domenica 12 giugno 2011

Felicità®

AUTORE: Will Ferguson
GENERE: Romanzo 

TRAMA:

Il compito di Edwin de Valu, giovane editor in una casa editrice newyorkese, è quello di pubblicare manuali di self help, di metter mano nel "mucchio fangoso" di manoscritti non richiesti e tanto meno desiderati che affluiscono ininterrottamente in tutte le case editrici e di scrivere lettere di cortese rifiuto ai loro autori. Ma capita, talvolta, che un mostruoso dattiloscritto di mille pagine diventi un vero bestseller, prometta di far tutti felici, di curare tutti i mali del mondo, di far scoprire il segreto di una vita sessuale entusiasmante. La cosa strana è che, grazie a quella lettura, il mondo si trasforma davvero in un luogo dannatamente felice. Con il conseguente crollo dei centri fitness, del mercato del tabacco, dell'alcol, della droga...

INCIPIT:
La Grand Avenue taglia esattamente il cuore della città, dalla 71°esima Stada fin giù al porto e, nonostante le sue otto corsie e un viale alberato nel mezzo, ha un aspetto claustrofobico e angusto. Da entrambi i lati svettano imponenti edifici edoardiani, creando con le loro facciate due muraglie ininterrotte. Molti di questi palazzi furono costruiti alla fine degli anni venti, durante il Grande Boom della Potassa, con tutto ciò che ne consegue: un torvo aspetto da capitalismo calvinista e un senso di oppressione e grevità. Edifici senza una risata. Da lassù, dove siedono gli angeli, la Grand Avenue sembre effettivamente bellissima, un'autentica vetrina di dignità architettonica. Dal basso invece, al livello della strada, lo spettacolo è tutto diverso, pietrose corsie caotiche e rumorose, intasate di gas di scarico e tassisti incazzati, farbneticanti accattoni fuori di testa e impiegati frettolosi. Un mondo costantemente immerso nel frastuono, dove il rumore del traffico rimbomba tra gli edifici di uno spaventoso ruggito cacofonico. Qui il rumore è una presenza fissa. Privo di un posto dove andare e di una via di fuga, rimane imprigionato in un'onda stazionaria perpetua, un persistente feedback di ferraglia urbana. Scariche elettrostatiche degli dei.
Se in alto la sensazione dominante è di tipo visivo e in basso, a livello della strada, di tipo uditivo, nelle profondità del metrò a essere saturato, e ad avere la peggio, è l'olfatto. Qui, tra i miasmi degli scappamenti, i veicoli strepitano in un infinito nastro di Moebius di lavoro. sudore, sale e sporchi guadagni. Un circo frenetico dove i cavalii hanno l'enfisema, la vernice si scrosta e il fetore di alitosi e di odori corporali si rincorre in densi mulinelli per l'aria, nell'aria: anzi è l'aria. Corpi che inalano diossido, riciclano scorie,pigiati in fomazioni sudaticce tra la calca dell'ora di punta mattutina. Nella città, lo strato più basso, il livello più infimo, è il fetore.
Edwin Vincent de Valu (alias Ed, alias Eddie, alias Edwynne ai tempi delle letture di poesia nel dormitorio del college) emerge dal sottosuolo all'incrocio tra Faust e Broadview come una tartaruga in fondo a un canyon. Sulla Grand Avenue la pioggia èlurida prima ancora di toccare terra. Una volta a Edwin ne era caduta una goccia isolata sul dorso della mano e si era fermato, stupito da quell'unica stilla d'acqua, già striata di fuliggine.
Edwin è un giovanotto magro, garbato, con un passo lungo da spaventapasseri e capelli stopposi che si rifiutano di tenere la scriminatura. Anche con un soprabito firmato e un paio di scarpe a coda si rondine di Coquette, Edwin de Valu riesce a passare straordinariamente inosservato. Scarsità di consistenza. E’ un peso leggero in tutti i sensi, e il pendolarismo giornaliero quasi lo sommerge. Nel darwinismo urbano dell’ora di punta, Edwin deve lottare anche soltanto per restare a galla, deve mettercela tutta anche soltanto per tenere la testa fuori dal diluvio. Nessuno, men che meno lo stesso Edwin, potrebbe mai sospettare che le sorti del mondo occidentale presto graveranno sulle sue esili spalle.
Sul lato est della Grand Avenue il retrogusto di latte acido e di urina vecchia, così onnipresente da sentirlo sulla lingua, salutò Edwin come un familiare ceffone in faccia. Come un motivo ripetuto fino alla nausea. Una metafora di qualcos’altro. Qualcosa di peggio.

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