva pensare. In un taccuino ha scritto: “sto leggendo un libro di Tom Robbins, Il nuovo sesso: cowgirl. Il passaggio sul matrimonio è in sintonia con le istanze femministe. Lo trascrivo per poterci PENSARE in futuro”. Continuava con la citazione da Robbins: “Per tante povere sceme che hanno subito il lavaggio del cervello il matrimonio è l’esperienza suprema. Per gli uomini, il matrimonio è un mezzo per ottimizzare la logistica. L’uomo fa in modo di avere cibo, letto, lavanderia, televisione… progenie e comodità tutto sotto lo stesso tetto… Ma per una donna il matrimonio rappresenta la resa. La donna smette di lottare… e da quel momento lascia ogni attività davvero interessante e significativa al marito, che ha promesso di ‘avere cura di lei’… Le donne vivono più a lungo degli uomini perché in realtà non hanno veramente vissuto”. Alla mamma piaceva pensare alla vita, e soprattutto all’esperienza di essere una donna. E le piaceva anche scrivere di questo.
A metà degli anni Settanta, durante una visita ai miei, mentre stampavo nella camera oscura di mia madre delle fotografie che avevo fatto ad Atlantic City, ho trovato una cosa che non avevo mai visto prima. Era una sorta di… non saprei, una specie di album. Sulla copertina c’era un collage di foto di famiglia, fatto da lei, con la scritta: “È il viaggio che conta non la destinazione”. Mi sono messa a sfogliarlo. Anche se conteneva parecchi collage fatti con fotografie e ritagli di giornale, c’erano moltissime pagine scritte.
Giornata molto proficua all’Hunter’s Bookstore. Abbiamo riordinato il settore Arte e abbiamo scoperto un sacco di libri interessanti che erano nascosti. Mi hanno assunta da due settimane. Mi pagano tre dollari e trentacinque centesimi all’ora. Oggi mi hanno dato ottantanove dollari in tutto.
Non era uno dei tipici album della mamma, con i soliti tovagliolini della Clifton’s Cafeteria, vecchie fotografie in bianco e nero e le mie poco eccitanti pagelle. Quello era un diario.
Un’annotazione del 2 agosto 1976 diceva:
“ATTENZIONE A QUESTA PAGINA. Parlo a te, possibile lettore del futuro, perché ti ci vorrà del coraggio. Ho intenzione di dire proprio quello che penso. Sono arrabbiata. Bersagio: Jack – insulti, tutti quelli che lui mi ha rivolto – e che NON ho dimenticato, il che costituisce di sicuro un problema – ‘Razza di lurida bastarda’ – tutto detto – tutto pensato veramente. Dio, chi diavolo si crede di essere?”.
Per me era più che sufficiente. Era troppo crudo, troppo, davvero. Non volevo sapere nulla di un aspetto della vita dei miei genitori che avrebbe potuto distruggere la mia percezione del loro amore. Lo posai, uscii dalla camera oscura e non aprii neanche uno degli altri suoi ottantacinque diari fino a quando mia madre morì, circa trent’anni dopo. Ma naturalmente, per quanto cercassi di negare la loro presenza, non potevo fare a meno di vederli in fila negli scaffali, o impilati sotto il telefono, o addirittura lì a fissarmi da un cassetto della cucina. Una volta mi misi a sfogliare un libro di mia madre che era sul tavolino del salotto. One Hundred Flowers di Georgia O’Keeffe, e sotto ci trovai un diario intitolato: Chi lo dice che non hai avuto una chance? Era come una specie di cospirazione, “Prendici, Diane. Prendici!. Scordatevelo. Non esisteva propri che ripetessi quell’esperienza. Ma ero rimasta colpita dalla tenacia della mamma. Come faceva a continuare a scrivere senza un minimo di pubblico, nemmeno i suoi familiari? Semplicemente, lo faceva.
Scriveva che le sarebbe piaciuto riprendere a studiare a quarant’anni. Scriveva chiedendosi come sarebbe stato fare l’insegnante. Scriveva a proposito di tutti i gatti randagi che salvava. Quando sua sorella Marti fu colpita da un cancro alla pelle e prese quasi tutto il naso, scrisse anche di quello. Quando papà si ammalò nel 1990, il suo diario si infiammò per l’ingiustizia di quel tumore che gli attaccava il cervello. Il racconto della sua morte si è rivelato uno dei più bei resoconti di mia madre. Era come se prendersi cura di Jack glielo facesse amare in un modo che la aiutava a diventare la persona che aveva sempre desiderato essere.
Oggi ho cercato di fare mangiare Jack. Ma non riusciva. Dopo un po’, mi sono tolta gli occhiali. Ho avvicinato la testa alla sua e gli ho detto, gli ho sussurrato, che mi mancava. Mi sono messa a piangere. Non volevo che mi vedesse, così ho girato la testa. E Jack, con quel po’ di forza che gli restava in quel suo dannato corpo, ha preso il fazzoletto che avevo in tasca e lentamente, come ormai faceva tutto, molto lentamente, mi ha guardato con quegli occhi azzurri così penetranti e mi ha asciugato le lacrime. “Ce la caveremo, Dorothy”.
Lui no. Alla fine la mamma si prese cura di papà proprio come si era presa cura di Randy, Robin, Dorrie e me, per tutta la nostra vita. Ma chi c’era accanto a lei quando scrisse con mano tremante: “Giugno 1993. Oggi è il giorno in cui ho saputo che ho un principio di Alzheimer. Che paura”. Iniziò così una battaglia contro la perdita della memoria che sarebbe durata quindici anni.
Continuò a scrivere. Quando non riuscì più a scrivere paragrafi, scriveva semplici frasi, come “Ci feriremmo di meno se ci toccassimo di più?” e “Onora te stesso”, e brevi domande o affermazioni come “Svelta. Che giorno è oggi?” o stranezze tipo: “La mia testa sta girando su se stessa”. Quando non riuscì più a scrivere frasi, scriveva parole. AFFITTO. CHIAMATA. FIORI. AUTO. E anche la sua parola preferita, PENSA. Quando non le rimasero più parole, scrisse numeri, finchè non fu più in grado di scrivere niente.
Dorothy Deanne Keaton era nata a Winfield, Kansas, nel 1921. I suoi genitori, Beulah e Roy, si spostarono in California quando lei non aveva ancora tre anni. Erano emigrati in terre più prospere, per inseguire il grande sogno. E così finirono sulle colline di Pasadena. La mamma durante le scuole superiori suonava il piano e cantava in un trio che si chiamava Two Dots and a Dash. Aveva sedici anni quando il padre se ne andò, lasciando Beulah e le sue tre figlie a cavarsela da sole. L’ultima parte degli anni Trenta fu un periodo difficile per le Keaton. Beulah, che non aveva lavorato un solo giorno in vita sua, dovette cercarsi un impiego. Dorothy rinunciò al sogno di andare al college per dare una mano, finchè finalmente Beulah trovò lavoro come bidella.
Ho una fotografia di Dorothy sedicenne accanto a suo padre, Roy Keaton. Perché ha lasciato la sua figlia preferita, quella che gli assomigliava tanto, perché? Come ha potuto andarsene sapendo che una parte del cuore di Dorothy sarebbe rimasta per sempre spezzata?
Tutto cambiò quando Dorothy incontrò Jack Hall su un campo da basket al Losa Angeles Pacific College, a Highland Park. Alla mamma piaceva raccontare di come quel bel ragazzo con i capelli neri e gli occhi azzurri che aveva un appuntamento con sua sorella Martha non avesse avuto occhi che per lei. Rideva e diceva: “È stato amore a prima vista”. E dev’essere stato proprio così, perché non molto tempo dopo scapparono insieme all’hotel Stardust di Las Vegas.
La mamma non mi ha mai parlato dei suoi sogni, dei suoi progetti. Ma qualcosa si poteva intuire. Era presidente del consiglio di istituto della nostra scuola, e anceh dell’Arroyo Vista Ladies Club. Era insegnante alla scuola domenicale della Chiesa Metodista. Partecipava a tutti i concorsi pubblicizzati sul retro delle scatole di cereali. Le piacevano moltissimo i quiz e i giochi televisivi. Il nostro preferito era “Queen for a Day”, presentato da Jack Bailey, che apriva ogni puntata, cinque giorni alla settimana, con la frase: “E TU… vorresti essere… REGINA… PER… UN… GIORNO?”. Il gioco funzionava così: Bailey intervistava quattro donne, e quella che era messa peggio – secondo l’applausometro – era incoronata “regina per un giorno”. Poi partiva “Pump and Circumstance” e Bailey avvolgeva la vincitrice in un mantello di un velluto rosso bordato di zibellino, le posava una luccicante corona sulla testa, e per finire le porgeva quattro dozzine di rose dal gambo lunghissimo. La mamma e zia Martha compilarono la richiesta di partecipazione più di una volta, sciorinando le loro tristi storie. Alla mamma riuscì quasi il colpaccio quando scrisse: “Mio marito ha bisogno di un polmone”. Quando le chieserò maggiori dettagli, disse la verità… Be’, più o meno. Jack Hall, un appassionato sub, aveva bisogno di andare maggiormente in profondità per procurare più cibo per la sua famiglia. La mamma fu scartata.
GENERE: Autobiografia
TRAMA:
"Alla mamma piacevano le massime, le citazioni, gli slogan. Sulla parete della cucina c'erano sempre attaccati dei bigliettini. Ad esempio la parola PENSA. Ho trovato PENSA fissato con una puntina da disegno alla bacheca nel suo studio. L'ho visto appiccicato con lo scotch a una scatola di matite su cui aveva fatto un collage. Ho perfino trovato un libretto intitolato PENSA sul suo comodino. Alla mamma piaceva PENSARE."
Inizia così l'indimenticabile mémoir che Diane Keaton, attrice nota in tutto il mondo, musa ineguagliabile di Woody Allen e brillante interprete di film di grande successo, dedica a se stessa e a sua madre, l'adorabile e complicata Dorothy, scomparsa di recente. Per raccontare la propria storia, infatti, Diane si è resa conto che doveva raccontare anche quella di sua madre, rivelando come il loro strettissimo legame sia stato determinante per i destini di entrambe. Attingendo alle migliaia di pagine di diari che Dorothy aveva tenuto per gran parte della sua vita - istantanee di una donna concentrata sul suo ruolo di moglie e madre, ma costantemente pervasa da una grande energia creativa e intellettuale - Diane Keaton traccia non solo un ritratto personalissimo di sé, ma anche di quattro generazioni della sua famiglia, chiaro esempio del sogno americano. Più che l'autobiografia di una star, Oggi come allora è la storia toccante e originale, scritta con stile e grazia, di un'attrice leggendaria, vera icona femminile, e il viaggio esistenziale di una donna che si interroga sul senso della vita e del successo, trovando la risposta nel valore della famiglia e degli affetti.
(Fonte: LibriMondadori.it)
INCIPIT:
Pensa
Alla mamma piacevano le massime, le citazioni, gli slogan. Sulla parete della cucina c’erano sempre attaccati dei bigliettini. Ad esempio la parola pensa. Ho trovato pensa fissato con una puntina da disegno alla bacheca del suo studio. L’ho visto appiccicato con lo scotch a una scatola di matite su cui aveva fatto un collage. Ho perfino trovato un libretto intitolato pensa sul suo comodino. Alla mamma piaceva pensare. In un taccuino ha scritto: “sto leggendo un libro di Tom Robbins, Il nuovo sesso: cowgirl. Il passaggio sul matrimonio è in sintonia con le istanze femministe. Lo trascrivo per poterci PENSARE in futuro”. Continuava con la citazione da Robbins: “Per tante povere sceme che hanno subito il lavaggio del cervello il matrimonio è l’esperienza suprema. Per gli uomini, il matrimonio è un mezzo per ottimizzare la logistica. L’uomo fa in modo di avere cibo, letto, lavanderia, televisione… progenie e comodità tutto sotto lo stesso tetto… Ma per una donna il matrimonio rappresenta la resa. La donna smette di lottare… e da quel momento lascia ogni attività davvero interessante e significativa al marito, che ha promesso di ‘avere cura di lei’… Le donne vivono più a lungo degli uomini perché in realtà non hanno veramente vissuto”. Alla mamma piaceva pensare alla vita, e soprattutto all’esperienza di essere una donna. E le piaceva anche scrivere di questo.
A metà degli anni Settanta, durante una visita ai miei, mentre stampavo nella camera oscura di mia madre delle fotografie che avevo fatto ad Atlantic City, ho trovato una cosa che non avevo mai visto prima. Era una sorta di… non saprei, una specie di album. Sulla copertina c’era un collage di foto di famiglia, fatto da lei, con la scritta: “È il viaggio che conta non la destinazione”. Mi sono messa a sfogliarlo. Anche se conteneva parecchi collage fatti con fotografie e ritagli di giornale, c’erano moltissime pagine scritte.
Giornata molto proficua all’Hunter’s Bookstore. Abbiamo riordinato il settore Arte e abbiamo scoperto un sacco di libri interessanti che erano nascosti. Mi hanno assunta da due settimane. Mi pagano tre dollari e trentacinque centesimi all’ora. Oggi mi hanno dato ottantanove dollari in tutto.
Non era uno dei tipici album della mamma, con i soliti tovagliolini della Clifton’s Cafeteria, vecchie fotografie in bianco e nero e le mie poco eccitanti pagelle. Quello era un diario.
Un’annotazione del 2 agosto 1976 diceva:
“ATTENZIONE A QUESTA PAGINA. Parlo a te, possibile lettore del futuro, perché ti ci vorrà del coraggio. Ho intenzione di dire proprio quello che penso. Sono arrabbiata. Bersagio: Jack – insulti, tutti quelli che lui mi ha rivolto – e che NON ho dimenticato, il che costituisce di sicuro un problema – ‘Razza di lurida bastarda’ – tutto detto – tutto pensato veramente. Dio, chi diavolo si crede di essere?”.
Per me era più che sufficiente. Era troppo crudo, troppo, davvero. Non volevo sapere nulla di un aspetto della vita dei miei genitori che avrebbe potuto distruggere la mia percezione del loro amore. Lo posai, uscii dalla camera oscura e non aprii neanche uno degli altri suoi ottantacinque diari fino a quando mia madre morì, circa trent’anni dopo. Ma naturalmente, per quanto cercassi di negare la loro presenza, non potevo fare a meno di vederli in fila negli scaffali, o impilati sotto il telefono, o addirittura lì a fissarmi da un cassetto della cucina. Una volta mi misi a sfogliare un libro di mia madre che era sul tavolino del salotto. One Hundred Flowers di Georgia O’Keeffe, e sotto ci trovai un diario intitolato: Chi lo dice che non hai avuto una chance? Era come una specie di cospirazione, “Prendici, Diane. Prendici!. Scordatevelo. Non esisteva propri che ripetessi quell’esperienza. Ma ero rimasta colpita dalla tenacia della mamma. Come faceva a continuare a scrivere senza un minimo di pubblico, nemmeno i suoi familiari? Semplicemente, lo faceva.
Scriveva che le sarebbe piaciuto riprendere a studiare a quarant’anni. Scriveva chiedendosi come sarebbe stato fare l’insegnante. Scriveva a proposito di tutti i gatti randagi che salvava. Quando sua sorella Marti fu colpita da un cancro alla pelle e prese quasi tutto il naso, scrisse anche di quello. Quando papà si ammalò nel 1990, il suo diario si infiammò per l’ingiustizia di quel tumore che gli attaccava il cervello. Il racconto della sua morte si è rivelato uno dei più bei resoconti di mia madre. Era come se prendersi cura di Jack glielo facesse amare in un modo che la aiutava a diventare la persona che aveva sempre desiderato essere.
Oggi ho cercato di fare mangiare Jack. Ma non riusciva. Dopo un po’, mi sono tolta gli occhiali. Ho avvicinato la testa alla sua e gli ho detto, gli ho sussurrato, che mi mancava. Mi sono messa a piangere. Non volevo che mi vedesse, così ho girato la testa. E Jack, con quel po’ di forza che gli restava in quel suo dannato corpo, ha preso il fazzoletto che avevo in tasca e lentamente, come ormai faceva tutto, molto lentamente, mi ha guardato con quegli occhi azzurri così penetranti e mi ha asciugato le lacrime. “Ce la caveremo, Dorothy”.
Lui no. Alla fine la mamma si prese cura di papà proprio come si era presa cura di Randy, Robin, Dorrie e me, per tutta la nostra vita. Ma chi c’era accanto a lei quando scrisse con mano tremante: “Giugno 1993. Oggi è il giorno in cui ho saputo che ho un principio di Alzheimer. Che paura”. Iniziò così una battaglia contro la perdita della memoria che sarebbe durata quindici anni.
Continuò a scrivere. Quando non riuscì più a scrivere paragrafi, scriveva semplici frasi, come “Ci feriremmo di meno se ci toccassimo di più?” e “Onora te stesso”, e brevi domande o affermazioni come “Svelta. Che giorno è oggi?” o stranezze tipo: “La mia testa sta girando su se stessa”. Quando non riuscì più a scrivere frasi, scriveva parole. AFFITTO. CHIAMATA. FIORI. AUTO. E anche la sua parola preferita, PENSA. Quando non le rimasero più parole, scrisse numeri, finchè non fu più in grado di scrivere niente.
Dorothy Deanne Keaton era nata a Winfield, Kansas, nel 1921. I suoi genitori, Beulah e Roy, si spostarono in California quando lei non aveva ancora tre anni. Erano emigrati in terre più prospere, per inseguire il grande sogno. E così finirono sulle colline di Pasadena. La mamma durante le scuole superiori suonava il piano e cantava in un trio che si chiamava Two Dots and a Dash. Aveva sedici anni quando il padre se ne andò, lasciando Beulah e le sue tre figlie a cavarsela da sole. L’ultima parte degli anni Trenta fu un periodo difficile per le Keaton. Beulah, che non aveva lavorato un solo giorno in vita sua, dovette cercarsi un impiego. Dorothy rinunciò al sogno di andare al college per dare una mano, finchè finalmente Beulah trovò lavoro come bidella.
Ho una fotografia di Dorothy sedicenne accanto a suo padre, Roy Keaton. Perché ha lasciato la sua figlia preferita, quella che gli assomigliava tanto, perché? Come ha potuto andarsene sapendo che una parte del cuore di Dorothy sarebbe rimasta per sempre spezzata?
Tutto cambiò quando Dorothy incontrò Jack Hall su un campo da basket al Losa Angeles Pacific College, a Highland Park. Alla mamma piaceva raccontare di come quel bel ragazzo con i capelli neri e gli occhi azzurri che aveva un appuntamento con sua sorella Martha non avesse avuto occhi che per lei. Rideva e diceva: “È stato amore a prima vista”. E dev’essere stato proprio così, perché non molto tempo dopo scapparono insieme all’hotel Stardust di Las Vegas.
La mamma non mi ha mai parlato dei suoi sogni, dei suoi progetti. Ma qualcosa si poteva intuire. Era presidente del consiglio di istituto della nostra scuola, e anceh dell’Arroyo Vista Ladies Club. Era insegnante alla scuola domenicale della Chiesa Metodista. Partecipava a tutti i concorsi pubblicizzati sul retro delle scatole di cereali. Le piacevano moltissimo i quiz e i giochi televisivi. Il nostro preferito era “Queen for a Day”, presentato da Jack Bailey, che apriva ogni puntata, cinque giorni alla settimana, con la frase: “E TU… vorresti essere… REGINA… PER… UN… GIORNO?”. Il gioco funzionava così: Bailey intervistava quattro donne, e quella che era messa peggio – secondo l’applausometro – era incoronata “regina per un giorno”. Poi partiva “Pump and Circumstance” e Bailey avvolgeva la vincitrice in un mantello di un velluto rosso bordato di zibellino, le posava una luccicante corona sulla testa, e per finire le porgeva quattro dozzine di rose dal gambo lunghissimo. La mamma e zia Martha compilarono la richiesta di partecipazione più di una volta, sciorinando le loro tristi storie. Alla mamma riuscì quasi il colpaccio quando scrisse: “Mio marito ha bisogno di un polmone”. Quando le chieserò maggiori dettagli, disse la verità… Be’, più o meno. Jack Hall, un appassionato sub, aveva bisogno di andare maggiormente in profondità per procurare più cibo per la sua famiglia. La mamma fu scartata.
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